SCAMBIO DI TESTE 17

17.

Barbara ebbe una notte agitata. Roberto non era rientrato a casa.  Capitava spesso, purtroppo, ma lei faticava ad abituarsi. Dopo la malattia Barbara era diventata ancora più protettiva. Non serviva a niente. Lui scappava e si confondeva per le vie della notte d’una città di frontiera percorsa da puttane, truffatori, omosessuali e turisti. Cosa facesse in compagnia di questa umanità non era difficile immaginarlo e la cosa non le piaceva per niente.

Quando si svegliò, dopo aver riposato poco e male, decise che sarebbe andata al mercato per fare un po’ di provviste. Aveva voglia di preparare una buona cena e passare una bella serata assieme a suo figlio. Avrebbero parlato e mangiato ajiaco, quella minestra criolla che a lui piaceva tanto.

Il mercato di Alamar si trovava nel centro del paese, a metà strada tra la parrocchia  della Caridad e gli approdi sul mare delle piccole barche da pesca. Il centro della vita del quartiere, tutto sommato. Là si riunivano le comari a spettegolare e a commentare l’ultima puntata della novela. Tra quei banchi si potevano incontrare contadini che venivano da Pinar del Rio a vendere i prodotti dei campi, macellai con la carne esposta sul bancone, venditori di guarrapo che spremevano la canna da zucchero con un macchinario rudimentale e preparavano la dolce bevanda energetica. Poco lontano ribolliva il pentolone dell’ajiaco e il venditore offriva scodelle ricolme ai passanti al costo d’un peso la tazza. Barbara non ne prese, sebbene il profumo fosse invitante. Lo avrebbe cucinato per cena, adesso voleva comprare solo gli ingredienti giusti. Un po’ di yuca, malanga, quimbombó, patate, banane verdi, boniato e  anche qualche pezzo di carne di maiale per dare corpo e sapore.

Ad un tratto la sua attenzione fu attratta da volti conosciuti. Alamar non era grande e le donne del posto si conoscevano a sufficienza, anche solo per un incontro al mercato o davanti alla scuola dove accompagnavano i bambini. Barbara non poteva dire di avere amiche vere, dopo la fuga di Enrique si era rinchiusa in solitudine con Roberto e non aveva più frequentato nessuno. Si limitava a salutare con cortesia, scambiava parole di circostanza, qualche pettegolezzo al mercato. Niente di più.

Un gruppo di donne affollava il banco della frutta e verdura, dove banane verdi da friggere erano accatastate accanto a quelle mature e casse di meloni e mango sopportavano i raggi d’un sole cocente. Parlavano fitto alternando esclamazioni a gesti di preoccupazione. Barbara si avvicinò incuriosita.

“Hai sentito cos’è successo?” diceva una.

“Come non potrei? A parte la televisione, lo dicono tutti” rispondeva un’altra.

“Tra poco non potranno farne a meno. Dovranno dirlo anche loro. La voce corre” diceva una terza.

Barbara non comprendeva bene, però notava espressioni preoccupate e sguardi smarriti. Non erano i soliti pettegolezzi sulle corna del vicino di casa. Non erano i soliti commenti sulla novela “El rey del ganado”. Era qualcosa di molto più grave.

Si fece coraggio e domandò spiegazioni.

“Hanno trovato una straniera morta sulla spiaggia di Guanabo” le rispose una delle donne.

“Qualcuno l’ha affogata, dopo averla violentata” aggiunse un’altra.

Proprio come Azela, pensò Barbara. Proprio come era accaduto alla sua amica alcuni giorni indietro. E adesso c’era di mezzo una turista straniera. Sapeva bene che lo Stato si curava poco dei cittadini cubani, spesso trattati con insolenza e indifferenza, quasi fossero un fastidio. Ma chi toccava uno straniero rischiava grosso. Cuba viveva grazie agli stranieri e al regime la sicurezza del turista interessava più di ogni altra cosa. Simili fatti di sangue non accadevano spesso, la polizia li reprimeva con durezza e la giustizia decretava sentenze esemplari. Ricordava ancora la storia dei due italiani, ritrovati cadaveri sulla spiaggia di Guanabo. Il movente non era mai stato chiarito. Si era parlato di una storia di sesso e droga, ma anche di un regolamento di conti legato alla malavita. Il regime aveva trovato in fretta i colpevoli, avevano fucilato due tassisti e la faccenda era stata messa a tacere. Erano stati in molti a sostenere che quei poveracci non c’entravano niente e che al governo interessava soltanto trovare un colpevole per dare al mondo una dimostrazione di efficienza.

“La corrente l’ha portata a riva con il corpo gonfio e irriconoscibile. Aveva segni di percosse e graffi sul collo. Pare che sia stata violentata sulla spiaggia e soffocata con la testa immersa nel mare”. Diceva la più informata.

Barbara si sentì mancare. Riviveva la morte di Azela. Ripercorreva identico terrore ascoltando quelle parole. Non era più la Cuba d’una volta. Un assassino colpiva tra Alamar e Guanabo. Un criminale violentava le donne e poi le affogava. Cubane o straniere non aveva importanza.

Pensò che suo figlio non era rientrato e forse stava correndo chissà quali rischi. Terminò la spesa e in fretta fece ritorno a casa. Lo avrebbe atteso trepidante e il gusto caldo dell’ajiaco avrebbe cacciato via i cattivi pensieri. Almeno era ciò che sperava.

 

L’ispettore Gerardo Abril apprese la notizia di quel nuovo omicidio dal collega di Guanabo. Non era competenza sua e la cosa lo rallegrava non poco, ma le grane ci sarebbero state per tutti. La mano che aveva colpito era la stessa, il corpo di quella poveretta parlava da solo. Un killer si divertiva a violentare donne sul litorale dell’est Avana, poi le soffocava e le gettava in mare. Questa volta si trattava di una straniera, una tedesca per la precisione, e lui sapeva bene che non era la stessa cosa. Il problema era più grave e delicato. Il governo avrebbe fatto pressione sulla polizia affinché venisse trovato un colpevole al più presto. La morte violenta di una turista era un grave problema per il paese. La Cuba del periodo speciale aveva necessità vitale di far sentire tranquilli gli stranieri. L’ispettore Gerardo Abril si trovò a pensare che se ne sarebbe tornato volentieri a oriente, magari a Guantanamo o Bayamo. Avrebbe lasciato a qualcun altro quella scomoda divisa celeste da poliziotto. Meglio la miseria e la fame. Meglio un campo di boniato e mais dalle parti di Las Tunas. Avrebbe mangiato casabe e bevuto caffè con chicharo, in cambio d’una vita tranquilla passata a far dondolare un sellon davanti al  tramonto.

E invece era là, in quella periferia industriale dell’Avana a farsi sconvolgere la mente da domande e pensieri. Che c’era venuto a fare all’Avana? Perché non aveva cercato di evitare il trasferimento? La moglie aveva amici influenti nel partito e si era offerta di intercedere in suo favore. Era stato lui a non volere.

“Devo andare dove c’è bisogno di me” aveva detto da buon comunista. Suo padre si sarebbe comportato così, lui non poteva essere da meno. Ed erano partiti. Adesso che il vecchio ufficio di campagna era un lontano miraggio, spazzato via dalla realtà d’un serial killer che uccideva sul mare, rimpiangeva non poco la sua scelta.

 

Roberto tornò a casa dopo un paio di giorni. Non dava mai spiegazioni su ciò che faceva e a Barbara non restava che immaginare. Rientrò di buon mattino. Erano due notti che dormiva fuori. Chissà dove, chissà con chi, pensò Barbara. Salutò di mala voglia e sedette al tavolo della cucina. Aveva gli occhi pesanti e sembrava molto affaticato.

“Come ti senti?” le chiese Barbara.

“Bene” rispose Roberto senza convinzione.

In realtà il solito terribile mal di testa non lo abbandonava un istante e sentiva il sangue affluire alle tempie come se qualcosa lo pompasse a gran velocità.

“Si vede dal tuo aspetto che non è vero”.

“Sono soltanto un po’ stanco, tutto qui”.

Barbara mise il caffè a riscaldare e cominciò ad armeggiare nella dispensa per preparare una frittata. Di sicuro Roberto non aveva ancora fatto colazione.

“Per cena preparo l’ajiaco” disse “avevo comprato tutto ieri pomeriggio, ma tu non sei rientrato. So che ti piace e volevo mangiarlo insieme a te”.

Roberto accennò un sorriso. Aveva appetito ma era anche molto stanco. In quel momento non sapeva dire quale delle due cose fosse preminente. Avrebbe mangiato qualcosa e poi si sarebbe sdraiato sul letto, ne aveva proprio bisogno. In quei due giorni ne aveva fatte troppe e doveva scaricare la tensione.

“C’è stato un altro omicidio” disse Barbara mentre preparava la colazione “hanno ucciso una straniera sulla spiaggia di Guanabo”.

Roberto non rispose neppure. La cosa non lo impressionò più di tanto. Sapeva che i turisti andavano spesso in cerca di guai, lui non li aveva mai avuti in simpatia. Per lo più si trattava di gente arrogante che veniva a Cuba con un po’ di soldi in tasca e tante frustrazioni. Credevano di comprare tutto con i dollari, persino il cuore della gente. Mangiò la frittata con appetito, bevve un paio di tazze di caffè e infine si alzò per andare in camera.

“Vado a riposare” disse.

“Credo che tu ne abbia bisogno” rispose Barbara preoccupata.

Lo sentiva che quel ragazzo aveva qualcosa che non andava, da buona madre intuiva le cose solo guardandolo negli occhi.

Proprio mentre Roberto lasciava la cucina sentì bussare alla porta. Era Fernando. Lo avevano dispensato per un certo periodo dal lavoro in manifattura. Il medico gli aveva prescritto un periodo di riposo per recuperare la forma fisica. E lui veniva spesso a confidarsi da Barbara, quando aveva tempo e riusciva a  lasciare i bambini alla madre o alla suocera. Lei era l’unica che poteva capire quello che stava passando.

Aveva saputo dell’omicidio di Guanabo ed era spaventato.

“Ho parlato con l’ispettore Abril. Mi ha detto che pensano a un killer che uccide senza motivo. Chi ha colpito Azela è lo stesso uomo che ha violentato e poi annegato quella straniera” disse.

“Questo significa che c’è da avere paura anche a uscire per strada, adesso. Il killer può essere chiunque” rispose Barbara.

“Purtroppo. E non avrò pace finché non lo avranno preso. La mia Azela deve essere vendicata”.

“La polizia sta indagando a fondo. C’è di mezzo una straniera e la cosa prenderà una piega diversa. Forse faranno qualcosa davvero” concluse Barbara.

Poi offrì una tazza di caffè a Fernando e si sedette accanto a lui sul divano. Bevvero insieme quel liquido nero e denso. Assorti nei loro pensieri. Lei in pena per la salute di Roberto, quei dolori alla testa che lo distruggevano, il suo volto stanco e quelle notti che passava fuori di casa senza dare spiegazioni. Lui percorrendo col pensiero il ricordo di Azela, impotente di fronte alla solitudine che doveva affrontare. C’era Barbara, per fortuna. Si tenevano compagnia ed erano diventati buoni amici, uniti dai casi della vita e dalle preoccupazioni.

Ad un tratto Barbara si accorse che Roberto aveva lasciato la porta di camera socchiusa, vide i vestiti abbandonati sul pavimento in completo disordine. Si alzò dal divano ed entrò senza fare rumore in camera per recuperare pantaloni e maglietta. Tra l’altro erano sporchi e sudati, avrebbe dovuto lavarli.

Quando tornò in sala si scusò con Fernando.

“Torno subito. Metto questi in lavatrice e sono da te”.

“Fai pure. Sono io di troppo. Bevo il caffè e tolgo il disturbo. So che in casa una donna ha sempre il suo bel da fare”.

“Faccio presto. Roberto è stato fuori un paio di giorni e adesso sta riposando. Lavo questi vestiti e poi usciamo a fare due passi sul mare. Abbiamo anche noi diritto a rilassarci”.

Mentre parlava si accorse che dai pantaloni di Roberto era caduto qualcosa. Un portafoglio di pelle nera. Barbara non glielo aveva mai visto, non sapeva neppure che suo figlio possedesse un portafoglio. Forse era un regalo di qualche straniera, forse lo aveva comprato da poco. Lo raccolse. Pareva nuovo e soprattutto sembrava che contenesse molto denaro. Barbara non resistette alla tentazione di curiosare all’interno. Aprì gli scomparti e sfogliò i biglietti verdi. Erano dollari, non pesos. Ed erano dieci biglietti da cento. Accanto vide altri biglietti di piccolo taglio e qualche foglio da venti pesos con l’effige di Camillo Cienfuegos. Barbara cercò di nascondere la sua meraviglia, Fernando era sul divano a bere il suo caffè e non si era accorto di niente.

Barbara sedette di nuovo stringendo quel portafoglio di pelle nera tra le mani. Mille pensieri le sconvolgevano la mente. In quali giri pericolosi era finito il suo ragazzo? Da dove veniva tutto quel denaro? Ebbe paura. Spesso tornava a casa con cinquanta o cento dollari, rimediati per aver portato una ventata d’allegria nella vita di qualche turista depressa. Sapeva che faceva la vita del jinetero, anche se le costava ammetterlo. Però mille dollari in tasca non glieli aveva mai visti e non li aveva guadagnati certo in due giorni portandosi a letto qualche straniera!

Quella sera Roberto avrebbe dovuto spiegare tutto, cercando di essere molto convincente. Ne avrebbero parlato a lungo e non se la sarebbe cavata con un silenzio o con vaghe risposte. Barbara doveva smettere di fare la madre comprensiva, aveva sopportato sin troppo le fughe notturne di quel ragazzo e una vita che non approvava. Temeva che Roberto si fosse immerso nelle sabbie mobili di cose più grandi di lui. Non poteva restare inerme a vederlo sprofondare ogni giorno di più. Non lo aveva salvato dalla morte perché finisse i suoi anni in prigione o nei campi di lavoro a oriente.

Fernando interruppe i suoi pensieri.

“Vogliamo uscire?” le chiese “Prendere un po’ d’aria ci farà bene. C’è una paladar economica vicino al mare dove possiamo mangiare pollo fritto con patatine e riposare un po’. Tuo figlio è molto stanco e non si sveglierà che per l’ora di cena’”.

Barbara fece cenno di sì con la testa. Posò il portafoglio sul tavolo di cucina e mise i panni in lavatrice. Andò in bagno per sistemarsi la pettinatura, indossò una gonna di cotone che le scopriva di poco il ginocchio e una maglietta colorata, al posto della solita lycra che usava per casa. Uscire le avrebbe fatto bene. Aveva voglia di andare sul mare e osservare le barche dei pescatori mentre prendevano il largo. Il mare era da sempre il suo rifugio nei momenti tristi, quando tutto intorno a lei sembrava crollare. Il vento caldo che spirava dall’oceano e si perdeva tra i rami della canna selvatica l’aiutava a non pensare. Barbara sedeva sulle scogliere, oppure si stendeva sulla piccola spiaggia con il volto rivolto al sole, poi attendeva che i gabbiani volassero a pelo dell’acqua per cacciare le prede. Anche quel giorno avrebbe fatto così, in compagnia di Fernando. Entrambi chiedevano solo di trovare la forza per affrontare una vita che si stava facendo sempre più difficile.

 

Fernando si fece un po’ pregare ma poi restò per la cena.

Barbara gli disse che aveva preparato un ajiaco da fare invidia a quello che servivano nei migliori ristoranti dell’Avana.

Lo aveva fatto per Roberto. Ci aveva messo tutto il suo amore di madre in quel bel minestrone caldo a base di vianda e cotenna di maiale. Era un ajiaco tradicional, un vero esempio di cucina criolla. Il piatto preferito di Roberto.

Aveva gli stessi gusti del padre. Anche Enrique non avrebbe mangiato altro. Per questo Barbara non lo cucinava spesso, c’erano troppi ricordi spiacevoli legati a quel piatto. Una fuga che sapeva di tradimento, giorni di solitudine a scrutare il mare, notti insonni a vegliare un bambino, ricordando la voce di un uomo che aveva amato tanto e che non sarebbe più tornato. Finiva sempre che il suo ajiaco lo condiva di lacrime e rimpiangeva di averlo preparato. Ma adesso sentiva che qualcosa era cambiato. Suo figlio era di nuovo accanto a lei e non c’era più niente che potesse farla star male, il volto di Enrique sfumava nel vento dei ricordi. Non aveva più bisogno di lui. In realtà non ne aveva mai avuto bisogno. Perché lui non c’era mai stato. Un solo uomo aveva attraversato la sua vita: Roberto. Le era stato accanto come un marito non avrebbe saputo fare, proteggendola e difendendola dalle avversità. Lei lo rimproverava quando diceva che non si sarebbe mai sposato e che le donne servivano soltanto per fare l’amore. Però era orgogliosa di essere l’unica donna importante della sua vita.

Adesso che Roberto era guarito doveva ringraziare Dio. Quel Dio che le aveva dato la forza di superare tutti i problemi. Quel Dio che non l’avrebbe mai abbandonata, come le aveva detto padre Antonio. Se qualcun altro aveva contribuito a restituirle Roberto era merito di un disegno divino. Armando era stato solo un pedina manovrata dall’alto. La sua anima di cattolica aveva costruito quelle giustificazioni che scacciavano i sensi di colpa per aver partecipato a quel terribile rito santéro dello scambio di teste. Le avevano detto che qualcun altro era morto per salvare suo figlio. Lei non ci credeva e non voleva sapere niente di quella storia. Era poco più che un ricordo da scacciare ogni volta che tornava prepotente alla memoria.

Lo sguardo buono di padre Antonio portava via i cattivi pensieri come un soffio di vento purificatore. Le sue parole la rasserenavano. “Tutto quello che accade l’ha voluto Dio, Barbara. Tu lo sai. Non credere alle superstizioni che non portano a niente. Solo Dio non ti abbandona”.

Adesso Roberto stava di nuovo male. Soffriva di tremendi dolori alla testa, pareva che le tempie non riuscissero a contenere l’afflusso continuo di sangue. Avrebbe dovuto costringerlo a riposare, come aveva detto il medico. Lui invece scappava di casa e non si faceva vedere per giorni.

Poi c’era quella storia dei soldi. Dovevano parlarne. Subito.

Quando Barbara rientrò in casa in compagnia di Fernando, il figlio si era alzato dal letto ed era seduto sul divano davanti alla televisione. Era sintonizzato su Tele Rebelde e seguiva distrattamente una partita di baseball.

“Va meglio?” chiese Barbara.

“Non sono mai stato male. Avevo bisogno di riposare” mentì Roberto che ancora sentiva le tempie trafitte da dolori lancinanti. Pareva che qualcuno le penetrasse con spilloni aguzzi e che il sangue confluisse soltanto in quella parte del cranio. Faticava persino a parlare.

Si sentiva strano, nervoso, in collera con il mondo.

“Non venire a raccontare frottole a tua madre. Meglio di me non ti conosce nessuno e te lo leggo in viso quando c’è qualcosa che non va”.

“In ogni caso sono affari miei” concluse seccato.

Poi spense la televisione e se ne andò di nuovo in camera.

La voce di Barbara lo raggiunse.

“Preparo la cena. C’è l’ajiaco che ti piace tanto”.

Per tutta risposta lui tornò dalla camera vestito di un paio di jeans e una camicia multicolore tipo guarapetiada.

“Lo mangerete da soli perché io ho da fare e non resto per cena”.

Fernando si era seduto sul divano e osservava la scena senza parlare. Era un discorso tra madre e figlio, lui non aveva nessun titolo per interferire. Però il comportamento e il tono che Roberto aveva verso sua madre non gli piacevano per niente. Lui sapeva quello che Barbara aveva fatto per Roberto, mettendo in discussione anche la fede in Dio e rischiando in prima persona.  Quel figlio era proprio un ingrato e non meritava una madre come Barbara, pensava.

Barbara era infuriata. Non lo riconosceva più.

Quello non era il suo Roberto. Lui non le avrebbe mai parlato così. Quelle non erano le parole di chi le aveva sempre detto che era l’unica donna importante della sua vita. Qualcuno glielo aveva cambiato. Le cattive compagnie che frequentava, di sicuro.

“Come sarebbe a dire che te ne vai? Sono due giorni che non ti vedo. Non so che fai e non so in che giri ti sei andato a cacciare. Non dormo la notte quando non ci sei. Ti vedo soffrire e non sono capace di farti curare. Vuoi farmi morire di crepacuore? Vuoi questo da tua madre? È questa la ricompensa per averti salvato dalla morte?”

“Non so niente di questa storia. So solo che sto bene e che sono sempre stato bene. Sono stanco di sentirmi raccontare delle favole. Sono un uomo e so badare a me stesso. Non ho bisogno di una madre che mi protegga” rispose seccato.

Barbara era costernata. Quelle parole erano pugnalate al petto, dolorose stilettate che penetravano i punti più sensibili del suo cuore. Una volta Roberto non si sarebbe mai rivolto a lei con quel tono. Questa era la prova che si stava cacciando nei guai e che frequentava persone pericolose. Lo avevano cambiato. Afferrò il portafoglio, che era ancora sul tavolo di cucina, e agitandolo con rabbia davanti agli occhi del figlio gli disse:

“Tu finirai male, Roberto. Ho trovato mille dollari nel tuo portafoglio. Dove li hai presi? A chi li hai rubati?”

A quella domanda Roberto si fece scuro in volto e il sangue gli cominciò ad affluire con maggior velocità alle tempie. La testa pulsava e un dolore terribile non lo faceva ragionare.

Ebbe uno scatto d’ira.

“Chi ti ha permesso di curiosare nel mio portafoglio? Non sono quelli i soldi che ti servono per mangiare? O vuoi vivere con i cento pesos che ti danno a scuola per insegnare le poesie di José Martí ai bambini?” gridò Roberto scagliandosi su Barbara e colpendola con uno spinta a mani aperte.

A quel punto Fernando intervenne.

“Lascia stare tua madre” intimò. E si frappose tra i due.

“Non permetto che tu metta le mani addosso a tua madre” concluse.

Roberto parve sorpreso da quelle parole. L’ira gli aveva annebbiato la mente e non rammentava neppure della presenza di Fernando. Forse si accorse di aver esagerato.

“Non sopporto che si metta il naso nei miei affari. Non sono un ladro, cerco solo di darmi da fare. E da dove vengono i dollari che porto non deve interessare a nessuno”.

Poi prese il portafoglio e lo ripose nella tasca dei pantaloni. Non aveva altro da dire, aveva spiegato sin troppo. Uscì sbattendo la porta e sparì nell’imbrunire della periferia avanera.

La notte stava per cominciare e troppe cose lo attendevano lontano da quella casa. Non aveva tempo da perdere.

Barbara scoppiò a piangere. Avrebbe voluto correre dietro a suo figlio e fermarlo. Sapere dove stava andando, chi doveva vedere e cosa gli stava accadendo. Perché solo quello comprendeva, Roberto era su di una brutta strada e quella storia sarebbe finita male se lei non avesse fatto qualcosa.

Fernando la teneva tra le braccia e provava a consolarla.

Non era facile. Anche perché lui non era nelle condizioni migliori per essere d’aiuto a qualcuno. Ma ci provava. Barbara aveva bisogno di lui e insieme avrebbero affrontato quella vita che qualcuno si divertiva a disseminare di ostacoli imprevedibili.

L’ajiaco bolliva sul fuoco. Lo avrebbero mangiato insieme e ancora una volta Barbara lo avrebbe condito di lacrime.

Non era ancora tempo di sorridere, purtroppo.

E l’ajiaco era destinato a ricordarle soltanto cose tristi.

 

Roberto fuggiva nella sera di giugno, sotto il caldo vento che spirava dal mare. Il volto accarezzato dalla brezza e i sensi immersi nei soliti profumi del flambojant ricolmo di fiori rossi.

Pedro lo aspettava in fondo alla strada, vicino al porticciolo dei pescatori. Aveva l’auto, una vecchia Lada sovietica consumata dalla ruggine e dagli anni. Sarebbero andati in città con quella. L’Avana li attendeva. Era il periodo dell’anno con maggior presenza di turisti e le occasioni non mancavano. Bisognava darsi da fare e sfruttare ogni possibile contatto.

Pedro lo salutò e si accorse subito che l’amico era in preda a uno stato di agitazione nervosa.

“C’è qualcosa che non va?” chiese.

Ricordava ancora la scenata dell’altra sera con quella ragazza.

Non voleva trovarsi a far fronte a una situazione simile.

Pedro faceva il jinetero ma voleva restare nei limiti. Rischiava già abbastanza, sapeva che le pene erano severe e che nessuno era disposto a  chiudere un occhio se si maltrattavano i turisti.

“Niente” rispose Roberto “una discussione in casa con mia madre. Le solite cose”.

Pedro mise in moto il motore scoppiettante di quella vecchia carcassa e partì. Passarono davanti alla Villa Panamericana e a quel panorama consueto di jineteras che abbordavano turisti davanti alla discoteca della piscina, superarono l’ex ospedale militare e videro sulla destra il mare dal solito colore scuro che sfumava all’ingresso del Tunnel, per finire sull’avenida Maceo davanti al Castillo de San Salvador de la Punta, lasciandosi alle spalle El Morro. Si fermarono al semaforo del Prado. Poco più avanti si apriva il Malecón con i palazzi colorati screpolati dal salmastro e quelle colonne greco romane, che conferivano a un insieme di magnificenza decadente un tocco di irrealtà. Per loro era la vista di sempre. Una città magica dove sembrava tutto possibile, anche scomparire agli occhi del mondo, oppure trasformarsi d’un tratto in quello che uno non avrebbe mai sognato di poter diventare. Era per quel motivo che tanti turisti stranieri si sentivano attratti da quella città. Per quel suo aspetto affascinante da frontiera del mondo, dove era lecito sognare di venire a cambiare la noia del quotidiano per la follia d’una lunga notte irreale. E il loro compito era quello di coltivare quelle speranze, facendo credere che L’Avana fosse davvero la realizzazione dei sogni, un porto dorato dove far ammarare i ricordi e spingerli nel vento dell’avventura.

Pedro si era procurato un appuntamento con due italiane.

“Le portiamo al 1830. Poi vediamo cosa succede”.

Il 1830 era un cabaret affacciato sull’oceano Atlantico, immerso in un’atmosfera finto barocco, tra statue in stile greco antico e un piccolo tempio. Là finiva il Malecón tradicional.

Roberto non aveva preferenze. Per lui andava bene tutto, bastava che ne venissero fuori dei dollari. Era l’unica cosa che contava. Si era convinto che gli scrupoli morali non contassero niente e diceva sempre: “L’unica cosa che cambia il nero in bianco sono i soldi”. E si comportava di conseguenza.

Ripensò per un attimo ai giorni precedenti. Rivide il volto di quell’italiano che gli avevano presentato al Coppelia. Lui era stato molto gentile, aveva pagato un gelato di fragola e cioccolato per tutti  e poi si era messo a parlare di quello che era venuto a fare all’Avana. Stava girando un film, disse. Un film un po’ particolare, di quelli che in Italia non si potevano fare perché vietati dalla legge. Concluse dicendo che aveva bisogno di noi per andare avanti. Lui non conosceva la gente del posto e non poteva fare tutto da solo. Servivano bambini, disse. Bambini piccoli per recitare. Stavano girando una pellicola pornografica e in alcune scene erano coinvolti dei bambini. Era un film per un pubblico particolare, non la solita pellicola porno. Un film per pedofili dove i bambini venivano costretti a subire torture e sevizie. Voleva soprattutto bambini di colore. Incontravano di più i gusti del pubblico, disse.    Avrebbe pagato bene e ci sarebbe stato denaro anche per le famiglie che fornivano i bambini. Concluse dicendo che il set era in un appartamento sopra il ristorante Carabalí, in Rampa, proprio dopo l’Habana Libre andando verso il Malecón.

Roberto ricordava come tutti i suoi amici rimasero inorriditi dalla richiesta. Nessuno accettò di portare bambini a fare cose immonde in quelle stanze sopra il Carabalí. Lui finse lo stesso sdegno e la solita meraviglia. Però subito dopo tornò da solo in calle ventitres e suonò al campanello di quell’appartamento sopra il Carabalí. “Quanto pagate?” chiese al regista.

“Mille dollari per te e cinquanta per ogni famiglia che accetta di fornire un bambino” rispose l’italiano.

Roberto accettò senza pensarci troppo. Solo i soldi contavano, tutto il resto erano assurdità spacciate per verità dalla televisione e dal Granma. Sapeva che stava facendo una cosa molto pericolosa e che rischiava la fucilazione. C’erano leggi dure a tutela dell’infanzia. Ma lui pensava che tutto sommato era una cosa positiva anche per le famiglie dei bambini. Cinquanta dollari non si trovavano tutti i giorni e poi erano guadagnati con poca fatica.

I bambini dovevano soltanto fingere rapporti sessuali e anche le sevizie e le torture erano simulate. Si trattava di un film, in fondo. E mille dollari erano sempre mille dollari. Per una cifra come quella avrebbe fatto anche di peggio.

Pedro non sapeva nulla di quella storia. Nessuno doveva sapere nulla. Neppure sua madre.

Un fitto parlare in italiano lo scosse dai suoi pensieri.

L’auto si era fermata davanti a una casa particular di calle Concordia in Centro Habana. Lui non se n’era neppure reso conto, preso dal vortice dei suoi pensieri. E poi la testa gli faceva ancora male. Riposare non era servito a molto.

Le due ragazze che dovevano accompagnare al 1830 stavano parlando tra loro. Non erano male, tutto sommato. Abbastanza alte, carnagione chiara, di età indefinibile attorno ai trent’anni.

Poteva capitare di peggio, pensò Roberto.

La notte avanera li attendeva.

(17 – continua)

Gordiano Lupi