Fernando di Leo è un intellettuale di sinistra, convinto che i generi esistano e che vadano rispettati, ma che si possa innovare e provocare anche lavorando all’interno di un genere. Il regista costruisce storie di grande respiro, inventa personaggi a tutto tondo che non sono macchiette e contestualizza la narrazione in un ambiente urbano realistico. Non ama il cinema di impegno sociale, preferisce il cinema puro tutto spettacolo e immagini, concentrato di forma perfetta e girato con tecnica sopraffina. Non si vergogna (e fa bene) di raccontare storie, se poi nel racconto trapela un messaggio non si tira certo indietro, ma non deve essere l’elemento trainante del film. Nelle sue pellicole troviamo riferimenti al Sessantotto, alla contestazione studentesca, alla corruzione della polizia, alle collusioni tra mafia e politica, ma vengono sempre alla luce attraverso la storia e lo spettatore non resta infastidito dal messaggio. Di Leo narra fatti avvenuti e spesso anticipa i tempi, ma lo fa con grande rispetto per il pubblico e con una perfetta organizzazione del lavoro cinematografico. La macchina da presa per lui non ha segreti, sa sempre dove va posizionata per ottenere la resa migliore e comprende con rapidità se è preferibile usare il carrello o la macchina a mano. I suoi noir restano memorabili per un uso della musica che sottolinea a dovere i momenti topici della vicenda. Di Leo è anche un grande direttore di attori e non utilizza mai seconde scelte, perché si costruisce una vera e propria factory. Mario Adorf, Luc Merenda, Gastone Moschin, Pier Paolo Capponi, Henry Silva, Gianni Macchia e Vittorio Caprioli diventano attori feticcio. Il regista è molto bravo a tenere la corda tesa e a realizzare un’atmosfera di tensione che impedisce di distogliere l’attenzione dalla pellicola. La critica contemporanea non comprende che di Leo cerca di evidenziare alcune drammatiche realtà della società italiana, ma definisce il suo cinema come un deteriore concentrato di erotismo e violenza spesso fine a se stessi (confronta R. Poppi – Dizionario del Cinema Italiano – I registi – pag. 94). L’Enciclopedia Garzanti del Cinema edizione 2005 è più generosa, perché lo definisce un Melville in tono minore e un autore che si dedica a una vibrante poetica noir, affrancata dai modelli dell’imperante poliziottesco. Di Leo costruisce un’epica della malavita dai risvolti molto personali, esplora e infrange alcuni tabù prima inavvicinabili e utilizza sesso e violenza come validi mezzi espressivi. Se non viene capito dai contemporanei è perché anticipa i tempi ed è tra i primi a portare sul grande schermo una violenza realistica utilizzata come strumento narrativo. Fernando di Leo non può essere liquidato come un semplice regista di poliziotteschi (termine spregiativo coniato dalla critica colta). Lui è qualcosa di più, è un autore nel senso stretto della parola, con un proprio stile e una tecnica che non si prestano a facili classificazioni. Enzo G. Castellari è l’autore simbolo del poliziesco italiano, così come in tono minore lo sono anche Umberto Lenzi e Stelvio Massi. Fernando di Leo è un autore nero, un Don Siegel italiano, come lo definisce Quentin Tarantino. Il suo cinema si ispira ai noir di Scerbanenco ma prende una strada originale, segue l’incipit di un racconto e ne modifica le conseguenze, raccontando vicende estreme con protagonisti ben tratteggiati psicologicamente. Nei film del regista pugliese non esiste l’eroe positivo in assoluto, non c’è mai il poliziotto senza macchia e senza paura, il tutore dell’ordine incorruttibile e vincente. Tutt’altro. Capita spesso che il protagonista sia un individuo che per eventi tragici e situazioni esterne esplode in un eccesso di violenza e modifica radicalmente la sua vita. I suoi film sono storie nere narrate dalla parte di Caino e spesso vediamo protagonista un cattivo che combatte un cattivo ancora peggiore. Ci sono molte affinità tra Fernando di Leo e Giorgio Scerbanenco (1911 – 1969), scrittore nato a Kiev da madre italiana e padre ucraino che vive quasi sempre a Milano dove ambienta le sue trame da romanzo nero. Di Leo prende ispirazione dalle storie dell’ispettore Duca Lamberti e già con I ragazzi del massacro porta sul grande schermo le intuizioni letterarie di un autore poco amato dalla critica colta. Di Leo è uno dei registi italiani che meglio riesce ad adattare le atmosfere crude e violente di Scerbanenco in una pellicola cinematografica, grazie a uno stile violento, eccessivo e realistico che predilige la psicologia del personaggio in preda alla follia. Di Leo e Scerbanenco subiscono lo stesso destino di grandi autori noir snobbati dai contemporanei e tardivamente rivalutati da molta parte della critica. Per chi li ha sempre considerati buoni autori che raccontavano l’Italia degli anni Settanta con crudo realismo è una bella rivincita.
(3 – continua)