Vi segnaliamo con molto piacere l’uscita, nella collana “I Tascabili” delle Edizioni Il Foglio Letterario, del romanzo “La mantide” di Daniele Vacchino (126 pagine; 12 euro), un thriller dalle venature gotiche che saprà tenervi incollati dalla prima all’ultima pagina.
Il libro si ispira alle atmosfere di film come “La casa delle finestre che ridono” di Pupi Avati e alla miglior tradizione del thrilling all’italiana dei primi capolavori di Dario Argento, con una strizzata d’occhio anche alle recenti produzioni come “Memories of Murder” e “True detective”, senza dimenticare la fonte primaria d’ispirazione dl romanzo, ovvero il caso del Mostro di Firenze.
Come ci ha raccontato in merito lo stesso Vacchino, da anni fra l’altro collaboratore della Zona Morta spesso insieme all’amico Davide Rosso, “La mantide nasce dalla visione del telefilm True detective. Sulla trama di fondo che sta alla base del film si innesta l’ossessione per il Mostro di Firenze, vera e propria mania primaria, in quanto da noi (Vacchino e Rossi, ndr) considerato il caso dei casi. E poi ci finiscono sopra gli incubi argentiani, le pellicole di Bido, le lucide visioni di Bava e gli orrori gotici di Avati”.
“Ho cercato, prosegue Daniele, un posto e un tempo degradati, per rendere l’idea di un luogo arretrato e in difficoltà economiche. Ed è saltato fuori un paese non specificato lungo uno dei fiumi del nord Italia, che durante l’alluvione degli anni Settanta viene messo in ginocchio. Su quelle macerie nasce la figura dell’orco del bosco, che sopravvive nel tempo, nascosto dentro il bosco, come un incubo che ristagna nel subconscio, e si materializza ai giorni nostri, disegnando un filo di sangue che appare del tutto sganciato dal suo modus operandi originario”.
“L’idea, ci dice ancora l’autore, è quella di tenere l’ossessione di True Detective, ma facendola rivivere sotto le spoglie del thrilling italiano. Volevo una veste più varia e spensierata per il mio thrilling, qualcosa di meno invasivo, di meno ossessivo, che respirasse a tratti i colori dei nostri amati anni ‘70. Serviva una lingua adeguata, che fosse flessuosa e descrittiva, colorata e cangiante. Il ritmo veloce dei tanti avvenimenti non doveva offuscare la pacatezza descrittiva”.
“Il sogno, continua Daniele Vacchino, che mi ha sempre spinto, in questi cinque anni che ho lavorato sul thrilling italiano, è stato quello di creare un equivalente su carta di quelle pellicole. A mio modo di vedere, però, quell’equivalente non doveva essere il tentativo goffo di imitare il cinema. Bisognava rendere alla materia letteraria la propria dignità, trovando un modo altro, completamente alternativo, per fare il thrilling italiano su carta. È stata la fatica che Davide (Rosso, ndr) ed io abbiamo portato avanti insieme. Provenendo dalla poesia ed avendo imparato con pazienza (e continuando a farlo) il mestiere del prosatore, ho cercato di rendere la trama del testo mediante una lingua ad immagini. Non sono mai stato interessato a una lingua di concetti. L’idea credo debba essere sempre veicolata dalla trama e dalle immagini visive che la lingua crea”.
E per quanto riguarda il futuro, ci racconta infine l’autore: “Ad ogni modo, l’indagine sul filone di True detective non è conclusa. Nel periodo successivo ho messo le mani su film come La isla minima e Memories of murder, che ho scoperto appartenere, insieme a Le paludi della morte, ad un micro filone. Ho pensato di mettermi al lavoro su una sorta di seguito de La mantide”… che ovviamente aspetteremo con ansia!
Per solleticare la vostra curiosità, eccovi direttamente da “La mantide” l’estratto del primo capitolo:
“Un mese fa
Il vecchio castello era vuoto come le acque di una palude: i desueti specchi, ad ogiva, ammiccavano al buio e alle sue forme, che si mescolavano dietro le colonne e poi risalivano piano, lungo le arcate che si insabbiavano sotto i soffitti.
Serena Merini spingeva la sedia a rotelle con una fierezza che si addiceva a un fantino vittorioso, lo sguardo asciutto come i fianchi di un vulcano. Percorreva le stanze mute e luccicanti solo a tratti, quando la sagoma di qualche candela rifletteva sui vetri la propria presenza. Di tanto si fermava di fronte a un mobile, a un canterano dell’impero, a un comò; si stupiva a pensare ai tratti della vita che si erano intersecati a quegli oggetti, si coglieva a rimuginare sulla strana connessione tra fatti e cose, così indelebile…
Nobile di nascita, aveva coltivato l’onore di portare il cognome di una casata che fece le sorti favorevoli di certa gente della zona; una storia di famiglie che sottomettono e dominano altre famiglie, che sulla base del sangue creano differenze tra persone e grazie a queste differenze prosperano e prosperano.
Serena sorprende il suo viso che la fissa da dietro lo specchio. Il volto di una donna di ottant’anni, ancora perfettamente mantenuta, gli argentei capelli tirati indietro, a fumose onde, e la fronte alta, come fosse una muraglia edificata da sapienti ingegneri, alla difesa…
Basterebbe spegnere le ultime candele che illuminano quel fianco di castello (il solo ad essere ancora abitato, mentre la restante parte dell’antico edificio è stata adibita a museo, per cercare di racimolare qualche quattrino dal flusso di turisti che percorre la piana, oppure di vendere sottobanco un antico quadro, una vecchia porcellana, uno scucito arazzo dei tempi di Garibaldi) e l’ombra offuscherebbe lo strazio di vedere la propria sagoma giudicare da dietro lo specchio, insinuare:
- Eh, la rovina dei Merini, eccola qua. Avresti dovuto rilanciare le sorti della casata, e invece… Ora che gli affari sono diventati i sovrani, ora che le aziende hanno mangiato tutto, tu cosa hai saputo fare? Solo rosicchiare, ecco il tuo talento! Sei la tomba dei Merini, con te si spegne per sempre la nostra luce.
Serena percorre un tratto di salone, fino a raggiungere un antico mobile in legno. Da uno stretto e basso cassetto estrae un sacchetto bianco latte, rifinito con le tessiture color oro, a sottolinearne il pregio. La donna estrae con le mani salde alcuni robusti ciondoli e li depone in grembo. Come se cercasse un riparo dal fiume di luce che scende dalla vetrata orientata verso il cortile interno, si spinge fino ad un angolo remoto e al buio prende a toccare avidamente i medaglioni.
Come una mannaia che cala dal cielo, una mano guantata copre il volto della vecchia, serrandone a forza le labbra e oscurando la vista. Merini si dimena, per quanto le è concesso dalle sue forze, sulla sedia a rotelle; ma la mano le stringe attorno al collo una corda, un cappio gelido come il latrare di quella meretrice che è la notte. La nobile vorrebbe per lo meno voltarsi, vedere chi o cosa la stia scaraventando nelle tenebre. Ma il laccio attorno al collo si fa rigido e la domina per sempre, conducendola per mano nelle oscure stanze”.
Nato a Vercelli nel 1982, Daniele Vacchino è laureato in Lettere e in Economia. Nel 2012 insieme a Davide Rosso su Lulu.com ha pubblicato un romanzo sul Mostro di Firenze intitolato “Del bene più prezioso” con introduzione di Antonio Tentori. Nel 2015 sulla Zona Morta ha pubblicato a puntate il romanzo “Omicidi seriali di coppiette appartate in macchina sul piazzale del grande centro commerciale”, che riscosso un ottimo successo di pubblico, tanto da diventare uno dei pezzi più letti in assoluto. Nel 2016, dopo essere arrivato in finale al concorso “Solaris”, ha pubblicato per Edizioni Montag il libro di poesie “Deriva”.
Buona lettura.