Ma qui la morta poesì resurga…
(Dante, Purgatorio, I, V.7)
Non abbiate paura (anzi, abbiatene un po’…), sul significato della celebre poesia di Cesare Pavese, non fatevi impressionare dai danteschi versi sulla “morta poesia”, ma proviamo a fare qualche riflessione sulla “morte apparente”, poiché (fra un “secolo”, ovviamente!)… non si sa mai!
Di sicuro era questo l’argomento che stava particolarmente a cuore al grande scrittore americano Edgar Allan Poe poiché ne dissertò nel suo “Le esequie premature”, pubblicato nel 1844.
Così, qua e là, tanto per rallegrarvi le serate, dal suo racconto stralcerò qualche altro suggestivo brano…
“[…] Essere seppelliti ancora vivi è senza dubbio il più
spaventoso di questi estremi che mai sia toccato in sorte a essere
mortale. Che ciò sia accaduto assai frequentemente non
sarà certo negato da coloro che pensano. I confini delimitanti la Vita
dalla Morte sono innegabilmente tenebrosi e vaghi. Chi può dire dove
quella finisce e dove questa incomincia? Sappiamo che esistono malattie
in cui avviene una cessazione totale di ogni apparente funzione di vita
e nondimeno queste cessazioni non sono che semplici sospensioni per
chiamarle col loro giusto nome non sono che pause temporanee nel
meccanismo incomprensibile. Trascorre un certo periodo di tempo ed ecco
che un invisibile misterioso principio rimette in moto i magici
ingranaggi, le fatate ruote. La corda argentea non era allentata per
sempre, l’aurea ciotola non era stata irreparabilmente spezzata ma dove
si trovava l’anima frattanto?[...]”
Proseguiamo, ma… ne siete certi?
Il XIX secolo è stato contraddistinto da una particolare interesse per il “mistero”, per tutto ciò che riguardava l’evanescente confine tra la vita e la morte.
Prova ne sia, ad esempio, la strana curiosa “gara” intrapresa da quella sgangherata, romantica, comitiva capeggiata da Lord George Byron che a villa Diodati, sul lago di Ginevra, si esercitò per dar vita al più orrorifico racconto che essi riuscissero a scrivere durante qualche noioso pomeriggio di pioggia incessante.
Ben sappiamo che da tale “gara” nacque l’immortale “Frankenstein”, dovuto alla fervida fantasia di Mary Godwin Shelley e il ben meno noto “Il Vampiro” del giovane e sventurato medico John William Polidori.
Quasi due secoli più tardi chi scrive ha riproposto strani esperimenti (quasi) alla Victor von Frankenstein nel libro “Il Laboratorio del Dr. Frankenstein” (Eremon Edizioni, 2011) ove troverete di che passare… qualche notte insonne!
Fatevi coraggio, proseguiamo ancora un po’!
Erano quelli i tempi in cui si tentava di applicare le più recenti scoperte scientifiche allo studio del corpo umano, dei suoi segreti, dei fenomeni della vita… e di ciò che forse c’è “dopo”.
E naturalmente i cronisti e gli scrittori dell’epoca si sbizzarrivano nel pubblicare racconti più o meno veritieri di macabri e raccapriccianti rinvenimenti – soprattutto in occasione delle tradizionali riaperture delle tombe per la pulizia dei resti ossei – di scheletri trovati in posizione innaturale, molto diversa da quella originaria, come se quei poveri sventurati, vittime del fenomeno della “morte apparente”, si fossero risvegliati dal coma e avessero cercato disperatamente di uscire dalla bara di salvarsi. Purtroppo invano…
Racconti del genere – magari durante una fredda notte invernale, davanti alla scoppiettante fiamma del camino – venivano fatti di solito dal nonno, ai nipoti e alle giovani donne di casa, consapevoli che stava sempre più avvicinandosi il momento in cui avrebbero incontrato, molto a malincuore, la Nera Signora…
Ancora due righe tratte da “Le esequie premature” di Poe?
Non fate complimenti, vi accontento subito…
“[…] La moglie di uno tra i cittadini più rispettabili avvocato di grido e
membro del Congresso fu colta da un’improvvisa inspiegabile malattia
che eluse in modo assoluto la competenza dei medici. Dopo molto soffrire
la donna morì o si credette che fosse morta. Nessuno infatti sospettava
o aveva motivo di sospettare che non fosse veramente morta. Presentava
tutti i tratti caratteristici della morte. Il volto aveva assunto il
consueto profilo affilato e infossato. Le labbra avevano il tipico
pallore del marmo. Gli occhi avevano perso ogni lucentezza. Ogni calore
aveva abbandonato le rigide membra. I battiti e le pulsazioni erano
cessate. Per tre giorni il corpo rimase esposto insepolto acquistando in
questo periodo di tempo una rigidità petrigna. In breve i funerali
vennero affrettati causa il rapido progredire di quella che si supponeva
essere la decomposizione del cadavere.
La signora fu deposta nella tomba di famiglia dove giacque indisturbata
per tre anni consecutivi. Allo spirare di questo termine la tomba fu
riaperta per accogliervi un sarcofago… ma quale spaventosa emozione
attendeva il marito il quale aveva aperto personalmente l’ingresso della
tomba. Mentre le porte giravano lentamente sui cardini un oggetto
biancovestito gli cadde tra le braccia con un secco rumore. Era lo
scheletro della moglie avvolto nel sudario non ancora consunto […]”
Impressionati?
Suvvia, sono certo che siate dei veri indagatori del “mistero” e che questi argomenti sono di sicuro il vostro pane quotidiano!
Poi, tutto ciò appartiene alla finzione letteraria, frutto della sfrenata fantasia di uno scrittore affetto da delirium tremens. Non sono mica fatti veramente accaduti, come, invece, quello che ora leggerete…
Tra la vita e la morte… per un rosso d’uovo
Nella prima metà degli anni Trenta dell’Ottocento, tal dottor Francesco Pelizzo tenne una conferenza presso l’Accademia di Udine avente il poco rassicurante titolo “Delle morti apparenti e del modo di prevenire il pericolo dl essere sepolti vivi”.
Tanto per rendere più “viva” – pardon, più efficace – la sua relazione, egli narrò di un episodio che qui trascrivo senza commento alcuno.
I commenti – e le relative precauzioni – li lascio a voi…
“… una giovane sposa della famiglia Bellona poco tempo dopo le nozze, cenando, cadde come svenuta per essersi arrestato casualmente nell’esofago un rosso d’uovo di cui volea cibarsi. Riuscite inutili le attenzioni che le vennero praticate sull’istante, fu creduta morta,e quindi passato il tempo che allora era prescritto per la tumulazione, furono celebrati i consueti funerali e venne sepolta in un avello di questa Cattedrale che ancora si accenna.
Era costume a que’ tempi dì vestire i cadaveri delle spose dei medesimi abiti che avevano servito per le loro nozze; quindi la sposa Bellona trovossi entro al sepolcro con un abito di qualche valore.
Due becchini, si chiusero l’istessa notte in Chiesa col divisamento di impadronirsi di quel nuziale vestito. Infatti ritirata la cassa fuori del tumulo ov’era stata riposta nel giorno antecedente, e riaperta, fu estratto il cadavere; ma nell’atto di spogliarlo osservarono con sorpresa che essendo molle e non per anco irrigidito pendeva ora da una parte ed ora dall’altra.
Uno di essi allora impaziente, e indispettito con un pugno la percosse così fortemente nel dorso, che rìgettato sul momento il rosso d’uovo che avea prima inghiottito, diè la donna segni non dubbi di vita, alla vista dei movimenti che vi successero, i due becchini si diedero alla fuga attoniti e spaventati, allora essa rinvenne gradatamente e ricuperò l’uso intero de’ sensi e del moto, prese la lanterna che costoro aveano ivi lasciata, e ritrovata la porta della Chiesa aperta, si restituì da se medesima alla propria abitazione, ove fu accolta dal suo sposo che piangeala come irreparabilmente perduta, con inesprimibile trasporto di stupore e di gioia”.
Per rendere ancor più efficace il suo intervento, il dottor Pelizzo, poco dopo, chiese di realizzare, nel cimitero di San Vito, a Silimbergo in provincia di Udine, anche una “camera mortuaria che soddisfar potesse pienamente ed in modo più economico alla conservazione della nostra esistenza nel momento che si crede irreparabilmente perduta.”
Eppur… si muovono!
State tranquilli, perché qui l’apocrifa, galileiana, esclamazione non c’entra affatto.
Ciò che si sarebbe mosso rientra a pieno diritto tra gli argomenti trattati in questo inquietante articolo…
Caraibi, isole Barbados. Primi anni del XIX secolo.
Un temuto schiavista di quelle stupende isole, tale Thomas Chase, passa a miglior vita e la sua bara viene collocata nella cripta di famiglia con tutti gli onori dovuti al suo rango. La celeberrima “’A livella” dell’indimenticabile Totò è ancora molto al di là da venire…
I becchini spostano la grande lastra di marmo che chiude l’ingresso della tomba, vi introducono con malcelata paura una fiaccola per illuminare l’interno e… fanno un salto all’indietro! Ben sanno che troveranno altre bare – lì deposte da tempo – ma non si attendono di certo di trovarne una… rovesciata!
Fattisi coraggio introducono di nuovo la fiaccola e scorgono anche una piccola bara, di un bambino, rovesciata in un angolo. É quella del piccolo Samuel Brewster il quale ha abbandonato questa “valle lacrime “ a soli undici mesi.
Opera di caraibici tombaroli alla ricerca di qualche oggetto di valore sepolto con i ricchi proprietari ai quali tali oggetti ormai non servono più?
Può darsi, ma da quelle parti è meglio non porsi troppe domande. Risistemano le tre bare, vi aggiungono – in perfetto ordine – quella dell’ultimo arrivato e richiudono accuratamente il sepolcro cementando ogni pur piccola fessura.
Si sa, la “calunnia è un venticello” che spira ovunque insieme alle notizie vere e ben presto i poveri schiavi – c’era da aspettarselo! – vengono accusati del turpe, esecrando, episodio di palese spregio verso la famiglia del ben poco amato Thomas Chase il quale, si mormora, ha da non molto spinto al suicidio anche sua figlia Dorcas, stanca delle paterne angherie.
Insomma, negli anni compresi tra il 1812 e il 1820, ogni volta che un nuovo “ospite” viene aggiunto a quelli già esistenti, nella piccola cripta vengono rinvenute bare scoperchiate, capovolte e, addirittura, appoggiate alla superficie interna della lastra di marmo che chiude accuratamente il sepolcro.
Come è possibile che – senza lasciare alcuna traccia di effrazione! – qualcuno (i soliti vituperati schiavi, ovviamente!) possa turbare così violentemente l’eterno sonno della famiglia Chase?
Interviene il reverendo Thomas Orderson che, insieme al governatore Lord Combermere, ha la brillante idea di cospargere di sabbia il pavimento della cripta per mettere in risalto eventuali impronte di chi osi ancora profanare la tomba.
Ma ormai la famiglia Chase non ha più “ospiti” da seppellire nello strano avello…
Si giunge così al 18 aprile del 1820 quando qualche pinta di birra di troppo suggerisce al governatore di effettuare una ricognizione all’interno della tomba per verificare se i quattro defunti – o chi per essi – si siano dedicati ancora a… risistemare diversamente i loro avelli.
Di notte – naturalmente! – Lord Combermere, seguito da pochi ardimentosi forse in preda ai fumi dell’alcool, fa aprire la tomba e per poco non gli porgono i rituali “sali” per non farlo svenire!
La piccola bara di Samuel viene trovata vicina all’ingresso – ma lì non era mai stata posta… – e il sarcofago del perfido Thomas Chase è trovato una volta ancora capovolto. Ovviamente sulla sabbia sparsa sul pavimento non ci sono tracce lasciate da “piedi umani”!
L’umana fantasia a questo punto si sbizzarrisce per trovare una razionale spiegazione all’accaduto. Vengono invocati inesistenti terremoti e qualche spirito bizzarro suggerisce invece che i misteriosi spostamenti delle bare sono imputabili ad ancor meno probabili infiltrazioni d’acqua piovana che avrebbero trasformato la tomba in una sorta di piscina dove Thomas Chase & Co. si sarebbero dati a divertenti esercizi di… acqua-gym! Così tanto per passare il tempo!
Naturalmente viene ipotizzato anche qualche rito voo-doo praticato da stregoni locali su mandato di chi aveva un po’ in “antipatia” Thomas Chase e i suoi amici..
Per tagliare la classica “testa” al povero “toro”, il governatore dà ordine di traslocare altrove gli augusti ospiti della tomba e da qual momento tutto torna nella normalità…
Accantonando la “spiegazione” fornita da Conan Doyle basata su improbabili esplosioni dovute ai gas della naturale decomposizione dei corpi, evitando di annoverare troppo sbrigativamente la vicenda tra le leggende metropolitane di ogni tempo e Paese, lascerei ai lettori il non troppo ingrato compito di suggerirne delle altre…
Il “Termometro della vita”. E della morte…
“ E uno strumento scientifico dell’Ottocento, capace di rilevare la presenza anche della più piccola traccia di “calore vitale” “friggendo” a temperature notevolmente più basse della norma e dunque non rilevabili dai comuni termometri. Lo strumento contiene una sostanza, probabilmente etere, che a contatto col corpo umano comincia a produrre bollicine e a ”friggere” e quindi a segnalare la temperatura ”vitale”.
Così l’amico dottor Antonio Bortolotti, di Saludecio (Rimini), descrive un curioso, semplice, strumento che in un’epoca non avvezza ai “miracoli” dell’elettronica e delle sofisticate strumentazioni da essa derivate, era usato per diagnosticare “al di là di ogni ragionevole dubbio” la morte di un individuo.
Tutto sommato, il semplice strumento la cui esistenza mi è stata suggerita dal dottor Bortolotti, era molto simile a al cosiddetto “Love meter” ancor oggi disponibile per pochissimi euro su ogni bancarella più o meno “cinese” e destinato invece a mettere in evidenza gli ardori amorosi degli adolescenti alle prime “cotte”.
Questo semplice dispositivo nacque – forse per caso – per dimostrare l’influenza della pressione sulla temperatura alla quale un liquido entra in ebollizione. All’inizio delle esperienze, il liquido era semplice acqua colorata mantenuta alla pressione di pochi millimetri di mercurio. Noi ben sappiamo che l’acqua distillata bolle a 100 gradi centigradi al livello del mare, ad una atmosfera.
Ma poiché il liquido colorato era contenuto in un apposito recipiente di vetro al cui interno la pressione era decisamente minore di quella di 760 millimetri di mercurio (un’atmosfera) anche la sua temperatura di ebollizione era ben inferiore ai soliti 100° Celsius.
Prendendo le debite precauzioni – con certi composti chimici non si scherza! – potreste provare a realizzare un ”Termometro della vita” utilizzando l’etere solforico la cui temperatura di ebollizione è di circa 34,5° Celsius, anche se in quest’era tecnologica esistono specifici “Termometri tanatologici”, elettronici, per uso rettale che tengono conto delle specifiche condizioni ambientali in cui è stato rinvenuto il cadavere.
Manca solo l’ennesima “App” per il nostro Smartphone!