ACQUA ALLA GOLA 04

(Roberto)

- Se solo avessi visto Moana, quanto era bella!

- No, ma questa è più perfetta, più bambola.

- Ma è una mercenaria…

- Sasha Gray è Venere!

Li ascolto parlare dalla poltrona. Completamente sommerso nel mio mondo, li sento biascicare qualche discorso a casaccio.

Robi, dì la tua! – fa Vittorio d’un tratto.

- Come? Di cosa?

- Torna tra noi, torna a sederti qui, dai.

Mi alzo come se fossi seduto da cinquemila anni su quella poltrona dell’Ikea.

- Eccomi qui – faccio quando raggiungo il tavolo.

Il vociare riprende, ma io sono ancora sprofondato in qualche poltrona, lontano dal tempo, un buco nero silenzioso a cinquemilamiliardi di anni luce da loro. Il discorso tra i due compie numerose giravolte, capisco che percorre diversi temi, sfumando le tonalità, come fosse jazz. E il tempo nella mia testa si dilata, pare un mare d’olio che allaga lentamente tutto. “Dipende da te, amore mio”. “Ha smesso di funzionarmi il pisello”. “Tra un mese compio trent’anni”. “Faccio ritorno alla base, sto tornando a casa”. Ed io sono aggrappato ad uno scoglio, mentre la marea sale, sale, sale. Sono con l’acqua alla gola.

Vengo riportato indietro da quella dimensione parallela da una frase che è filtrata attraverso l’iperspazio e ha spaccato il vuoto di silenzio che mi inebetiva. Enzo ha appena detto qualcosa di sua zia.

- Come hai detto scusa? – gli faccio.

Enzo mi guarda come se avesse davanti un malato terminale d’Alzheimer. Ma poi il suo sguardo si abbassa e il suo volto si rannuvola.

- Mia zia… Sì, insomma, sto perdendo tutto…

- Cosa vuoi dire – lo incalza Vittorio.

- Le case, il conto in banca, tutto.

- Ma cosa dici?

- Sono stato poco fa da lei… Sì, insomma, a fare lo schiavo come sempre… – Enzo parla con le spalle molli e abbassate, come fosse uno studente di prima elementare di fronte a una nota – Stavo per entrare, quando dalla porta ho sentito la sua voce, che diceva chiaramente “Caro Notaio, non voglio lasciare niente a quelle croste! Mi scriva il testamento che lo firmo!”.

Lo store manager guarda sconsolato un punto indefinito del pavimento. La sua verve è scomparsa. Il suo spirito positivo, la sua ambizione sono scivolati dritti dritti sotto la suola delle scarpe.

- Quegli ottocento mila erano l’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti – dice quasi piangendo.

Poi solo minuti di silenzio, in cui Vittorio ogni tanto prova a dare qualche colpo sulla spalla a Enzo. Ma niente, nessun risultato. Le parole paiono essersi nascoste sotto i mobili della sala, in qualche angolo buio ci osserveranno con un ghigno beffardo.

Poi, un trillo mi fa sobbalzare (forse il fischio di un treno, di certo qualcosa di assolutamente impercettibile). Rompo il silenzio.

- Senti, Enzo, hai detto che non l’ha ancora firmato il testamento, vero? – gli faccio con la faccia pallida come se avessi visto oltre i vetri un fantasma.

Enzo alza e abbassa impercettibilmente il capo.

- Quindi se non firma gli ottocento mila arrivano a te, che sei il suo consanguineo più prossimo, giusto?

Lo store manager alza finalmente lo sguardo da terra. Due profonde occhiaie solcano il suo viso.

- Sì, o meglio, ai miei genitori… Ma loro li lascerebbero a me. Ma cosa vuoi dire?

- Voglio dire che è sufficiente che la vecchia zia non arrivi a mettere quella firma.

Per chiunque mi stia guardando, il mio volto dovrebbe aver preso un’espressione insolita, come se un demone invisibile ne stesse maneggiando i lineamenti. I due mi osservano con gli occhi a palla.

- Enzo, ascolta. Quante volte ti sei lamentato con noi che la vecchia è una lurida sfruttatrice, una strega?

Il capo del venditore fa di nuovo su e giù.

- Dici che prega ogni santo giorno il Signore di morire, ma che è attaccata alla vita come un serpente, nonostante sia sull’orlo di lasciarci le piume ogni istante… Basterà accelerare la questione…

- Già, la fai facile. E la polizia? – fa pratico Vittorio.

- Vitto, ma cosa credi, che se crepa una vecchia chiamano C.S.I?

- Ma io una cosa così da solo… – balbetta Enzo.

- Ti aiuteremo noi – gli faccio secco. Vittorio ed io ci guardiamo un istante, senza dire nulla.

La testa dello store manager sobbalza, come se stesse incamerando a rapidi colpi quanto sta entrando nelle sue orecchie.

Ancora lunghi istanti di silenzio.

Istanti in cui ci giochiamo quel poco che ci resta. Perché poi, dopo, niente, più niente al mondo riporterà le cose come all’inizio.

- Mettiamo che lo facciamo. Voi due cosa vorreste in cambio?

- Dividiamo – prova a buttarla il venditore ambulante.

- Ma quei soldi… -

- Ho un’idea migliore. – interrompo io – Quei soldi sono tuoi e restano tuoi. Però ti impegni con noi a renderli liquidi e a investirli nella società per cui lavoro. Quanto dicevi che erano…?

- Un ottocento testoni dovrebbero…

- Gestiti da gente sveglia si possono tirar fuori 60  mila euro all’anno. Sono 20 mila euro a testa. Circa mille e sei al mese. Uno stipendio.

I due si guardano, dubbiosi se continuare ad ascoltarmi o se prendermi per matto.

- Ognuno di noi avrebbe il suo vitalizio – li incalzo.

Le spalle di Enzo si tirano su un poco.

- Ma io pensavo, con quei soldi…

- So cosa pensavi – mi avvicino a lui con il busto – pensavi di spenderli tutti e di tornare a fare lo schiavo in quel negozio di merda dopo nemmeno dieci anni! – gli metto una mano sul mento e sollevo la sua testa come se si trattasse del cranio di uno scheletro – Qui si tratta invece di assicurarci la vita a tutti e tre. Non ti rendi conto che tutte queste cazzate che ti compri non servono a niente, che sono tutte delle illusioni! Qui si tratta di qualcosa di molto più importante… Si tratta di comprarci la nostra libertà!

(Vittorio)

La città scricchiola per il freddo. Asti. La piazza centrale. I bulbi luminosi dei lampioni che si affievoliscono man mano che cresce una luce bianca senza soffio vitale. Noi qui. A sistemare le bancarelle, accostare i vari tavolini, stendere la tela cerata, scaricare gli scatoloni, le ceste zincate, allinearle, sistemare la merce. Io ho i miei fumetti usati. I miei libri usati. Dylan Cane. Tex Willer. Magico Vento. Brendon. Vampyr. I fumettazzi porno degli anni ’70. Sukia. Zora. Vampirissimo. Oltretomba. Una pila di neri. Kriminal. Sadik. Genius. Diabolik. Satanik. E il famigerato Killing. Fotoromanzi noir a un euro al pezzo. Ho i prezzi migliori del mercato. Sono uno cazzuto. Competitivo. Eppure non basta. Non basta mai per sfangarla. Per sopravvivere. Per sfuggire al lavoro vero. E’ sabato mattina. Sono qui dalle sette. I vigili ci hanno fatto sistemare. Passano quelli col blocchetto per le ricevute. Paghiamo i nostri venti euro di tassa e arrivederci. Di gente c’è n’è ancora poca. Per forza. Sono vestito a strati. Un giubbino piumone arancione che mi fa assomigliare a Kenny di South Park e sotto due maglioni pesanti, camicia di flanella, pantaloni imbottiti, pigiama di lana con calzettoni spessi, eppure ho freddo. Lo sento salire dal basso, mordermi i polpacci, azzannare le cosce e insinuarsi nell’inguine. Mi frego le mani, saltello sul posto e aspetto che arrivi la gente. Aspetto che qualcuno venga a portarmi dei soldi. Aspetto di guadagnare una miseria per giustificare questa farsa coi miei. Ambulante laureato. Aspetto di potermi pagare la pensione. Le tasse. Aspetto di fallire, chiudere questa attività e ricominciare il giro delle varie agenzie interinali. Aspetto di sentirmi ripetere che ho 38 anni e che, in quest’Italia, sono troppi. Che per me non c’è lavoro. Non sono appetibile. Non ho esperienza. Sono disoccupato, improduttivo, praticamente uno zombi. Se voglio avere ancora una chance devo essere più flessibile. Adattarmi a tutto. Lavorare per quattro euro all’ora. Magari in nero. Non avere più una vita. Una volta feci un colloquio per un’agenzia interinale e la tipa dietro la scrivania prese il mio curriculum con due dita come fosse merda secca. Lo osservò disgustata e scrollò il capo. Mi disse che se non avevo esperienze, nessuno mi avrebbe chiamato. E poi la laurea era un deterrente. Quelli con la laurea vogliono sempre qualcosa in più degli altri, si aspettano qualcosa di più. Le chiesi cosa potevo fare. Lei mi disse di togliere la laurea e mettere delle finte esperienze lavorative. Robette da poco che nessuno sarebbe mai andato a controllare. Che ne so. Edicolante. Volantinaggio. Lavapiatti. Fai degli stage. Lavora gratis e mi liquidò con l’ultima battuta. Che cazzo studiate a fare se poi non c’è lavoro. Aveva ragione. Io sono ancora qui. Senza lavoro, o con un lavoro che mi sono inventato dal nulla, ma che, senza i miei genitori, mi farebbe morire di fame sotto un ponte. Chi mi manterrà quando loro saranno morti? Se questa comica dell’ambulante non funziona, posso trovare un lavoro normale a quarant’anni? Ho perso troppo tempo. Troppo. La mattinata si consuma. La gente arriva. Hanno tutti la faccia cattiva, scollata e sembrano maschere di carnevale. Un ragazzo dal viso di cuoio marcio mi compra venti euro di Topolino. Un’altra tipa si prende cinque libri e spende diciassette euro. Scopro di tenere ai soldi. Li conto. Li coccolo. Li metto nel portafoglio. Aspetto mezzogiorno per fare una pausa, andare in un bar e pisciare, scaldarmi due minuti. Non posso assentarmi troppo. Devo chiedere al vicino se mi dà un’occhiata al banco e mi sembra sempre di rompere. Aspetto e penso. Alla cosa più bella che c’è nella mia vita. Rachele. Alla fortuna che ho avuto nell’incontrarla. Quasi me ne sto innamorando. Penso a lei come a una persona viva. Sarebbe bello avere dei soldi e vivere per conto nostro. Senza doverla nascondere ogni volta in quella bara di legno. Come diceva Roberto? Gestiti da gente sveglia si possono tirar fuori 60  mila euro all’anno. Sono 20 mila euro a testa. Circa mille e sei al mese. Uno stipendio. Però! Non è una brutta idea. Nella sua semplicità è quasi geniale. Peccato siano solo parole. Chiacchiere di tre frustrati. Parole che si aggiungono al mare di parole che diciamo a ogni puntata. Peccato. In fondo, io ci starei. Non credo avrei rimorsi. I vecchi non mi sono mai piaciuti. I vecchi. Le vecchie. Sono tutti uguali. Egoisti fottuti. Pensano solo a loro. Degli altri non gliene fotte un cazzo, se non quando hanno bisogno. E hanno bisogno ogni minuto. Il padre di mio padre era un vecchio coglione attaccato alla vita ed è morto a 97 anni. Gli ultimi cinque se li è fatti in casa nostra. Si cagava addosso, si pisciava addosso e lo faceva apposta, per dispetto, ne sono sicuro. Non aveva un cazzo, camminava da solo, mangiava da solo, insomma era autosufficiente. Solo non voleva finire in un ospizio con altri stronzi come lui. Quando ci hanno provato a ritirarlo, lui ha sventolato il grano che si teneva in banca e i miei hanno subito abbassato le orecchie. Così ce lo siamo coltivati fino alla fine. La notte che è schiattato, io lo sentivo dalla mia cameretta che chiamava con la sua vocina consistente come una nuvola di vapore. E’ andato avanti tutta la notte. Poi non l’ho più sentito. La mattina l’abbiamo trovato stecchito e ne siamo stati tutti contenti. L’ultima volta che l’ho visto era ricomposto come un salame dentro al cassa e ho pensato, ben ti sta stronzo, adesso la finirai di posare le tue chiappe rinsecchite sul mio cesso. Adesso i tuoi soldi saranno nostri. Perché questa generazione di merde ha avuto la guerra. Ha avuto la miseria. Ha avuto un lavoro duro, ma, in cambio, gli hanno dato stabilità, sicurezze economiche, una pensione sicura. Erano schiavi pure loro, ma tutelati, garantiti. Magari andavano in pensione a quarant’anni. Avevano gli straordinari pagati. Le ferie pagate. La malattia pagata. Un partito politico che gli prometteva una cosa. Un’altra. Un’altra ancora. A noi nessuno promette più nulla. Quindi trovo giusto che i loro soldi finiscano nelle nostre mani. Quelle formichine si sono rotte la schiena per me e la mia Rachele. La zia di Enzo è una di quelle formichine. Enzo dice che i soldi li ha fatti in modi poco belli. Usuraia. Adesso è uno scheletro che cammina e si diverte a tenere Enzo per la gola. Una formichina. Basterebbe così poco per schiacciarla. Ma sì, ecco un altro cliente, una bella figa chiatta, dal viso limpido come una Madonna. Mi chiede se ho la serie manga “Ricordi D’Amore” di Hinako Ashihara e le dico che sì ho la serie completa di nove numeri di “Ricordi D’Amore” e penso che ho tanto amore nei pantaloni per lei e che glielo vorrei dare perché ho così tanto amore da parte e che la vecchia schiatterà da sola e Enzo erediterà e almeno lui la scamperà e inseguire sogni irrealizzabili e arrendersi di fronte alla forza del mondo solo che non mi ricordo che sogni avessi.

(Enzo)

Outlet. Il cielo sta prendendo colore e le strisce arancioni dell’alba sagomano i profili bassi degli edifici. E’ il momento dell’aurora, l’istante in cui la stanchezza della notte intorpidisce le sentinelle. Enzo è nel magazzino del Motor Shop. Sistema della merce con Jacopo. Il ragazzo ha incasinato alcuni colli ed è tutto da rifare.

Enzo sbraita, urla, se la prende con lui. Poi arrivano le nove, l’orario in cui tutti i duecentocinquanta negozi aprono simultaneamente e una bella voce registrata di donna accoglie il fiume umano. Sono giorni di saldi. I giorni peggiori dell’anno per chi lavora nella grande distribuzione. La gente è come drogata, affamata, alla ricerca del pezzo migliore in offerta.

Ci si aspetta un’affluenza record. All’Outlet la crisi economica sembra finita da un pezzo, anzi, non sembra mai arrivata. Aveva proprio ragione Berlusconi quando diceva che la gente affollava i ristoranti e i supermercati, pensa Enzo. Hungry but chic. I clienti invadono le stradine dell’Outlet.

Anche il Motor Shop si intasa di corpi che scompigliano la merce, toccano tutto e sobillano di domande. Jacopo è confinato alla cassa, così può fare meno danni. O almeno è quello che spera Enzo. Lui cerca di servire più clienti contemporaneamente. Cerca di blandirli a spendere il più possibile. Vuole fare bella figura coi capi. A fine settimana usciranno i dati sulle vendite dei vari negozi dell’Outlet e Motor Shop vuol essere tra quelli con l’incasso maggiore.

La porta del negozio è spalancata. Folate di ghiaccio entrano dentro e persino i clienti si lamentano, ma uno studio di settore ha decretato che le porte chiuse di un negozio possono essere un deterrente per invogliare il cliente a comprare. Anche vedere un commesso seduto può essere un deterrente. Per questo, nel negozio, non ci sono sedie. Jacopo è in piedi dietro la cassa. Enzo saltella da un punto all’altro del negozio e cerca di essere ubiquo. Volti, facce, corpi da servire. Hanno tutti la stessa espressione. Gli occhi vacui, le labbra che si alzano scoprendo denti da animali carnivori. Il sangue pulsa nelle loro tempie. Hungry but chic.

- Sì prego? Desidera? Posso esserle utile? Desidera? Prego mi dica? Sì signora? Sì signore? Prego, certo. Sono qui per servirla. Sì. Sì. Certo. Il signore ha bisogno di aiuto? La signora vuole provarlo? Desidera? Allora, al momento non abbiamo in negozio. Posso andare un momento in magazzino. Prego si accomodi alla cassa che il mio collega… Jacopo, sveglia. Sì, mi dica. Prego ha bisogno? Allora al momento abbiamo ancora delle ottime offerte. Sì è in saldo. Allora è un casco cross axd ur-x con calotta in fibra di vetro e carbonio con rinforzi in kevlar per una migliore resistenza e assorbimento all’urto, 3 misure di calotte, interno estraibile e lavabile, anallergico e antisudore, chiusura doppio anello. Prego, sì, è una giacca giali modello zero g per quattro stagioni, tessuto esterno e cordatura d600, ottima resistenza allo  strappo, membrana termica asportabile, membrana antipioggia traspirante, protezioni omologate CE, spalle, gomiti e antishock sulla schiena, sistema AIR sul petto, braccia e schiena per un’ottima ventilazione per l’estate e Jacopo, Cristo, sveglia, servi il signore, cos’è dormi in piedi?! Sveglia, servi, servi, servi, sì ecco, le dicevo, sì una giacca da donna mextex con protezioni gomiti, spalle e schiena e fodera interna in thermolite staccabile scalda collo in windtex traspirante al 100% e poi saldi sulle t-shirt move firstlady danese, saldi sulle t-shirt Indianapolis race, saldi sulle t-shirt Mugello race, saldi su…

Enzo smette di sentire quello che dice.

Smette di pensare.

Di sentire.

I suoi movimenti si fanno automatici.

Calibrati e astratti.

La sua faccia siderale.

Una faccia da poker.

Enzo estrae un full metal racket da sotto il bancone. Un fucile d’assalto calibro 7.62 mm con telescopio zeuss da 10x. Estrae una semiautomatica maser-luger p-08 calibro 7.65 mm parabellum. La panoplia criminale è completata. Inizia a sparare a quelli nel negozio. Corpi che saltano per aria. Che si piegano all’indietro. Al rallentatore. I colpi fanno comparire delle chiazze rossastre sui giacconi di pelle. Sulle pellicce. Geyser di sangue compresso spruzzano dal petto dei clienti. Le pallottole li fanno muovere come se fossero colti dal ballo di San Vito. Enzo continua a sparare. Esce fuori dal Motor Shop. Spara per le vie dell’Outlet. Altri fiotti di sangue, altri corpi scossi dai sussulti. Arrivano dei vigilante. Enzo spara per primo. Uno dei vigilante è colpito al viso. La pallottola gli porta via un pezzo di mascella e di bocca. L’altro è colpito alla gola. Il sangue fiotta sugli occhi vitrei. La gente attorno non si scompone, non urla, non scappa. Tutti fanno finta di nulla. Se vengono colpiti cadono a terra e boccheggiano. Altrimenti continuano a comprare.

- Mi ha sentito?

Una donna enorme. Una balena come sua madre. Solo truccata da mignotta.

- Mi ascolta, ehi, dico a lei, giovanotto!

La donna è spazientita. L’uomo al suo fianco, una specie di motociclista di sessant’anni, pure.

Enzo si ridesta. Riemerge dai suoi sogni ad occhi spalancati. E’ di nuovo nel negozio. Nel Motor Shop. Il suo tono piatto riprende a elencare.

- Sì, ecco, mi scusi, allora, il casco polar ajx d9 è traspirante e polimaterico, con gangli di poliestere in fibra e…

L’inferno è appena cominciato.

Sono solo le dieci del mattino e il negozio scoppia di gente affamata.

L’Outlet scoppia di gente affamata.

Il mondo scoppia di gente affamata.

 

Enzo è nella cucina di casa.

Le ombre cinesi dei suoi si aggirano per la casa.

Li avverte mentre strisciano furtivi aldilà dei muri. Sua madre che si lamenta, mormora tra sé, forse implora di morire o non pensare più. Suo padre che guarda Salvo Sottile e commenta a voce alta quello che dice lo psichiatra Meluzzi. Caso Scazzi. Caso Ragusa. Caso Belmonte. Caso Missoni.

Enzo mangia qualcosa di riscaldato alla buona.

Ha fame, ma non vuole rimanere troppo tra quelle mura. Ha paura di loro. Ha paura di finire come loro. Automi di sessant’anni già morti quando ne avevano quarantacinque. Lui è sulla buona strada. Ha un dolore terribile alla schiena. Le braccia e le gambe non le sente più. Lavora dieci ore al giorno, sette giorni su sette. Colpa dei maledetti saldi. La testa gli fa male. Vorrebbe dormire per una settimana intera, ma domani deve ricominciare la farsa all’Outlet. Quanto potrà durare? Quanto potrà resistere? Il trillo del cellulare. Enzo si avventa sul telefonino con ansia. Poi vede sul display il nome di Federica e deglutisce sollevato. Non è la vecchia.

Una voce piena di lampi di gioia, una voce leggera, distratta, serena, gli riempie le orecchie. Federica lo imbottisce di carezze e moine, poi gli propone di uscire. Enzo non fa in tempo a rispondere che si è già infilato le sneakers. Ha bisogno di lei per lasciarsi alle spalle la giornata di lavoro. Spera di poter fare sesso con la sua ragazza.

Federica lo aspetta in strada. Ha un sorriso affascinante. E’ piccolina, con la vita un po’ pesante, ma un corpo splendido, due seni sbocciati sul petto e dei lineamenti impercettibili, quasi infantili. Sale sull’auto dello shop manager  e la riempie di una certa sensualità sbarazzina. Sarà l’effetto dei suoi 25 anni. Sarà che Federica non lavora. Sarà che frequenta l’Università di Torino, il DAMS, una specie di centro sociale mascherato da ateneo. Sogna di fare l’attrice. Vorrebbe iscriversi all’accademia di Milano. Ha conosciuto uno che ci insegna. Pare un pezzo grosso. Una volta ne ha parlato a Enzo, ma lui non ha voluto saperne troppo. Poteva diventare geloso e Enzo non vuole diventare geloso di Federica. E’ troppo giovane, libera, spregiudicata, per essere tenuta al guinzaglio da un lurido clerk come lui.

Enzo è geloso. Spesso, quando lei non risponde alle sue chiamate, si rode e non può farci niente. Sa che se si lamentasse, lei troncherebbe il rapporto. La prima volta che sono stati insieme, Federica è stata subito chiarissima. Indipendenza è la parola chiave della loro storia. Si cercano, si desiderano, si amano, ma senza rinunciare ognuno alla propria vita.

Il nostro uomo ha finto di essere d’accordo con lei. Ha recitato la parte di quello pieno di impegni, ha recitato il canovaccio dell’artista mezzo matto, del pittore astratto fuori di testa. Ha provato a stare al passo di quella ragazza, senza riuscirci mai veramente. I grugniti e i pugni che la vita gli sbatte addosso ogni giorno, invece di rafforzarlo, l’hanno reso più fragile.

Enzo non lo ammetterebbe mai con nessuno. Nemmeno con Roberto o Vittorio. Il lavoro all’Outlet gli ha dato un briciolo di sicurezza, ma l’ha privato di tutto. Quando rientra a casa, si sente stritolato come se fosse ancora in negozio a vendere. Vorrebbe avere più tempo da trascorrere con la sua ragazza, vorrebbe che Federica fosse più presente. La vorrebbe solo per sé. Insieme. Magari in un piccolo appartamento.

Enzo vorrebbe scopare. Federica vuole andare alle Officine Sonore per un concerto. Ha appuntamento con alcuni suoi amici poeti che vuole presentare a Enzo. Lui finge di stare al gioco e dentro bestemmia disperato. Arrivano alle Officine, nella vecchia zona industriale della città, tra edifici fatiscenti e capannoni, in una piccola via mal illuminata, al primo piano di un palazzo disabitato. Già a venti metri si sente la musica a tutto volume e un capannello di persone in strada. Tutti giovani col bicchiere di plastica della birra in mano e la sigaretta in bocca. Dentro: una vera bolgia di corpi scatenati che ballano, urlano, fumano. Le luci sono basse, blu e rosse. Dietro il bancone, assediato da centinaia di braccia protese, c’è il gestore del locale e due stangone (una mora, l’altra bionda) che lo aiutano. Il posto è pieno da scoppiare e il gruppo della serata, i Secret Chiefs 3, sta per attaccare a suonare.

Infatti la musica registrata si abbassa e, sul fondo del locale, un gruppo di persone si infila delle bautte nere, prende in mano gli strumenti, le facce nascoste dai cappucci. Attaccano con un pezzo tiratissimo e heavy. Gli studenti sballano, la ressa al bancone cala ed Enzo può ordinare qualcosa. Federica è in vena di coccole e gli rimane appiccicata al fianco come una gattina in calore. Forse per la scopata non è detta l’ultima parola. Poi si materializzano gli amici poeti, altri ventenni brufolosi che non hanno mai lavorato un giorno in vita loro. Federica glieli presenta uno a uno. Tutti compagni di DAMS. Enzo borbotta qualcosa, ma evita di stringere quelle mani molli da froci. Lei e il gruppo di artistoidi se la raccontano urlando come pazzi per riuscire a sentirsi in mezzo al casino sonico della band.

Si fanno le undici. Poi la mezza. L’una. Il mal di testa di Enzo non è migliorato. Il concerto è quasi alla fine. Federica dice di essere stanca. Uno del gruppetto si offre di accompagnarla. Enzo lo trucida con lo sguardo. Lei interviene come una micia. Gli carezza la pancia.

- Amore, se vuoi rimanere non è un problema. Giacomo abita nel mio stesso isolato, per lui non è una fatica.

- Nemmeno per me – sibila il nostro.

- Ma amore, sembri stanchissimo. Domani dovrai alzarti prestissimo. E poi non voglio che attraversi tutta la città per portarmi a casa quando c’è Giacomo che non gli costa niente…

- Potevamo stare un pochino insieme.

- Amore, lo sai che lo vorrei anch’io, ma sono così stanca, – Federica abbassa la voce, gli sussurra all’orecchio – e poi ho le mie cose, scusami.

Enzo se la vede sfilare dalle braccia e allontanarsi col gruppo patetico di nerds. A quel punto potrebbe anche morire. Rimane appoggiato al bancone e ordina una birra. Quando sente che sta per piangere si chiude nel cesso. Per fortuna la musica arriva attutita. Con le mani si copre le orecchie e chiude gli occhi, cercando di non pensare più a niente. Passano venti minuti.

Poi trova il coraggio di chiamare Federica. Vuole sentirsi dire che è arrivata a casa, che si prepara ad andare a dormire, che non è più con quella banda di sfigati. Ma appena accende il display luminoso, appaiono venti messaggi di chiamata. Qualcuno lo ha cercato con insistenza. Lampi di gioia gli stringono il cuore. Forse è Federica. Forse ci ha ripensato. Forse anche lei ha bisogno di lui. Forse ha capito che quel rapporto non può continuare così. Forse è venuto il momento di crescere fino in fondo. Potrebbero farlo assieme. Potrebbero essere felici. Forse. Enzo controlla il numero. No. Non è quello di Federica. Non è quello di Roberto. Non è quello di Vittorio. Non è quello dei suoi genitori. Nemmeno di Jacopo. No. E’ quello della zia. La vecchia ha chiamato. E quando la vecchia chiama, lui deve accorrere. La vecchia ha chiamato e, questa volta, lui non ha sentito per colpa della musica altissima. La vecchia ha chiamato e lui non è accorso.

Gestiti da gente sveglia si possono tirar fuori 60  mila euro all’anno. Sono 20 mila euro a testa. Circa mille e sei al mese. Uno stipendio

Enzo esce dalle Officine Sonore e respira l’aria della notte. Chiede una sigaretta a una ragazza punk lì vicino. Se la fa accendere e tira una lunga boccata. La prima da un sacco di tempo. Decide che sarà la prima di una nuova vita.

(4 – continua)

Daniele Vacchino & Davide Rosso