Gerardo Abril, l’ispettore della centrale di polizia di Alamar, aprì la pratica e dette il via alle indagini, anche se era poco convinto che ci fosse davvero qualcosa da accertare. Non disse come la pensava per rispetto verso il marito, però gli sembrava chiaro che la donna fosse finita a letto con qualcuno che aveva conosciuto alla festa. Sarebbe tornata, ne aveva viste tante di storie così e spesso erano anche finite in brutti fatti di sangue. Ricordava ancora quella moglie tradita dell’Avana Vecchia che aveva tagliato il pene al marito con un colpo di machete. Per questo non gli piaceva occuparsi di certe faccende e quel marito sconvolto avrebbe fatto meglio a stare un po’ più vicino a sua moglie, invece di venirsi a lamentare a frittata fatta.
Gerardo Abril era un nero dalla corporatura massiccia, lo avevano trasferito ad Alamar dopo un periodo tranquillo per le caserme della provincia del Granma. Veniva da Guantanamo e rimpiangeva il caldo della sua terra. A occidente pioveva troppo spesso e l’inverno era freddo per i suoi gusti. Si poteva andare in spiaggia solo sei o sette mesi all’anno, non di più. E poi c’era sempre un gran da fare. A oriente le cose più gravi che gli era capitato di risolvere riguardavano bande di rubagalline o piccoli truffatori. Qui no. Violentavano donne, facevano il mercato nero, contraffacevano rum e sigari, trafugavano di tutto. Non era facile il suo compito in quel territorio e sapeva pure che tanti colleghi si lasciavano corrompere e intascavano denaro per lasciar correre. Lui no, non l’avrebbe mai fatto, aveva dei saldi principi che non avrebbe mai tradito. Veniva da una famiglia di comunisti, suo padre era stato con Fidel sulla Sierra e lo aveva educato ai principi rivoluzionari. Adesso che era morto restavano sempre le sue idee che Gerardo Abril non poteva tradire. Si diceva sempre che anche lui sarebbe morto comunista. Povero e comunista.
Aveva dato il via alle indagini ordinando un’ispezione accurata della zona dove si era svolta la festa, inviando alcuni uomini a setacciare il lungomare di Alamar, le spiagge selvagge tra i canneti e le mangrovie, il piccolo porto e le abitazioni del villaggio di pescatori. Poi avrebbe pensato alle mosse successive.
Tanto tra poco verranno a dirmi che non dobbiamo più fare niente. Non vale la pena perderci tempo, meglio che resti un affare di famiglia, pensò.
Gerardo Abril non avrebbe mai mandato sua moglie da sola a una festa, geloso com’era non le faceva fare un passo senza averla accanto. “Delle donne non c’è da fidarsi” diceva sempre. E poi aggiungeva: “Bisogna ridurre al minimo i rischi”. Per concludere che “I mariti coglioni hanno sempre quel che si meritano”. Non era un esempio di tolleranza l’ispettore Abril, le idee femministe non facevano parte della sua cultura di uomo tutto d’un pezzo, allevato dal padre tra i discorsi di Fidel e il machismo. Le donne a casa a lavorare, gli uomini fuori a divertirsi e a bere, solo il maschio aveva diritto a tradire. Quando lo faceva la donna la vergogna era troppo grande e lui ci stava male per quei poveri mariti che si ritrovavano cornuti dalla sera alla mattina, anche se lo avevano voluto loro e il detto popolare ammoniva che non avevano nessun diritto di lamentarsi.
L’interrogatorio di Barbara e Fernando non aveva portato a molto, se non a rafforzare la convinzione che si trattasse di corna.
Certo, poteva anche essere accaduto qualcosa durante il tragitto notturno per rientrare a Guanabacoa e questa eventualità non andava trascurata. Un taxista, un violentatore, un pazzo. Era cambiata la sua Cuba, purtroppo. Da quando era iniziato il periodo speciale la fame di dollari aveva prodotto fatti di sangue prima sconosciuti. I giornali non ne parlavano ma lui sapeva che accadevano perché ci si trovava in mezzo e doveva indagare. E non gli piaceva che Cuba assomigliasse sempre più a un paese capitalista, un luogo dove poteva accadere di tutto, purtroppo. Specialmente all’Avana.
Barbara aveva detto che durante la festa si era ubriacata e quindi si era addormentata sul prato. Forse anche altre persone avevano bevuto troppo, lui sapeva che questo accadeva spesso alle feste, provocando disordini e risse. Sapeva anche che un uomo ubriaco poteva fare di tutto, diventava violento, non comprendeva il senso delle sue azioni. Era un pericolo.
In ogni caso i suoi uomini erano al lavoro e tra non molto ne avrebbe saputo di più. Si trattava soltanto di aspettare.
Roberto arrivò a casa trafelato e ancora in preda a quel violento mal di testa che lo aveva colto dopo la lite con Monique. Non ricordava bene ciò che era accaduto, aveva in mente soltanto l’immagine di due fantasmi indistinti. Un uomo e una donna che gridavano, lei che piangeva, sangue e grida di dolore.
Non altro. Ricordava Pedro che lo chiamava mentre lui fuggiva gettandosi nell’aria fresca del mattino, dopo aver sbattuto con violenza la porta. Un taxi davanti alla spiaggia deserta, tra le palme che flettevano i rami più alti sotto flebili colpi di vento, lo aveva riportato ad Alamar. E mentre scorrevano davanti ai suoi occhi immagini di auto scoppiettanti e biciclette arrugginite, contava i dollari che aveva tra le mani e teneva fermo il cranio, devastato da un dolore incredibile. Sembrava che tutto il sangue che aveva in corpo confluisse verso le tempie sino a farle scoppiare.
Pensò a sua madre che lo attendeva. Sarebbe stata in pena e avrebbe dormito poco e male sapendolo fuori. Lui, come d’abitudine, aveva telefonato e dall’altro capo del filo si era sentito dire: “Fai attenzione”. Era preoccupata sua madre, non le piaceva la vita che conduceva. Ma era l’unica vita possibile ed entrambi lo sapevano bene.
Quando Roberto arrivò a casa e non trovò nessuno si meravigliò. Era la prima volta che accadeva. Di solito Barbara era sulla veranda che lo aspettava, teneva gli occhi rivolti verso il mare a scrutava l’orizzonte. A sua madre piaceva la vista del mare e osservare l’oceano non era soltanto un modo di passare il tempo, mentre faceva dondolare il sellon e muoveva un ventaglio per farsi fresco. Era anche l’unico sistema che conosceva per placare la sua agitazione, l’ansia, il senso di disagio di fronte alle cose che non avrebbe voluto che accadessero. Il mare era un tranquillante naturale, un sedativo che aveva sempre a portata di mano.
“Sarà andata in chiesa” pensò.
Passò in cucina e cercò le pasticche per il mal di testa nel piccolo mobile bianco dove la mamma conservava i medicinali. Ne inghiottì un paio accompagnandole con un mezzo bicchiere di acqua e poi si gettò sul letto. Aveva bisogno di riposare. Sua madre non avrebbe tardato molto e lui era davvero stanco. E la testa continuava a fargli male da impazzire.
Roberto non poteva immaginare dove fosse andata sua madre. Lui non sapeva niente di Armando, fin da piccolo aveva visto la mamma frequentare la parrocchia di Alamar e ascoltare le parole di padre Antonio. Adesso non poteva immaginare che risolvesse i problemi ricorrendo a un santéro.
E invece Barbara e Fernando erano proprio là.
Il marito di Azela era scettico ed era toccato a Barbara convincerlo. Lei aveva avuto la prova del potere di Armando e non poteva continuare a negare l’evidenza.
“Andiamo da lui” aveva detto “ci aiuterà”.
Fernando convenne che in fondo non aveva niente da perdere e dopo la strada razionale della polizia aveva accettato di percorrere anche quella soprannaturale. Aveva notato perplessità negli occhi dell’ispettore Abril. Non soltanto perplessità, a dire il vero. Anche un fondo di malizia. Ma lui lo sapeva che Azela non era scappata con nessuno. La conosceva troppo bene e si fidava di lei, non lo avrebbe mai abbandonato da solo con i bambini. Il fatto che fosse sparita da due giorni senza far avere sue notizie poteva voler dire soltanto che le era accaduto qualcosa di brutto.
Armando li accolse nel salottino. Pareva che aspettasse la loro visita. Ascoltò Barbara con attenzione, accarezzandosi la barba ispida e trascurata che gli cresceva a ciuffi sul mento, mentre gli occhi scavati conferivano al volto un’espressione cupa e assorta.
Poi disse: “Seguitemi” e fece strada ai due lungo il corridoio buio contornato da statue di santi e immagini votive. Barbara ricordava bene la strada e sapeva dove erano diretti, solo ricordare le altre volte che era stata ospite del santéro le metteva un senso di paura addosso. Rammentava ancora il terribile scambio di teste che le aveva riportato in vita Roberto e non sarebbe voluta entrare di nuovo in quella stanzetta oscura e puzzolente, tra la prenda in alluminio e le statue degli orishas accanto a offerte propiziatrici.
Armando aggiunse poche parole durante il tragitto: “Dobbiamo consultare le conchiglie e poi il mio spirito guida mi consiglierà”.
Quando entrarono nella casupola di legno che conteneva la prenda e la statua di Babalú-Ayé, il santéro si sedette su di un cuscino e mise mano alle conchiglie. Fernando e Barbara si accomodarono accanto e lui volle che si disponessero in cerchio.
Lanciò le conchiglie in aria, quando ricaddero si fece pensieroso.
“Cosa c’è che non va?” chiese Fernando agitato.
“Non tenerci in pena” aggiunse Barbara.
“Inutile parlare se non si può essere d’aiuto. Non voglio creare timori che non posso fugare e non è compito mio insinuare il germe del dubbio se non ho la soluzione a portata di mano” rispose sibillino Armando.
“E allora? Che facciamo?” chiese irritato Fernando.
“Chiederò al mio spirito guida. Solo lui può aiutarci e risolvere il mistero. Le conchiglie sono confuse e lasciano spazio a troppe possibilità”.
Ciò detto Armando cominciò a pregare in quel miscuglio di africano e spagnolo che ormai Barbara conosceva bene e che a Fernando parve una cantilena priva di senso. Bevve un sorso di rum e aspirò un paio di boccate di sigaro, poi di colpo cadde in una sorta di trance ipnotico e cominciò a parlare con voce roca.
Lo spirito guida di Armando era un vecchio schiavo haitiano che faticava ad articolare suoni comprensibili.
“Mi hai chiamato?” chiese per bocca di Armando.
Fernando e Barbara si guardarono a lungo stupefatti. Lui non aveva mai assistito a uno spettacolo del genere e fissava il santéro con evidente incredulità. Barbara aveva provato di peggio e l’evocazione di uno spirito guida era cosa da poco in confronto a uno scambio di teste.
“Abbi fede. Devi avere solo un po’ di pazienza” disse a Fernando per rassicurarlo.
Lui non ne aveva. Era preda di una visibile agitazione.
“Mia moglie è sparita e io sono qui a giocare agli spiriti insieme a un pagliaccio” mormorò.
“Azela credeva a queste cose. E poi quest’uomo mi ha restituito mio figlio…” rispose Barbara.
La voce di Armando si modificò di nuovo.
“Non sono molte le cose che posso dire. Non mi è concesso”.
Era lo spirito dello schiavo che cercava di farsi largo nella mente del santéro. Non riuscì a dire altro, però. Fernando si alzò da sedere gridando: “Adesso basta con questa pagliacciata! Dimmi quello che sai maledetto santéro! Dov’è mia moglie?”. Accompagnò le parole con una spinta violenta al corpo di Armando, poi fu su di lui e lo prese per la maglietta che indossava, scuotendolo con forza.
“Parla ciarlatano! Parla! Dimmi cosa hai fatto ad Azela!”
Fernando era fuori di sé e non sapeva neppure quello che stava dicendo. Soprattutto non era capace di controllare le sue azioni. Barbara se ne accorse troppo tardi e quando riuscì a fermarlo Armando era per terra privo di sensi. Il santéro era uscito dal trance improvvisamente e non ce l’aveva fatta a rinvenire. Poteva essere pericoloso per lui.
“Che cosa stai facendo?” Gridò Barbara preoccupata “Sei impazzito? Non è così che farai qualcosa per tua moglie!”.
“Scusami, non so cosa mi ha preso” disse.
Fernando sembrò calmarsi improvvisamente. Aveva capito che la tensione gli aveva giocato un brutto scherzo. Barbara si chinò sul santéro. Lo chiamò più volte per nome e gli versò un po’ d’acqua in viso per svegliarlo. Ma non ci fu niente da fare. Armando non rispondeva.
“Solleviamolo e portiamolo sul letto” disse Azela.
Lo presero di peso e lo trascinarono in camera, qui provarono a passargli dei panni bagnati sulla fronte e a svegliarlo con acqua fredda.
“Il battito si fa sempre più lieve” disse Barbara preoccupata.
“Che cosa sta succedendo? Io non ho fatto niente! Non posso averlo ucciso con una spinta”.
All’improvviso Armando aprì gli occhi.
Fu un breve istante. Rapido come un fulmine in mezzo alla tempesta. Si alzò a sedere sul letto e gridò con gli occhi sbarrati:
“Vi ucciderà tutti! Dio mio sì… so che lo farà…”
Poi cadde esausto sul letto, la fronte imperlata di sudore, le labbra serrate, i denti stretti e un filo di saliva sul mento ispido di barba incolta. Barbara gli afferrò il polso.
“È morto” disse.
“Non è possibile” replicò Fernando avvicinandosi al santéro e scuotendolo per tutto il corpo. Ma il polso era immobile, la fronte fredda e gli occhi irrimediabilmente sbarrati.
“Dobbiamo andarcene di qui” concluse Barbara.
“E lui lo lasciamo così?”
“Certo”.
“Ma è morto…”.
“Se qualcuno ci vede uscire da qui ci accuseranno di omicidio”.
“Non l’ho ucciso io”.
“E cosa pensi di raccontare alla polizia?”.
Fernando convenne anche lui che era meglio fuggire. C’erano soltanto loro in quella casa e non sarebbe stato facile spiegare alla polizia che Armando era morto dopo un’evocazione del suo spirito guida. Dovevano scappare e fare attenzione che nessuno li vedesse. Prima o poi qualcuno avrebbe trovato il corpo del santéro privo di vita. Armando faceva tante messe spirituali e aveva una clientela che veniva da tutta L’Avana. Nessuno avrebbe dubitato che la morte fosse avvenuta per cause naturali. Armando viveva solo e non aveva mai avuto una salute di ferro. I medici avrebbero imputato il decesso a un arresto cardiaco. Lui e Barbara dovevano soltanto scappare, senza pensare ad altro.
Roberto non riposò a lungo. Dopo appena un paio d’ore che si era sdraiato sul letto sentì bussare alla porta in modo frenetico.
Era Pedro. Anche lui aveva lasciato Denise al suo destino.
Roberto lo fece sedere sul divano della cucina e gli offrì una tazza di caffè. Lui accettò di buon grado.
“Ti sei calmato?” domandò.
“Mai stato più tranquillo” mentì Roberto.
Il sangue continuava a pulsare alle tempie e la testa pareva penetrata da un trapano impazzito. Non riusciva a pensare.
“Sembrava che tu la volessi uccidere quella ragazza…”
“Sapevo quel che facevo. Volevo soltanto spaventarla”.
“In ogni caso hai rischiato per niente”.
“Cento dollari li chiami niente?”.
Pedro scosse la testa in segno di disapprovazione.
“Non ti ho mai visto in questo stato, Roberto. E non sono soltanto io che lo dico. È da un po’ di tempo che fai cose strane. Sei sempre agitato, intrattabile, attacchi briga per niente…”.
“Sciocchezze, sto benissimo”.
“Non è vero. La malattia ti ha lasciato addosso qualcosa che ti rende nervoso, suscettibile. Rischi di inguaiarti, prima o poi. Dovresti farti vedere da un buon medico”.
“Non ho bisogno di nessun medico”.
Mentre diceva quelle parole sentiva la testa scoppiare. Un dolore caldo e intenso partiva dalle tempie e si diffondeva a tutto il cranio, come se il sangue volesse venir fuori con prepotenza. Mentiva a se stesso. Però non sarebbe stato uno stupido mal di testa a impedirgli di muoversi per le strade dell’Avana. In casa c’era bisogno di lui. Non poteva permettersi di stare male.
“Per questa volta è andata, Roberto. Ho parlato con Denise e le ho fatto credere che avevi dei gravi problemi di famiglia. Ho inventato una storia strappalacrime sui tuoi bambini che muoiono di fame e una moglie che ti ha lasciato per scappare a Miami. Mi è sembrata convinta e ha detto che parlerà con Monique. Non ti denunceranno. Ma non vorrei che capitasse di nuovo. Malmenare una turista può costare molto caro”.
“Lo so. Lo so. Ti assicuro che non accadrà più. Non so cosa mi ha preso. Quella puttanella non voleva pagare…”
“Rimango dell’idea che dovresti farti vedere. Lo dico per te…”
“Interrompi il disco, per favore. Io sto bene. Non sono mai stato meglio. E non ricordo di aver avuto nessuna malattia”.
“Però è accaduto, Roberto. E tua madre lo sa bene”.
“Ma adesso sono guarito. Ti assicuro che non succederà più niente e che per il futuro cercherò di controllarmi”.
“Lo spero” concluse Pedro. Aveva capito che non c’era molto da fare. Roberto non avrebbe mai ammesso di aver bisogno di cure. Pedro era sempre stato amico di Roberto. Avevano frequentato le stesse scuole e la mamma di Roberto era stata insegnante di Pedro alla primaria. Si erano sempre voluti bene come fratelli e quando Roberto era stato in punto di morte l’amico aveva sofferto molto. Non permettevano visite a nessuno che non fosse la madre perché la diagnosi era di coma profondo. I medici non avevano dato speranze. Pedro era nel gruppo di amici che aveva scoperchiato la tomba al Cimitero Colón, il giorno che Roberto aveva incontrato il suo destino sotto forma di un maledetto ossessore. Poi era accaduto il fattaccio. Quando Roberto era guarito non voleva crederci, tanta era stata la gioia di ritrovare l’amico. Adesso che lo vedeva star male si preoccupava per lui. Non voleva perderlo di nuovo.
Barbara e Fernando interruppero la conversazione dei ragazzi.
Entrarono in casa trafelati. Venivano da Guanabacoa, con la guagua, ma faceva un gran caldo e da come erano sudati e stanchi pareva che avessero fatto la strada correndo. Ne erano accadute tante quel giorno. Troppe per essere tranquilli.
“Mi hai fatto stare in pensiero. Dov’eri finita?” chiese Roberto.
“Azela è sparita. La stiamo cercando”.
Sedettero. Fernando era agitatissimo. Sudava copiosamente, aveva la barba incolta di due giorni e gli occhi persi nel vuoto cercavano di fissare un punto qualsiasi mentre la mente vagava dietro ricordi lontani. Barbara chiese un bicchier d’acqua. Roberto dopo poco tornò con la brocca. Bevvero in silenzio.
Raccontarono l’essenziale ai ragazzi, tacendo del santéro e di ciò che avevano visto in quella casa, soffermandosi sulla polizia che indagava e chiedendo se loro avessero notato qualcosa di strano durante la festa.
“Io ci ho scambiato appena due parole” rispose Roberto “e non mi ricorderei neppure l’espressione del volto. Disse che era stata la mia infermiera alla Villa e io la ringraziai di quello che aveva fatto per me. Poi non abbiamo più parlato per il resto della serata”.
Pedro non rammentava neppure di averla vista.
Il mistero restava al punto di partenza. E non c’era nemmeno Armando che poteva aiutarli. Non ci sarebbe più stato.
Barbara appoggiò la testa sulla spalla di Roberto e pianse.
Si sentiva sola di fronte a qualcosa troppo più grande di lei.
(11 – continua)