ACQUA ALLA GOLA 01

(Roberto)

- Non imparerai mai la puntualità.

Gli dico quella frase con il solito tono paterno, mentre lo aspetto sulla soglia dell’appartamento, come parlassi a un ragazzino che non crescerà mai.

Enzo sta percorrendo l’ultima rampa di scale, un sorriso malizioso sul volto, nascosto sotto i ciuffi di barba. Quando mi si accosta sulla soglia, lo inquadro meglio: porta una giacca di lana color senape, con i bottoni da marinaio, sotto cui spuntano dei jeans scuri, a sigaretta, con il risvolto alto sulle Clarks. Enzo si accorge che lo sto squadrando e allarga ancora di più il sorriso, mentre fa il suo ingresso in casa.

- Sei in forma smagliante! – la voce proviene dal tavolo in sala d’ingresso, a cui è seduto Vittorio.

Enzo, resta in piedi sulle prime piastrelle di casa, fa ballare lo sguardo sui nostri volti, poi si issa sulle punte dei piedi.

- Ma che minchia di cena state facendo? – dice incrociando le mani al petto – qui c’è da festeggiare.

- Ah sì?

- Avete davanti il nuovo store manager. Vi offro una cena!

 

- Sì, abbiamo firmato il contratto dopo pranzo. Il team manager mi ha dato una pacca sulla spalla e mi ha detto di far funzionare la baracca.

Il locale è una pizzeria piccolina alla periferia della città. Allocata sul fianco del parcheggio di un discount, davanti alla chiesa del quartiere. Qui le case sono vecchie fattorie riadattate ad appartamenti per immigrati, basse e ammuffite con i loro cortili polverosi.

- A tempo indeterminato, vi rendete conto?

Gli occhi di Enzo brillano sulla pizza ai quattro formaggi. Vittorio ed io lo ascoltiamo in silenzio.

- Tutta la fatica che ho dovuto fare… Ma finalmente!

Vittorio allunga la mano verso quella di Enzo, gliela stringe calorosamente.

- A quanto sarà? – gli domando sfregando l’indice sul pollice.

- Robi, che vuoi che ne sappia! Ero talmente emozionato che mi sono dimenticato che cifra ci fosse scritta!

- Beh, di questi tempi… Non stai a guardare il capello… – taglia Vittorio.

- Ho solo pensato ad andare in quel negozio chic del centro e comprarmi qualcosa di decente, per non fare più la figura del morto di fame!

- Molto belli i vestiti – commento passando la mano sul cardigan verde pisello – saran costati una fortuna…

- Mille – fa Enzo senza tentennamenti.

Due fazzoletti di carta si rincorrono per strada. Un vento gelido accarezza i muri delle case e si insinua tra le fessure di porte e finestre. Fuori dalla città (ma noi ancora non avremmo potuto accorgercene) sta salendo dai fossi una nebbia vetrosa, che presto nasconderà la città agli occhi.

(Vittorio)

La sento che si aggira per la casa, fa rumore, lo fa apposta. Quella bastarda schifosa mi vuole svegliare, mi vuole disturbare a ogni costo. Apro un occhio e cerco il visore della sveglia: sono solo le undici. Merda. La testa mi scoppia. E’ come se me l’avessero bastonata. E lei che gira, sbatte tappeti, ciabatta come una spastica, parla ad alta voce, impreca. Non ne posso più. Adesso mi alzo e la ammazzo, quella troia. Scendo dal letto, mi trascino nel bagno. Mi chiudo a chiave. La sento sospirare e dire qualcosa, tipo “Era ora, il fallito”. Mi lavo i denti, mi insapono la faccia. Esco. Lei è nel corridoio che passa il Folletto. Ha la faccia tirata. Borbotta qualcosa sulla pulizia della casa. Che fa schifo. Io la ignoro. La cosa la fa incazzare ancora di più. Lo so. Lo faccio apposta. Vado in cucina, mi preparo una tazza di the con le fette biscottate al malto del Mulino Bianco. Imburro le fette. Ci spalmo della marmellata. Lei trova una scusa per venire in cucina. E attacca il solito pezzo. Che è stufa dell’andazzo. Che la casa non è un albergo. Che ho trentotto anni e sono un bamboccione. Un fallito. A cosa mi è servita la laurea in lettere 110 e lode se poi non faccio un cazzo e non lavoro? A quel punto sbotto pure io. Porca puttana, dico, e no, questo no, bastarda schifosa, questo non lo puoi dire, perché, adesso, un lavoro ce l’ho e me lo sono inventato io, dopo anni di stress, menate e curriculum di merda per Adecco, Vedior, Manpower.

Adesso ho una licenza da ambulante. Faccio i mercati del sabato e domenica, quelli dell’antiquariato. Vendo fumetti e libri usati. Fanculo. Adesso sono come tutti gli altri, solo che mi sbatto meno e non devo scattare sull’attenti e mangiare la merda di qualche datore di lavoro sadico. Ma la troia è schizzata. Saranno le pasticche che prende. Gli psicofarmaci. Tavor, Xanax, Benzodiazepine, Alprazolam, Valium. Nessuno la ferma più. Dice che il lavoro che faccio è una bella merda. Dice. Che soddisfazione. Laureato per andare a vendere cianfrusaglie con altri dementi. Semianalfabeti, per giunta. E per cosa? Qual è il guadagno? 50 euro al giorno. 100, quando va bene? E le tasse, la pensione? Come pensi di pagarle. Perché adesso è una stangata pagare le tasse e quasi non ce la facciamo io e tuo padre con uno stipendio da 1700 euro al mese da statali. E così via all’infinito. La troia parla. Io spalmo le fette e trangugio la bile. Cerco di non strozzarmi. Non posso farci niente. O la ammazzo, o sopporto. Quel che mi fa più male, è che ha ragione. Ha sempre avuto ragione. Sanno dove colpire queste troie. Mi sono preso la licenza da ambulante solo per sfuggire a qualche lavoro da schiavo che mi avrebbe tolto l’unica cosa che mi rimane: il tempo. Il tempo libero per non fare un cazzo tutto il giorno mentre gli altri sgobbano. Dal lunedì al venerdì nessuno mi rompe il cazzo. Il sabato e la domenica carico la Musa di mio padre e mi faccio i mercati di Alessandria, Novi Ligure, Asti, Borgo D’Ale, Casale. Ho iniziato da un paio di mesi e le cose non vanno benissimo, ma è normale. Il signor Ennio, un altro ambulante sulla sessantina, me l’aveva detto. E’ stato lui a darmi i rudimenti del mestiere. Non che serva molto. Basta prendere la licenza, avere un mezzo, aprire la partita Iva e comprarsi un bancone su cui posare la merce. I fumetti e i libri li ho racimolati tra la roba che avevo in casa e conoscenti. Devo solo crederci e resistere. Prima o poi le cose ingraneranno. Devo arrivare almeno a 150, 200 euro a mercato per farcela. Così potrò sfuggire a quelle facce di merda dell’Azienda Totale. A una vita da schiavo. Come quella di Enzo. Che se lo tenga il suo lavoro a tempo indeterminato. Com’era felice ieri sera. Che si fotta pure lui. Da quando lavora all’Outlet è cambiato. Prima faceva l’artistoide, il pittore e c’era sempre. Adesso è sempre impegnato. Al lavoro. Con la tipa. E capirai che tipa! Un’altra troia. Anche Roberto però… Non dice mai un cazzo davanti a Enzo! Poi dietro mi dà ragione. Dice che Enzo è cambiato. L’Azienda Totale gli ha fatto il lavaggio del cervello. Eh sì, però, pure tu Roberto, con quel lavoro da trader… Che cazzo sarà poi? Lavora per certi fighetti schifosi! Nemici. Speriamo non cambi pure lui. Altrimenti rimango solo… Ho paura di rimanere solo coi miei. Ho paura. E ho bisogno di soldi. Così potrò zittire mia madre e mio padre. E poi potrei trovare il coraggio per andarmene di casa. Beh, quello magari no, costerebbe troppo un affitto. Qui, dopotutto, ho il culo al caldo. Vitto e alloggio gratis. Mi servono solo dei soldi per comprarmi i miei film, i miei dischi. E i libri. Anche se adesso leggo meno. Faccio fatica. Ho la testa sempre stanca. Che mi ronza. Voglio solo il silenzio. Stare solo. Non avere questo mostro di mia madre che gira per casa imbottita di tranquillanti. Da quando è in pensione, le mattine sono un inferno. Mi rimane solo la sera, la notte. Nel cuore della notte, quando loro dormono, io inizio a respirare. Per qualche ora non mi sento l’acqua alla gola. Vivo solo. E con lei. Col mio unico vero amore. Con Rachele. Ecco, non appena ci penso sento il cazzo che si gonfia.

(Enzo)

E’ quasi la mezza e l’Outlet scoppia di gente. Fiumi di gente. Sciami di famigliole da tutto il Nord. Il freddo è così forte da vetrificare la pelle. La luce è bianca, senza ombre, senza calore. Eppure la gente non scema. Coi loro bei vestiti firmati. Le sciarpe. I berretti. L’aria di saldi li eccita. Li rende vivi.

Enzo li osserva da dietro la vetrata del suo negozio. Pensa che la maggior parte di quella gente ha le pezze al culo, lavori precari, disoccupazione, eppure non rinuncia allo shopping. Perché chi non ha non è, non esiste, in questo mondo.

Comprare, consumare le marche che si vedono in tivù per sentirsi felici, partecipare all’elisir scintillante dell’insignificante. Le due ore al giorno di shopping sono tutto ciò che tiene ancorate quelle persone alla realtà del mondo. Per il resto sono indifferenti a tutto. Al dolore. Alle ingiustizie. Ai soprusi. Chi ci bada più. L’importante è passeggiare tra i cubi color crema di Vicolungo. Posare gli occhi su quelle scritte rassicuranti. Prada Gucci Pirelli Nike Adidas Puma McDonald’s Ariston LaCoste Furla Pupa Intimissimi Freddy.

Enzo si trascina stancamente fino alla sera. Dovrebbe smontare alle quattro, ma non può lasciare il negozio. Non dopo la promozione. Lui è l’unico a tempo indeterminato lì dentro. E poi gli altri sono dei sottosviluppati. Uno degli ultimi assunti, Jacopo, è un ragazzo sui vent’anni, senza alcuna esperienza lavorativa. Sul curriculum aveva scritto che suonava in una band metal.

- Ma si può essere così deficienti? – pensa Enzo.

- Quando ho cominciato io, come garzone in un negozio di elettronica, poi in una fabbrica di frigoriferi, mi davano di quelle mazzate! O ti svegliavi o ti svegliavi. Questa gente ha bisogno di una raddrizzata.

E infatti Enzo gliel’ha data. Da quando Jacopo lavora nel Motor Shop, lui lo ha messo a fare i lavori più duri: stoccaggio della merce nel magazzino, cassa, pulire il cesso, i vetri del negozio, ancora cassa. Jacopo è un ragazzone alto e biondo, mingherlino, una brutta copia di Kurt Cobain.

- E dire che una volta ero anch’io un deficiente così!  Adesso ho un lavoro, una tipa, sono sulla strada giusta.

(1 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso