Barbara tornò all’ospedale della Villa Panamericana il giorno successivo e non trovò niente di cambiato. Lei sperava sempre che accadesse il miracolo di vedere il suo Roberto in piedi che le parlava sorridendo. Sapeva che era soltanto un sogno, che prima o poi sarebbe accaduto il contrario e qualcuno le avrebbe detto che per suo figlio non c’era più speranza. Ma era un sogno che le dava la forza per andare avanti. Quando entrò nella camera vide Azela al lavoro, stava mettendo in ordine la stanza, apriva le finestre per far entrare un po’ di sole e cambiava le lenzuola al letto del figlio.
Faceva caldo, l’estate stava arrivando. Un refolo di vento di mare penetrò dai vetri accostati. Nella stanza c’era un gigantesco ventilatore a pale attaccato al soffitto che veniva utilizzato soltanto quando il caldo si faceva insopportabile. Lo imponeva la politica di risparmio energetico. Persino sulle pareti bianche della clinica c’era scritto che risparmiare energia era un dovere di ogni buon cittadino.
Barbara sedette davanti al ragazzo, dopo averlo baciato in fronte. Era un rito sentire il calore della sua pelle, il cuore che batteva lento, accorgersi che era vivo e che non poteva abbandonarlo. Una maledetta flebo in vena lo alimentava da giorni e lui non rispondeva. Non poteva farlo. Aveva gli occhi chiusi e la bocca serrata a descrivere una smorfia di dolore.
Azela la salutò.
“Non c’è niente di nuovo” disse.
“Purtroppo” rispose Barbara sconfortata.
Azela esitò un poco, poi le chiese ciò che più le stava a cuore.
“Sei stata da lui?”
“Sì.”
“E allora? Che cosa ti ha detto?”
Barbara ci pensò un po’ prima di rispondere. Non sapeva se sarebbe stato prudente confidarsi con Azela, dopo tutto la conosceva da poco e poi le infermiere avevano fama di essere persone dalla lingua lunga. C’era il rischio che andasse a spifferare tutto non appena voltato l’angolo di quella stanza.
“Non so se è il caso di parlarne qui” rispose.
“Oggi siamo tranquille. Non c’è nessuno dei superiori in giro. Altrimenti non avrei affrontato l’argomento”.
Barbara considerò che era merito di Azela se aveva conosciuto Armando, quindi aveva diritto di sapere quello che era accaduto, forse l’infermiera era l’unica persona che poteva aiutarla e consigliarla per il meglio. Barbara era tormentata da mille dubbi e incertezze. Non aveva mai avuto fede nella santería, anzi la sua fede cattolica condannava certi riti come superstizioni.
“Mi ha detto una cosa terribile.”
E raccontò tutto, dallo spavento per le teste mozzate di quelle povere colombe fino al rito, alla divinazione delle conchiglie che le avevano rivelato la colpa del figlio e il motivo della malattia.
“Hai visto che avevo ragione? A cosa pensi che servano i medici contro un ossessore? Questa è una faccenda di santería ”.
La parola santería la pronunciò a bassa voce, anche se sapeva che non c’era nessuno in giro che poteva ascoltare era sempre meglio essere prudenti, perché venire scoperte a parlare di riti magici e superstizioni in orario di lavoro poteva costare molto caro.
Barbara però non aveva detto la cosa più importante.
Fu Azela a entrare in argomento.
“Armando come pensa di liberarlo?” le chiese.
Barbara non sapeva come dirlo e poi era indecisa se confidarsi fino in fondo. Era una cosa troppo assurda.
“È terribile…” balbettò.
“Che cosa?” chiese Azela che moriva dalla curiosità.
“Dobbiamo fare uno scambio. L’ossessore vuole un’altra persona al posto di mio figlio.”
“Uno scambio di teste” precisò Azela.
“Armando l’ha chiamato così” annuì Barbara.
“Immaginavo una cosa del genere. Non sono molti i casi come quello di tuo figlio, ma quando accadono è così che si risolvono.”
Barbara scosse la testa affranta. Le si leggeva in volto preoccupazione e paura. Soprattutto indecisione.
“Non so che fare, Azela” confessò.
“È in gioco la vita di tuo figlio. Pensaci bene. Il destino ti ha dato una grossa responsabilità.”
“E poi non so se credere a queste cose, la mia religione me lo vieta. Se dicessi a padre Antonio quello che ho fatto sarebbe in collera con me.”
“Se non credi dopo quello che Armando ti ha detto sei proprio una sciocca. Quell’uomo non è un imbroglione. Hai visto come vive? Se fosse un ciarlatano avrebbe fatto fortuna alle spalle degli altri. A lui non interessano i beni materiali, si contenta del necessario per vivere.”
“Anche se credessi non saprei che fare. Pensi che sia giusto consegnare la vita di un altro a quel maledetto ossessore?”
Azela si fece pensierosa.
“Dipende…” rispose.
“Cosa vuoi dire?”
Azela sorrise rassicurante. Le piaceva fare la misteriosa e far cadere dall’alto le sue soluzioni. E poi questa era una cosa davvero importante, l’idea che aveva in mente avrebbe scacciato ogni dubbio dalla testa di Barbara.
“Di questo non possiamo parlane qui. Vieni a casa mia stasera, mangeremo qualcosa insieme e ti dirò cosa ho pensato. Vedrai che troveremo una soluzione”.
Detto questo Azela uscì dalla stanza, lasciando Barbara a contemplare suo figlio, tormentata da dubbi e ricordi. Vedeva il ragazzo immobile su quel letto d’ospedale e pensava che non sarebbe dovuto accadere. Non a lei che aveva già sopportato tante prove e non aveva bisogno anche di questa. Dio le stava chiedendo troppo. Sarebbe andata a casa di Azela e avrebbe ascoltato quello che aveva da dirle. L’unica cosa che proprio non doveva fare era restare inerme al capezzale di Roberto a vederlo morire.
(4 – continua)