Fernando stava andando da Barbara con la prima guagua del mattino, come sempre affollata di persone che si recavano a lavoro. Lei lo aveva chiamato al telefono la sera precedente, dicendo che voleva parlargli, ma di persona. Barbara gli era sembrata molto preoccupata. Lui sapeva che non avrebbe disturbato il vicino per telefonare a tarda sera, se non c’era un motivo importante.
Fernando guardava fuori dal finestrino e pensava alle solite cose di sempre, soprattutto a come era cambiata la sua vita per colpa del destino. I suoi figli erano l’unico motivo per continuare a vivere, anche se non sapeva rispondere alle loro domande. Non sapeva che dire alla più piccola, quando le chiedeva perché la mamma non tornasse a casa e neppure alla più grande che domandava come mai fosse successo tutto questo.
I ragazzi credono che a tutto debba esserci una spiegazione – pensava Fernando – non sanno che la vita prende le sue decisioni senza avvisare.
I pensieri si mescolavano ai movimenti della vita quotidiana che filtrava dai vetri sporchi della guagua. L’Avana, in lontananza, si stendeva davanti all’oceano e soffocava in un caldo abbraccio i ricordi della notte.
Fernando si accorse di essere arrivato ad Alamar dagli alti palazzi color bianco sporco e rosso mattone che si mescolavano alla consueta vegetazione di palme e banani. In fondo al viale polveroso, dove rumoreggiava la canna selvatica spinta da soffi di vento, c’era la casa di Barbara affacciata sul mare.
Barbara non avrebbe mai immaginato che potesse accadere una cosa del genere. Non era suo figlio quello che si trovava sopra di lei e la legava per i polsi ai piedi del divano, dopo averle assicurato le gambe al tavolo della cucina. Era immobilizzata e un pezzo di nastro adesivo marrone le teneva chiusa la bocca. Aveva provato a gridare quando l’aveva tirata giù dal letto scaraventandola sul pavimento. Ma lui glielo aveva impedito. Si sentiva prigioniera d’un incubo. Roberto aveva gli occhi iniettati di sangue e lei non riusciva neppure a sostenere il suo sguardo.
“Puttana! Farai la fine delle altre…” le aveva detto
E adesso era là, sdraiata sul pavimento, legata mani e piedi.
Pensava di aver commesso tanti errori in vita sua, ma il più grande era stato quello di aver riportato in vita suo figlio.
Perché adesso si rendeva conto che quell’essere mostruoso era solo il corpo di quello che un tempo era stato suo figlio. Lo sentiva gridare ed era come una voce che veniva da lontano, spinta da un gelido vento di morte.
“Hai voluto sapere troppo ed è per questo che ti ammazzerò”.
Teneva le quattro mutandine da donna nella mano sinistra e le brandiva in aria come un trofeo. Nella destra aveva un coltello dalla lama lunga e ben affilata.
“Chi ti ha dato il permesso di frugare nella mia roba? Anche se sei mia madre non puoi interferire nella mia vita. Non ho bisogno di nessuno che mi dica ciò che posso fare”.
Barbara avrebbe voluto rispondere, ma non poteva. Il nastro le teneva la bocca serrata e le faceva male alle labbra. Piangeva di terrore, lacrime abbondanti le rigavano il volto. Quel mostro senza ragione che non era più suo figlio l’avrebbe uccisa.
Ormai aveva tutto chiaro. L’anima d’un criminale che si faceva chiamare Ciuci riviveva nel corpo di Roberto, lo scambio di teste era riuscito soltanto in parte.
Barbara lo vide agitare uno slip di colore rosso.
“Queste appartenevano a quella puttana di infermiera. Mi fissava in modo strano durante la festa, i suoi occhi riflettevano soltanto paura quando m’incontravano. Compresi che avrei dovuto eliminarla, poteva capire troppe cose. Ma prima me lo sono scopata. Avresti dovuto vedere come godeva, quella troia!”
Roberto era in preda al delirio. Non sentiva neppure il dolore alla testa e il sangue affluiva portando con sé pensieri e ricordi.
“E queste sono di quella maledetta tedesca che avrebbe scopato con me tutta la notte. Chissà da quanto tempo non lo faceva! L’ho fermata sul più bello…”
Barbara piangeva. Non voleva ascoltare altro.
“E poi quella troia italiana sul Malecón. Voleva una notte di sesso con uno stallone cubano. Non l’ho delusa, ma la cosa più bella è stata affogarla nell’oceano mentre chiedeva perdono…”
Era suo figlio che diceva quelle cose orribili.
Era la bocca di suo figlio. Quelle labbra che da piccolo aveva accarezzato. Ma non era il suo cuore quello che pulsava. Il suo cuore era morto da tempo.
“Poi ci sono quelle di due ragazzine di Santa Maria e di Bacuranao. Cercavano l’amore. Hanno trovato me”.
Roberto puntò il coltello verso sua madre.
“Prima di ammazzarti devo dirti qualcosa su quei mille dollari. T’interessavano al punto che sei andata a mettere di mezzo un maledetto prete… Ho lavorato duro per ottenerli, mi sono dato un gran da fare a setacciare Alamar e Cojimar. Cercavano bambini per un film da pedofili e io glieli ho trovati. Solo i soldi contano, cara mamma, tutto il resto sono balle buone per la televisione…”
Barbara piangeva con gli occhi persi nel vuoto.
Lo sguardo folle del figlio la terrorizzava.
Vide la sua mano sollevare il coltello e per un istante pensò che la lama si sarebbe abbattuta su di lei rubandole la vita. Un rumore improvviso di oggetti che cadevano in bagno la fece sussultare. Anche Roberto fermò la sua mano e corse subito a vedere cosa stava accadendo.
Fernando era arrivato a casa di Barbara, dopo una lunga passeggiata sul viale polveroso che conduceva al mare. Si era avvicinato alla porta e proprio mentre stava per bussare si era fermato. Lo avevano bloccato le grida che venivano dall’interno e la voce sembrava quella di Roberto. Fernando si era avvicinato alla finestra socchiusa della sala e aveva visto una scena raccapricciante. Barbara legata mani e piedi al pavimento, suo figlio che brandiva alcune mutandine da donna e un coltello ben saldo in mano. Aveva udito le folli grida del mostro. Lui era arrivato in tempo per ascoltare il racconto della morte di Azela. Rabbia e rancore catturarono il suo cuore. Sudava freddo. Avrebbe voluto gettarsi su quel maledetto assassino e farlo a pezzi, ma non aveva armi con sé, neppure un coltello. Si fermò in tempo e continuò ad ascoltare la delirante confessione di Roberto. Anche la finestra del bagno era aperta, non fu difficile scavalcarla ed entrare in casa. Poi passò in cucina, senza che nessuno lo notasse. Roberto era troppo preso dal suo farneticare per prestare attenzione a qualcuno. Aprì un cassetto della credenza per impossessarsi di un coltello dalla lama affilata. Era quello che Barbara usava per spezzettare la carne prima di arrostirla e per sezionare il maiale da cucinare per fine anno. In quell’istante vide Roberto con il coltello alzato e pensò che doveva fare qualcosa. Subito. Vide sul tavolo la caffettiera. La afferrò e la lanciò in bagno. L’oggetto metallico andò a colpire le bottigliette di profumi, facendole cadere per terra, provocando un gran rumore di vetri rotti e cristalli che rimbalzavano sul pavimento. Vide Roberto fermarsi di colpo ed entrare in bagno. Lui corse verso Barbara, la liberò dal nastro alla bocca e cominciò a recidere le corde che la immobilizzavano. Ma non fece in tempo a completare l’opera.
“Abbiamo anche l’amico di famiglia” disse Roberto gettandosi su Fernando con tutto il peso del suo corpo. Barbara aveva soltanto le gambe libere e le labbra le facevano un male terribile. Vedeva i due uomini che lottavano con furia animalesca, ma Roberto era più forte e sembrava avere la meglio. Il coltello di Fernando cadde ai suoi piedi. Roberto era riuscito a piegargli il braccio con forza, sino a disarmarlo, adesso era sopra di lui e stava cercando di colpirlo con il suo coltello. Fernando lo teneva per le mani a fatica. Sapeva che mollare la presa poteva significare la morte. Sentì d’un tratto la voce di Barbara alle spalle.
“Prendi” gridò. E con un calcio gli allungò il coltello.
Fu in un attimo che lo raccolse e lo piantò nel petto di Roberto. Un attimo che parve eterno e che lo liberò da un incubo.
Roberto si accasciò a terra in una smorfia di dolore mista a sorpresa. Un rivolo di sangue gli uscì dalle labbra serrate. Fernando non poté fare a meno di pensare che aveva vendicato Azela e che quell’essere mostruoso non avrebbe più fatto del male a nessuno. Barbara osservava il cadavere del figlio e piangeva. Milioni di ricordi seppellirono il pensiero di quel che era diventato. Era stata lei a fare di suo figlio un mostro. Lui non aveva colpa di niente. Barbara l’aveva riportato in vita per vederselo morire accanto, trafitto da un coltellaccio da cucina che lei stessa aveva messo tra le mani di Fernando.
La sirena della polizia interruppe in un sibilo senza fine la spirale dei ricordi. Qualcuno, insospettito dalle grida che venivano dall’appartamento, doveva averla chiamata.
(24 – continua)