Di Leo ama il noir. Se gira film di questo genere non è certo per motivi commerciali, ma perché crede che il noir sia il modo giusto per raccontare i mali della società contemporanea. Il western gli era servito per narrare storie condite di realismo e violenza, il noir è un modo per entrare nelle psicologie dei criminali, delle vittime, dell’uomo comune oggetto di soprusi. Di Leo legge i diari di Gide ed è proprio tra le pagine di un autore importante che scopre Hammet e il suo eccessivo Piombo e sangue, una delle sue prime letture nere. Al cinema si appassiona ai noir della Warner Bros interpretati da Alan Ladd, Veronica Lake e William Bennet e si rende conto che adesso sono le pellicole che predilige, pure se da ragazzo ha amato molto il western. Il noir, forse, è una deformazione di famiglia, perché di Leo proviene da una generazione di avvocati e conosce molti delinquenti che tengono nei suoi confronti un atteggiamento protettivo.
Fino alla metà degli anni Sessanta, nel cinema italiano non esiste un genere poliziesco o noir. In Francia e negli Stati Uniti, invece, i generi sono molto praticati e si registra una grande produzione di pellicole nere. Nel nostro cinema dobbiamo attendere Carlo Lizzani e Mino Guerrini, tra il 1966 e il 1968, per far parlare i fatti di cronaca e per cominciare a sceneggiare storie che vedono protagonisti criminali e poliziotti. Il primo esempio di cinema poliziesco – mafioso è Il giorno della civetta di Damiano Damiani (1968), tratto dal romanzo di Sciascia. Si tratta di un ottimo film di denuncia sugli intrecci tra mafia e politica che tratteggia due bei personaggi interpretati da Franco Nero (il capitano dei carabinieri) e Lee J. Cobb (un mafioso perfetto), ma è capace di raccontare anche una storia realistica e avvincente. Resta memorabile nell’immaginario collettivo la definizione che il mafioso fornisce per “uomini, ominicchi, mezzi uomini, ruffiani e quaqquaraquà” e lo stupendo finale con il boss che giudica un uomo il carabiniere sconfitto. Prima di Damiani sono stati precursori del genere poliziesco registi come Germi, Rosi, Petri e Montaldo. Ricordiamo In nome della legge di Germi (1949), una storia di mafia e denuncia civile. Francesco Rosi gira film di denuncia come Le mani sulla città, Il caso Mattei e Salvatore Giuliano (1961).
Di Leo scrive Gangsters 70 e Omicidio per appuntamento per Guerrini, due noir ambientati a Roma che vanno molto bene, nonostante la diffidenza iniziale dei produttori. Si pensava (a torto) che un film poliziesco e con una trama criminale non fosse credibile se ambientato in una città italiana, anche se certi fatti di cronaca nera cominciavano a essere cruda realtà. La distribuzione – vera padrona del vapore – si rende conto che il film noir italiano ha un pubblico e comincia a chiedere pellicole di questo genere. Alla morte del western (per sfinimento) succede il poliziottesco e sono entrambi due generi popolari di grande successo, anche se la critica colta li ha disprezzati per anni. Oggi vengono rivalutati in maniera tardiva, spesso solo per necessità di mercato e nell’imminenza di una fiera dove viene organizzata una retrospettiva. Sarebbe imperdonabile non essere invitati a parlare di generi che sono stati sempre oggetto di disprezzo, ma che grazie a Tarantino tornano di moda. Fernando di Leo non chiede di meglio che scrivere e girare noir, per lui non si tratta di piegarsi ai voleri della distribuzione, ma segue la sua naturale inclinazione. Di Leo è uno degli inventori del western italiano, genere ucciso dal disprezzo del pubblico da parte dei produttori che cominciano a chiedere solo il numero dei morti e una lunga serie di sequenze violente, invece di cercare storie interessanti. Il regista pugliese viene dall’esperienza de I ragazzi del massacro, precursore del poliziottesco e di tutto il cinema nero italiano. Legge e si appassiona alla narrativa di Scerbanenco, traduce in immagini racconti e romanzi, modificando il finale e inserendo il personaggio abituale del poliziotto dal volto umano. Non perché reputi Scerbanenco inadeguato, per lui è un grande scrittore che comprende i meccanismi noir, ma di Leo è autore in tutti i sensi e vuole lasciare un marchio di originalità. I ragazzi del massacro è il primo film tratto da un romanzo di Scerbanenco, ma il regista prende la sua strada dopo aver utilizzato il testo come punto di partenza. I ragazzi del massacro non è una pellicola inquadrabile nel poliziottesco, perché si tratta di un lavoro originale e crudo, poco convenzionale e fuori dagli schemi. Per questo film vale lo stesso discorso che si può fare per un’opera d’autore come La polizia ringrazia di Steno, antesignana del poliziottesco, ma troppo originale e atipica per fra parte del genere.
Di Leo lavora per segnare un suo approccio tipico al noir tenendo sempre come paragone inarrivabile la lezione di registi del calibro di John Houston e Jean-Pierre Melville. Non vuole ridursi a fare film con protagonista il solito commissario tutto d’un pezzo dai modi spicci che risolve i casi più complicati usando metodi fuori dalle righe. Milano calibro 9 è una sorta di manifesto di ciò che il regista pugliese intende per cinema noir: malavita e polizia che lottano senza sosta, ma secondo schemi non convenzionali. Nel film citato troviamo due commissari di polizia in contrasto tra loro, uno comunista e l’altro fascista, forse troppo stilizzati, ma in ogni caso diversi dagli stereotipi del poliziottesco. Il suo poliziotto non è un eroe senza macchia e senza paura, non è il commissario interpretato da Merli o Gasparri, ma è una persona vera, dotato di una psicologia credibile. Il realismo è la connotazione principale del noir dileiano ed è la caratteristica con cui il regista rende originali i suoi lavori. Siamo al cinema e non possono mancare sparatorie e inseguimenti, che nella realtà sono limitati, ma di Leo insiste molto sulle ben più frequenti spiate, sotterfugi, trappole e tradimenti. Nei film noir del regista pugliese troviamo anche poliziotti corrotti, un esempio su tutti è l’ottimo Il poliziotto è marcio che si ispira a un romanzo ma riprende casi realmente accaduti. La mala ordina è un noir all’interno della malavita, un altro film realistico con protagonisti dei malavitosi che si ammazzano tra loro. Il realismo è un tratto distintivo del cinema dileiano che per scrivere i plot si ispira ai romanzi ma legge anche molta cronaca nera. Ama Melville, che prende come punto di riferimento e lo reputa il solo regista capace di dare moralità ai delinquenti. Di Leo trova il materiale adatto per il suo noir nei romanzi e nei racconti di Scerbanenco, al tempo non così famoso tra il pubblico, pure se era edito da Garzanti nella collana che pubblicava i libri di Fleming su James Bond. Di Leo e Scerbanenco si vedono un paio di volte, perché lo scrittore di Kiev scompare prematuramente, ma tra di loro si crea un feeling naturale. Vedono la realtà allo stesso modo, sono due realisti che parlano di piccoli delinquenti, di gente vera e criminali presi dalla strada e dai bassifondi delle città italiane. Di Leo usa il materiale di Scerbanenco come punto di partenza, lo modella secondo esigenze cinematografiche e modifica la storia a suo piacimento. I noir del regista pugliese subiscono persecuzioni da parte dei benpensanti e di alcuni esponenti politici democristiani che si sentono colpiti da certe critiche spregiudicate e coraggiose. Il ministro Giovanni Gioia vede Il boss e si sente offeso, per questo lo querela, ma ottiene l’effetto di sollevare un polverone e fare pubblicità alla pellicola. Infatti è costretto a ritirare la querela, anche perché di Leo inserisce nella storia nomi come Manca, Lima e Gioia, ma non c’è mai un’accusa esplicita. In ogni caso il film è coraggioso, attacca poteri mafiosi ben radicati e a Palermo provoca un certo scalpore. Di Leo passa un po’ di guai e per un certo periodo di tempo teme per la sua incolumità fisica. Fortunatamente non succede niente. Il poliziotto è marcio è un altro film noir che procura fastidi al regista. La polizia si indigna e il Viminale fa sentire la sua voce contro un soggetto che racconta un modo corrotto di fare il poliziotto. Per strada vengono strappati persino i manifesti, ma la realtà ci insegna che la storia del crimine è piena di poliziotti marci. Basti pensare al caso successivo e terribile della Uno Bianca.
Qualche critico ha definito maschilisti e misogini i noir dileiani. Non mi sento di sottoscrivere questa affermazione. La poetica del regista pugliese è sempre stata dalla parte della donna, sin dalla trama di Brucia ragazzo brucia. C’è da dire che i personaggi femminili del regista pugliese sono sempre rivoluzionari e controcorrente, sono donne che all’occorrenza si muovono come uomini, pur conservando la loro femminilità. I noir dileiani scioccano subito, il loro incipit è sempre forte, forse per questo motivo colpiscono Tarantino che ne Le iene segue alla lettera la lezione. Tarantino si ispira a di Leo anche nella costruzione della coppia Samuel L. Jackson – John Travolta che in Pulp Fiction è identica a quella composta da Silva e Strode ne La mala ordina. Debiti d’autore, citazioni, episodi di cui il cinema è pieno e che nessuno condanna, soprattutto perché l’amore e la stima di Tarantino per questi vecchi film è servita a tirare fuori dall’oblio il lavoro di Fernando di Leo.
(4 – continua)