That is not dead which can eternal lie,
And with strange aeons death may die*.
Howard Phillips Lovecraft
Parte Prima
Non so perché sto scrivendo queste parole; è tutto inutile. Perché voler comunicare al mondo ciò che mai può e deve essere creduto? Di me si dirà che sono impazzito, vittima delle allucinazioni prodotte dalla droga, dai farmaci e dall’esaurimento psichico; del resto, il mondo non deve credere alle mie parole; altrimenti, ogni certezza, ogni filosofia e religione e, soprattutto, qualsiasi speranza o forza – capace di spingere l’uomo a proseguire nella sua vita d’ogni giorno – sarà vana e definitivamente sconfitta.
Il cappio, che ho ben allacciato su una trave del soffitto di quest’abbaino, ondeggia minaccioso e, al contempo, elargitore dell’unica speranza che mi rimane: cancellare definitivamente quest’incubo. Oh, la mia mansarda… quanti ricordi in questa stanza. Guardo alle pareti le fotografie che mi raffigurano: momenti lieti e difficili di una vita che aveva ancora senso di esser vissuta.
Apro la finestra e guardo ancora una volta la grande città. Quanta frenesia, quanta energia vitale pervade la città dell’uomo. La città ignara che si abbrustolisce al sole sopportando con gaudio ogni difficoltà: sospinta dall’energia vitale che dà un significato al domani. Provo pietà per lei. Nessuna pietà per lo spregevole monte, nessuna pietà per il crudele sole, per il cielo, per il mare… loro sanno tutto; loro sono parte del tutto: sapere cosa è il tutto è terribile e abominevole. Io adesso so e sono maledetto. L’unica via di fuga ondeggia: l’ombra del cerchio è disegnata sul muro dai raggi dell’ingannatore sommo.
Non tollero più quest’ansia e quest’angoscia. Consumo sempre più compresse di Alprazolam e altri psicofarmaci; ma nulla può darmi conforto o lenire la mia paranoia. Persino l’amato hashish non riesce a consolare il mio spirito inquieto.
Non so perché sto facendo passare le ore senza andare al dunque. No, no: lo so, eccome! E’ la pietà per il genere umano che ferma la mia mano… se qualcuno crederà alle mie parole, potrà essere dannato. Certo, è difficile, molto difficile che qualcun altro possa verificare con i suoi occhi; siamo pochi, molto pochi ad avere questa capacità, e tra quei pochi che, ignari, l’hanno, difficilmente qualcuno s’imbatterà in questo mio folle resoconto, credendo alla sua terribile rivelazione.
A detta di tutti sono sempre stato una persona mite e assennata. Ho vissuto per ventisei anni con una carica costante di tenacia e d’ottimismo. Ero felice, davvero felice e soddisfatto dalla vita. Avevo una ragazza stupenda che mi ama ancora, dei genitori che mi hanno sempre assistito e protetto con affetto, amici sinceri e di certo non mi son mai mancati agevolazioni e denaro. E’ da quando sono bambino che mi appassiono per il medioevo, la sua arte, la sua storia, i suoi misteri. Ho studiato arte medievale con dedizione e passione estrema; mi sono laureato poco più che ventenne e ancora oggi fruisco di uno splendido assegno di ricerca. Sono sempre riuscito a scacciare tristezza e depressione, uscendo a testa alta e col sorriso da ogni difficoltà. Per le vie, spesso la gente mi chiamava “felicità”; e non vi era bar o piazza, chiesa o biblioteca, dove non conoscessi persone con cui scambiare parole cordiali. Chi mi conosce, forse, capirà che non sto mentendo, che non è possibile passare da un’esistenza solare a questa torbida notte che mi ha avvolto e mi sta definitivamente uccidendo.
Ho accennato della mia passione per il medioevo e la sua arte. E’ incredibile scherzo del destino, che proprio la cosa che mi dava più energia e voglia di vivere mi abbia portato all’estremo delirio. Mi ritengo tra i massimi conoscitori viventi della Palermo medievale; da dieci anni ormai (prima per diletto e poi per professione) studio con estremo rigore il patrimonio medievale della città. Credo di conoscere ogni tassello musivo del Duomo di Monreale, della Martorana, della Cappella Palatina; non v’è testimonianza architettonica, pittorica o letteraria che io non abbia studiato con scrupolo maniacale. Ho trascorso mesi e mesi nello studio costante del territorio, dell’evoluzione della città dall’antichità all’era moderna. Ho pubblicato saggi sulla storia della città e sono abbastanza conosciuto tra i medievisti italiani, europei e americani. Non dico questo per vantarmi, ma per far capire alla gente che non mi conobbe che fui una persona savia ed affidabile. Bene, è proprio nell’ambito delle mie ricerche dunque, che nacque il germe che mi ha portato a scoprire ciò che doveva rimanere occulto. Sei mesi fa incappai in un articolo riguardante una chiesa rupestre presente in una scogliera non lontana dalla piccola città di Castellammare del golfo. Si trattava della “Grotta di S. Margherita”, ne avevo letto e sentito parlare abbondantemente ma, a causa dell’esiguità dei resti pittorici presenti, e delle difficoltà di accesso al sito, ho sempre rinunciato a recarmi di persona sul posto. Eppure, la maledizione era segnata nel mio destino. Quando lessi quell’articolo avevo appena concluso – e con successo – una ricerca su una possibile nuova datazione del trecentesco Palazzo Sclafani. Soddisfatto dai risultati ottenuti e libero da impegni e scadenze, mi convinsi di raggiungere la grotta. Sia maledetta l’ora e l’intenzione. Era una discreta giornata di novembre; allestii l’occorrente per la spedizione (una fune, dei moschettoni, una piccola fotocamera digitale, un quaderno per appunti e una torcia), feci il pieno di benzina alla mia vecchia British Open e imboccai l’autostrada per Trapani. Non avevo superato da molto l’uscita per Carini, quando il cielo s’incupì profondamente e repentinamente, coprendosi di dense e scure nubi. Demordere non ha mai fatto parte del mio carattere; non avevo alcuna intenzione di tornare sui miei passi. Quando raggiunsi Castellammare, una forte e violenta pioggia batteva sul parabrezza della Mini e un rivolo d’acqua s’insinuava, dal tettuccio apribile, nell’abitacolo della mia datata automobilina. Mi fermai in paese e, dato che era ora di pranzo, decisi di trovare una buona trattoria per un boccone. Ero già venuto, in passato, in questa piccola città – soprattutto per studiarne il castello – ma non avevo mai notato l’eccessivo numero di macellerie presenti in ogni via: cosa che stimai alquanto strana per un borgo marinaro che ha costruito la sua storia sul porto e sulla pesca. Le vie erano piuttosto scevre da passanti, il borgo era dominato da uno spettrale silenzio. Raramente incrociai qualche altra automobile e pochi erano gli esercizi commerciali aperti. Decisi di mangiare in una trattoria, prospiciente il porto e l’immensità tirrenica, nei pressi del castello. Il ristorante era vuoto; solo alcuni minuti dopo il mio ingresso, un vecchio uomo tarchiato e basso si avvicinò a me e, guardandomi con aria indagatrice e profonda, m’invitò a sedere in un tavolo e mi diede un menu. Il vecchio mi servì il pesce e il vino che avevo ordinato. Provai ad essere cordiale e feci, sorridente, delle domande di circostanza e delle battute di spirito. L’uomo fu impassibile e silenzioso; mi dava laconiche risposte e sembrava voler affrettare la mia dipartita dal locale, rimanendo vicino al tavolo e guardandomi con occhi sprezzanti che mi mettevano notevolmente a disagio. Quando chiesi informazioni sulla grotta dove stavo recandomi, il volto del vecchio si corrugò cambiando espressione in maniera sorprendente e facendosi quasi minaccioso; la sua voce proruppe allora con tracotanza: “Chi siete? Andare alla grotta il venti di novembre? Sicuramente sapete! Andate via, maledetto demonio!” Detto questo, tirò con forza la tovaglia del mio tavolo, facendo volar per terra ciò che rimaneva del mio pasto. Poi, continuando a imprecare impazzito, mi scacciò dal locale, inseguendomi brandendo una sedia.
Decisi di andare dai carabinieri ma il commissariato era incredibilmente deserto. Il telefonino non aveva campo e nessuna delle cabine telefoniche del paese era funzionante. Mi feci coraggio e tornai alla trattoria per dire quattro parole a quella bestia di uomo. Quando giunsi al locale, lo trovai chiuso sprangato. Mi volsi verso il mare: alte e possenti onde s’infrangevano violentemente sulle banchine.
Parte Seconda
Decisi di lasciare il paese e di andare alla ricerca della grotta. Questa, come sapevo, si trovava su una ripida scogliera rocciosa a nord dell’abitato. L’accesso alla grotta era possibile, o dal mare con un’imbarcazione, o calandosi con delle funi dall’alto della rupe. Attaccai la corda al guardrail e misi a discendere, gradualmente, la scogliera. Il folto borgo di Castellammare, perfettamente visibile dall’alto della rupe, immerso in quelle condizioni climatiche di cupa foschia e pioggia, mi apparve odioso: con quella sua forma di falce che terminava con l’austera mole del castello, sembrava voler fendere a morte il mare. Avanzai con difficoltà tra le sterpaglie. La pioggia, a tratti, si ripresentava violenta e rendeva arduo il mio procedere. Rischiai più volte di cadere e trucidarmi su scogli puntuti, ma la mia tenacia e la mia determinazione mi accompagnarono fino in fondo. Giunsi, esausto, al cospetto del minuscolo accesso della grotta a strapiombo sul mare. A quanto stava scritto, quella chiesa rupestre doveva esser stata fondata, intorno al quattordicesimo secolo, da alcuni mercanti genovesi che intrattenevano floridi commerci da queste parti, presso i quali, si sa, il culto di S. Margherita era diffusissimo.
Entrai nella grotta facendomi luce con la potente torcia, e – dopo essermi chinato per il clamore generato dai pipistrelli che, disturbati dal mio ingresso, fuggirono a stormo dalla spelonca – presto mi ritrovai di fronte le tracce dell’amato medioevo. Sulla parete di destra vi era uno straordinario gruppo pittorico. Un’inconsueta S. Margherita e una Vergine orante erano giustapposte ad una terza figura che mi lasciò allibito e stupefatto: un orribile, enorme mostro marino dalla faccia di cane e dalla coda di calamaro. Il mio stupore, inizialmente, fu dettato dal fatto che, nonostante tutte le fonti che avevo in precedenza consultato parlassero di pessimo stato di conservazione per tutte e tre le figure, la pittura che avevo di fronte, sebbene fosse antichissima e mai restaurata, si presentava perfettamente integra e dai vividi e intensi colori. Mi avvicinai alla parete e toccai la superficie della roccia, restando stupito dalla consistenza tenace di quella pittura rupestre. Quegli strati di vividi colori, sembravano come sospesi nel tempo e nell’incredibile. Si trattava, chiaramente, di un’autentica pittura medievale ma, allo stesso tempo, sembrava esser stata appena realizzata. Tutta la mia esperienza e conoscenza delle tecniche pittoriche più disparate sembrò improvvisamente vacillare. Quell’opera era impossibilmente autentica. Forse fu questo il momento in cui la mia mente razionale ebbe il suo primo vacillare. Rimasi immobile, conquistato e stregato da quelle forme e da quei colori che contemplavo illuminandoli col fascio di luce della mia potente torcia alogena. L’immagine di quella mostruosità cominciò, all’improvviso e gradualmente, ad acquisire una luce propria. Mi parve di esser rimasto vittima di un’illusione, allora decisi di spegnere la torcia. Quella lovecraftiana, immonda creatura marina continuava a presentarsi alla mia vista, e la sua luminosità continuò a crescere fino a divenire abbagliante; io allora mi coprii il volto e mi gettai per terra, scalfendomi un braccio sulla dura roccia. Nonostante tenessi gli occhi chiusi, quell’immagine rimase impressa – in ogni suo dettaglio e sfumatura – nella mia percezione visiva. Urlai e riaprii gli occhi ma, non potendo sopportare la luce accecante che pervadeva la grotta, dovetti richiuderli. Mentre ero costretto a guardare quella figura, vi fu un fischio assordante seguito da un suono gutturale. Poi, sentii un alito di vento gelido invadere l’antro. Ogni tentativo di guardarmi intorno fu vano; capii che quella luce era ben capace di rendermi cieco.
Gli occhi di quel Cthulo medievale si accesero di un pulsante bagliore rosso; i suoi immondi tentacoli presero a muoversi nell’immagine, i cui colori mutarono facendosi intensissimi – vi giuro, quei colori non esistono in natura, non esistono nella nostra concezione visiva, non è possibile descriverli – il fischio si fece più intenso e il suono gutturale sembrava sempre più una tremenda risata proveniente da un altro mondo. Quella creatura si staccò dalla parete e prese forma tridimensionale – o almeno, questo vedevo con i miei chiusi occhi – mi fissò con un’intensità crudele, emise un suono assordante simile al fischiar di una nave, e aprì le canine fauci. I miei occhi bruciavano sempre più intensamente e la paura ed il terrore stavano per devastare la mia psiche, quando, vidi sorgere e illuminarsi da se: la figura di colei che la nostra stupida conoscenza iconografica ha identificato con S. Margerita. Quella donna fiera e possente si staccò dal muro e prese anch’essa lo spessore di una figura tridimensionale.
Quella meraviglia aitante e fulgida, che mi sembrò più una divina amazzone che una santa, brandì una spada di fuoco e si scagliò sull’immondo calamaro, distruggendolo.
Il fischio scomparve e le luci calarono: potei riaprire gli occhi. Davanti a me, nell’antro buio, fluttuava – illuminata di luce propria – la divina figura di colei che mi aveva salvato da morte certa. Questa, con sguardo severo, emise una voce calda e possente ma al contempo soave e suadente, parlandomi in una lingua arcana e melodica che incredibilmente compresi:
“Chi sei tu, infima creatura umana, che presiedi all’eterna soppressione del tristo Ortans? Sei forse un sacerdote del degenerato Ordine di Dagon? Se così è – rassegnati – il tuo crudele creatore sarà sempre sconfitto – lustro per lustro – dalla spada infallibile di Eluens, colei che monda. La sua morte sarà sempre perpetrata; il vostro rito – e le tonnellate di carni bovine che voi fate immolare e consumare in suo nome ai vostri ignari simili – giammai apriranno le acquee porte per il suo disgustoso avvento. Io, mano mondante del Sommo, respingerò per sempre l’empio tentativo di colui che è destinato ciclicamente a perire”.
Io tremai e risposi: “Io non so nulla di quello che dici, solo l’amore per l’arte mi ha portato in questo luogo”
“Se sei qui da ignaro e ti è concesso assistere” riprese Eluens – “allora tu hai il potere dell’Intellegens; bene, sono trascorsi ormai più di sette secoli da quando l’ultimo Intellegens vide la scena e la fece raffigurare sulle pareti; altri ignari uomini disegnarono anche quella terza figura, collegando il “flagello di Ortans” al distante e innocuo culto cristiano. Ortans è il padre del genere umano; è colui che risiede negli abissi dell’oceano, nella città maledetta che porta il suo nome. Lì, eoni orsono, ha architettato il piano che sovverte l’ordine del Sommo. Ortans comprese il modo per donare l’intelletto divino all’uomo e per separarlo dagli altri animali facendone un essere malvagio che preparasse il suo avvento. Voi acquisiste la capacità di alterare l’eterno equilibrio del mondo, distruggendone – sempre di più – le risorse stabilite dal Sommo. Ortans ha la possibilità di giungere definitivamente sulla terra e farne il suo immondo pestilenziale regname. E lui che vi manovra, e lui che vi spinge alle guerre, alle azioni turpi, all’inquinamento e distruzione del mondo. Siete i suoi maledetti burattini. Chi vi comanda, sono i luogotenenti di Ortans sulla terra, uomini che hanno potere e autorità presso i loro simili. Tutti questi reietti individui fanno parte dell’Ordine di Dagon che ha le sue sedi dove Ortans possiede delle porte di accesso: la Nuova Inghilterra, la Louisiana, l’Arabia, la Groenlandia, la Nuova Zelanda, l’Isola di Pasqua, la Bulgaria, la Cornovaglia e la Sicilia. Dagon null’altro è che uno dei numerosissimi nomi di Ortans, “colui che genera”. Spero che tu avrai più fortuna e più influenza sui tuoi simili rispetto al tuo predecessore, uno stolto mercante che ha solo alimentato false superstizioni; non uccidete il mondo, non diventate i servi definitivi di Ortans”.
Quando la divina donna smise di parlare, io svenni, ricadendo sulla dura roccia. Mi svegliai, che la luce del mattino entrava nella grotta e rischiarava i frammenti di tre – quasi illeggibili – immagini medievali.
Aldo Occhipinti
* Non è morto ciò che in eterno può attendere / E col passar di strani eoni anche la morte può morire (The Nameless City, 1921)