“Adesso non dovremo più cercare nessuno” pensò l’ispettore Gerardo Abril “questa era l’ultima cosa che mi sarei aspettato”.
Una mattina d’inizio estate, il sole a picco nel mare scolpito da riflessi verdastri, il silenzio rotto da canti di gallo e intorno solo case di povera gente. E lui a fissare il vuoto e l’orizzonte lontano da quel tratto di spiaggia di Cojimar che non aveva mai saputo cosa fosse la sabbia. Un ammasso senza forma di alghe e fango, scheletri di pesci putrefatti, piccole meduse e rifiuti dimenticati. La puzza di pesce marcio e di spazzatura in decomposizione prendeva alla gola. I suoi uomini avevano risolto il mistero. Ora restava da avvisare Fernando e quel guaio gli spettava di diritto. Era o non era il capo della centrale?
Gerardo Abril si trovava davanti al corpo senza vita d’una donna nera di mezza età, fianchi larghi e forme abbondanti. Non poteva essere che Azela, la descrizione fatta dal marito e dalla donna che l’accompagnava corrispondeva.
La corrente d’un mare infestato da squali aveva scelto il posto peggiore per riconsegnare il cadavere. Cojimar era un piccolo municipio poco lontano da Alamar, noto soprattutto per la casa al mare di Hemingway, da qui lo scrittore partiva per la sua pesca d’altura. Qui era nato “Il vecchio e il mare” e un busto di marmo era stato eretto a perenne memoria. Qui c’era anche una discarica a cielo aperto che conduceva al mare i rifiuti di due municipi confinanti e di parte della vecchia Avana.
“E non spetterebbe neppure a me, tra l’altro. Cojimar non è nella mia giurisdizione. Perché sono accorso subito quando hanno telefonato in centrale? Va bene che il caso della scomparsa di quella poveraccia era mio, ma qui sono fuori zona, c’è un altro ispettore. Il collega sarà felice di avermi scaricato una bella rogna…” Pensava e guardava quel corpo martoriato dall’acqua salata. Irriconoscibile. Gonfio. Devastato dai morsi dei pesci.
Azela aveva la testa fracassata, sembrava che fosse stata colpita da una grossa pietra appuntita, il volto fotografava un’espressione di stupore. Non c’erano tracce di sangue, le aveva lavate via la corrente in quei due lunghi giorni.
“Adesso viene il bello” pensò “questo è un omicidio, non ci sono dubbi. E i giornali non vorranno scrivere niente perché non è ammesso che accadano fatti di sangue. Quando succede va trovato un colpevole e giustiziato in tempi rapidi. Tra poco avrò tutti intorno. Superiori, partito, governo. Vorranno una soluzione, mi tormenteranno ogni giorno… E intanto c’è un disgraziato da avvisare e anche quello è compito mio”.
Gerardo Abril si disse che ormai c’era finito dentro e non c’era niente da fare. Doveva nuotare in mezzo alle sabbie mobili cercando di non farsi spingere troppo a fondo. Com’era lontana la pace delle caserme orientali! Come rimpiangeva Guantanamo e le sue calde notti di luglio!
I suoi uomini tirarono fuori da quel bagnasciuga di pietre e di sterpi il corpo di Azela e un medico lo coprì con un lenzuolo certificandone la morte. Gabbiani impauriti volavano nel vento mentre avvoltoi neri perlustravano circospetti la zona. Se la polizia avesse tardato appena un poco di Azela non sarebbe rimasto neppure il cadavere.
Fernando era stato avvisato per telefono, gli avevano detto di presentarsi in centrale prima possibile. C’erano novità importanti, aveva riferito la voce d’un poliziotto all’altro capo del filo. Però non gli avevano detto quali.
Una folla di pensieri nella mente di Fernando in attesa della guagua per Alamar. Una folla di ricordi e sogni. Speranze e paure. Tormenti. Gli anni passati accanto ad Azela, i sorrisi dei bambini, le feste, i progetti comuni. Tutta una vita si affacciava prepotente alla memoria mentre lui attendeva soltanto buone notizie. Cercava un ramo proteso da afferrare nel vuoto per salvarsi da un baratro di solitudine, dove lo avevano lasciato in bilico tra la vita e la morte. Si sarebbe aggrappato a qualsiasi cosa e avrebbe voluto sorridere di nuovo insieme a lei.
Passò da Barbara, prima. Insieme andarono a farsi massacrare i sogni dall’ispettore Abril, che tutto avrebbe voluto fare quel giorno tranne il messaggero di morte. Era una calda giornata di maggio che apriva le porte all’estate e d’un tratto cadeva una scure a decapitare il passato nella vita di Fernando.
Era rimasto solo. Solo con i bambini. Solo con sua madre in una casa troppo grande. Vuota di Azela, soprattutto. Vuota di emozioni, priva delle sue parole. E le canzoni d’amore di Willy Chirino si sarebbero liquefatte in lacrime di ricordi. I progetti da realizzare sarebbero rimasti per sempre chiusi in un cassetto.
“Perché?” riuscì soltanto a sussurrare.
Piangeva. Barbara cercava di sostenerlo con amore.
“Perché?” ripeté di nuovo guardandola negli occhi e incontrando le sue stesse lacrime riflesse in quelle di lei.
Non c’era un motivo, lo sapevano entrambi. Lo sapeva anche l’ispettore Abril. Qui c’era soltanto la mano d’un folle. Qualcuno le aveva fracassato la testa e poi l’aveva gettata in mare la notte della festa. Il decesso risaliva a due giorni prima. Azela era stata anche violentata, l’analisi del medico legale aveva rinvenuto tracce di un rapporto avvenuto poco prima dell’omicidio. Poteva essere stato chiunque. Uno che le aveva dato un passaggio, un ubriaco che l’aveva seguita dopo la festa, un pazzo assassino, un maniaco.
“Non sarà facile acciuffarlo” disse l’ispettore.
Era il caso più difficile che gli fosse capitato tra le mani, da quando aveva abbandonato l’oriente per quella periferia urbana dell’Avana.
Fernando dovette riconoscere il corpo martoriato dalla corrente e da quelle mani assassine. Pianse. A lungo. Si sentì mancare mentre i ricordi scorrevano via dal suo corpo e si affacciavano con irruenza alla memoria. Vomitò. Un sapore di amaro salì improvviso dalla bocca dello stomaco verso il palato.
Quando Fernando lasciò la centrale sostenuto da Barbara sapeva che non avrebbe mai scacciato via dalla sua vita quel sapore amaro. Domani avrebbero seppellito Azela. Non il suo ricordo. E quel viso sorridente di nera dai fianchi abbondanti continuava a tracciare sensazioni lontane e struggenti rimpianti.
Il funerale e il viaggio al Cementerio Viejo di Guanabacoa lo fecero con le auto messe a disposizione dalla funeraria. Non avevano potuto fare l’ultima veglia perché il corpo era sotto sequestro e i medici dovevano completare l’autopsia. Il corteo funebre partì dalla centrale di polizia di Alamar e raccolse amici e parenti per l’ultimo saluto. Fernando distrutto dal dolore con i bambini per mano, accanto genitori e suoceri. Avevano portato anche loro, era impossibile nascondere che la madre non avrebbe più fatto ritorno a casa. I più piccoli non capivano cosa stesse accadendo ma partecipavano, comprendevano la gravità del momento. Lo si capiva dal loro silenzio, da quella calma innaturale che li aveva catturati, la sorella maggiore si occupava di loro come una piccola madre di dodici anni.
Anche l’ispettore Gerardo Abril volle accompagnare il funerale di Azela e pregare per lei. Era credente. A modo suo ma lo era. Faceva convivere comunismo e fede senza tanti problemi, diceva che c’era del buono in entrambe le cose e che provava la necessità di avere un Dio da pregare. E poi lo sentiva come un dovere dopo quel che aveva pensato di Azela. Barbara era venuta insieme a Roberto, sconvolta come se il destino l’avesse privata dell’amica più grande. Aveva conosciuto Azela pochi mesi prima all’Ospedale della Villa Panamericana, ma era diventata importante per lei. Se suo figlio era vivo il merito era stato di Azela e di Armando. E adesso non poteva fare a meno di pensare che erano morti entrambi, come se qualcuno avesse voluto punirli per quel che avevano fatto. Fernando si appoggiava a Barbara, teneva in braccio la bambina più piccola che sorrideva inconsapevole e osservava una scena terribile. Roberto era stanco. non stava bene, quel mal di testa insopportabile non gli consentiva di riposare. Poi la notte faceva tardi, spesso dormiva fuori e svegliarsi presto al mattino non faceva per lui. Non gli era mai piaciuto.
Accompagnarono Barbara a Guanabacoa. Il Cementerio Viejo aprì i cancelli sotto un sole cocente. Fernando gettò una manciata di terra sulla bara di legno e salutò il volto della moglie dal piccolo oblò di vetro che avrebbero chiuso in fretta prima di seppellirla. Pianse alla benedizione del prete e la ricordò ancora una volta come non l’avrebbe mai dimenticata. In casa a rincorrere i bambini che non volevano saperne di andare a fare il bagno, oppure ai fornelli mentre scaldava il caffè e si entusiasmava ai pettegolezzi delle amiche.
Sarebbe stata dura da solo, con una famiglia da crescere. Ma ce l’avrebbe fatta. Tra le lacrime che rigavano quel volto scolpito dal dolore lo promise sulla memoria della moglie.
“Lo farò per te” mormorò a mezza voce.
L’ispettore Abril si avvicinò e lo abbracciò.
“Mi dispiace per quello che ho pensato. Davvero. Le prometto che troveremo chi ha ucciso sua moglie” disse.
“Avrei preferito dire che aveva ragione lei” rispose Fernando.
“Puoi venire da me quando vuoi” disse Barbara.
“Mi spiace” mormorò Roberto “l’avevo conosciuta quella sera stessa. So che aveva fatto tanto per me quando stavo male”.
Fernando non parlava, ringraziava soltanto con un cenno del capo, stringeva forte a sé i bambini, guardava Barbara con tristezza e la terra che cadeva inesorabile sulla bara di legno.
Il Cementerio Viejo di Guanabacoa raccoglieva il suo ultimo saluto ad Azela. La vita da domani non sarebbe più stata la stessa.
Roberto e Barbara tornarono ad Alamar con la guagua.
Poco a poco si stava facendo sera e il sole calava su quell’orizzonte di barche e mare, tra palme piegate da leggere folate di vento. La canna selvatica nascondeva piccoli approdi e le mangrovie protendevano rami sul litorale di scogliere, che tra piccole insenature e baie naturali raggiungeva Cojimar.
Roberto portava spesso le mani alla testa come per placare un dolore insopportabile. Barbara se ne accorse quando scese dalla guagua e in lontananza cominciava a intravedere la piccola casa affacciata sull’oceano.
“Cosa succede?” le chiese.
“Niente mamma. Non ti preoccupare”.
Ma si capiva dall’espressione del volto che soffriva. Un dolore acuto gli trafiggeva il cranio partendo dalle tempie. Roberto non ricordava di essere mai stato così male.
“A me non la racconti. Si vede che qualcosa non va. Tu sei stato a un passo dalla morte e se adesso hai delle ricadute dobbiamo avvisare il medico. Non possiamo rischiare che accada di nuovo”.
“Non è niente, mamma. Solo un po’ di mal di testa”.
“Quando arriviamo a casa ti metti a letto e prendi un paio di antidolorifici. Poi chiamiamo il medico”.
“Non ho bisogno di medici”.
“Quello di cui hai bisogno lo decido io. Tu non ricordi il tempo che hai passato all’Ospedale della Villa, ma io sì. E so quanto ho sofferto nel vederti in quelle condizioni”.
Roberto stava davvero male. Stava provando la crisi più violenta che aveva avuto dopo il rientro a casa. Forse le troppe emozioni, il funerale, il ricordo della lite con la ragazza avvenuta pochi giorni prima.
E poi era ancora convalescente, anche se non lo sapeva. Avrebbe dovuto riguardarsi e condurre una vita più tranquilla. Sarebbe spettato a Barbara il compito di porre divieti e controllare. D’ora in poi lo avrebbe fatto, pensò preoccupata.
Quando arrivarono a casa Barbara preparò il letto con cura e porse al figlio due pasticche di Duraljina e un bicchiere d’acqua. Lui si coricò di mala voglia ma senza protestare.
Stava davvero male.
Barbara lo guardò pensierosa e si sedette a capo del letto.
Rammentava quando era bambino e lei lo addormentava narrando la fiaba della cucarachita Martina e del ratoncito Perez, oppure leggeva le filastrocche di Martí e i racconti della Edad de Oro. Era tutto più semplice, allora. Anche se facile non lo era mai stato, perché avevano affrontato la vita da soli, facendosi forza l’uno con l’altro. E adesso erano di nuovo soli. Senza Azela. Senza Armando. Chi l’aveva aiutata a riportare suo figlio in vita non c’era più.
Era rimasto Dio, pensava Barbara.
Ed era convinta che lui non li avrebbe mai abbandonati.
(13 – continua)