La Guida alla letteratura horror di Walter Catalano, Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo e Michele Tetro (Odoya Edizioni, 2014, Premio Italia 2015) comprende 107 voci – forzatamente non molto estese – dedicate agli autori, 6 regionali (sugli scrittori che non hanno potuto avere un’entrata singole, raggruppati per lingua o nazione) e 7 sulle figure classiche, oltre a numerosi box tematici di approfondimento.
Questa è una delle voci autore, tra le più lunghe.
Nelle sue lettere amava firmarsi HPL, ma anche Nonno Theobald, Ward Phillips e in tantissimi altri modi (qualcuno lo userà anche come pseudonimo nei racconti), così come si divertiva a cambiare i nomi dei suoi corrispondenti, in modo che Frank Belknap Long veniva latinizzato in Belknapius e Clark Ashton Smith diveniva Klarkash-Ton. Stranezze e puerilità? Certo, ma non poi tali da giustificare le mistificazioni eccessive di cui è piena la biografia lovecraftiana vulgata. In realtà, sono aspetti che – almeno a leggerli ora – risultano invece simpatici e mostrano una personalità piena di verve e di humour, oltre che ricchissima di umanità e di cultura: è stato stimato che Lovecraft abbia scritto qualcosa come centomila lettere, delle quali ne sopravvivono almeno quindicimila, tutte molto lunghe e che sono di prezioso ausilio per lo studio della sua personalità.
È indubbiamente vero che HPL non fosse una persona del tutto normale secondo i canoni medi, ma molte cose che sono state scritte su di lui non sono del tutto veritiere o vanno interpretate.
Per esempio, il conservatorismo di Lovecraft. È vero che egli era un conservatore e che si riteneva un gentiluomo inglese del Settecento (disapprovava la Rivoluzione Americana), ma ciò non vuol dire che fosse un fascista e comunque la sua ideologia di fondo non gli impedì di aderire, sia pure in una certa sua maniera, al “New Deal” roosveltiano, ossia quanto di più vicino al progressismo ci poteva essere in quegli anni negli Stati Uniti. Oppure il suo razzismo. Come può essere razzista chi annovera amici ebrei e omosessuali, chi si sposa con un’israelita? In realtà Lovecraft, abituato alla sua piccola cittadina in uno degli Stati più vecchi e più tradizionalmente “inglesi” dell’Unione, non sopportava la confusione delle grandi città e i disagi provocati dalla massiccia immigrazione che si verificava in quegli anni: si potrebbe al massimo sostenere che era xenofobo, sempre comunque allo stato teorico. Ultima “falsa leggenda” su HPL quella che gli valse appellativi come “solitario” o “recluso”: basta dare un’occhiata alla cronologia della sua vita redatta da Kenneth Faig per rendersi conto di quanto egli, pur in perpetue ristrettezze economiche, viaggiasse negli Stati vicini, si recasse a trovare amici e corrispondenti, ne ospitasse nella sua casa, partecipasse a convention e riunioni. Morì da solo, questo è vero: ma solo perché tacque a tutti le sue gravi condizioni di salute.
Howard Phillips Lovecraft era nato a Providence, nel Rhode Island, il 20 agosto 1890. Pare storicamente accertato che la madre (il padre morì nel ’98) lo soffocasse con un affetto eccessivo, vestendolo da bambina e tenendogli i capelli lunghi fino all’età di sei anni, e cercando di convincerlo che “era brutto” per impedirgli di andare a giocare con gli amici. Di salute cagionevole, non potè frequentare che molto poco le scuole e la sua enciclopedica cultura gli venne dalle letture private. Tra il 1924 e il 1926, sposatosi con Sonia Greene, visse a New York. Dopo il fallimento del matrimonio tornò a Providence (città che amò sempre immensamente), dove visse fino alla morte prematura, avvenuta per cancro allo stomaco il 15 marzo 1937.
Lovecraft non fu mai uno scrittore professionista, faceva il ghost writer, correggendo e revisionando per infimi compensi i parti creativi di persone meno dotate di lui. Un suo cliente fisso fu il reverendo David Van Bush, poeta e conferenziere che si avvalse del suo lavoro per più di dieci anni a partire dal 1915, un altro il famoso illusionista Harry Houdini, che gli commissionò a scopi pubblicitari il racconto “Prigioniero dei faraoni” (“Imprisoned with Pharahos”, 1924). L’amico d’infanzia C. M. Eddy, per il quale HPL scrisse praticamente di sana pianta tre racconti pubblicati su Weird Tales, lo ricompensò copiandogli a macchina i suoi manoscritti (compito che Lovecraft odiava). Spesso HPL non si limitava a revisioni formali, ma riscriveva da cima a fondo i racconti modificandone anche la trama, così che – attraverso un’analisi della corrispondenza o testimonianze sopravvenute – si possono correttamente attribuire a lui racconti originariamente apparsi con altre firme. I suoi racconti, Lovecraft li scriveva principalmente per sé e per i suoi amici, e non ebbe mai l’assillo della pubblicazione professionistica, limitandosi a pubblicarli su rivistine amatoriali ciclostilate diffuse spesso in poche decine di copie. Solo con l’uscita della rivista Weird Tales nel 1923 – di cui divenne una colonna portante – trovò uno sbocco professionale che non limitava le sue esigenze artistiche.
Della narrativa lovecraftiana sono state date interpretazioni e valutazioni le più discordanti, da chi gli nega anche un briciolo di valore letterario a chi lo eleva tra i massimi scrittori americani del Novecento; da chi legge la sua opera come espressione di una filosofia tradizionalista a chi mette in evidenza solo l’aspetto della sua “ribellione” e quindi lo legge “da sinistra”. Senza entrare nel merito, va segnato l’approccio psicanalitico operato in tempi più recenti dal professor Dirk Mosig, che sembra molto promettente. Lovecraft si è sempre professato “materialista meccanicistico” e i suoi dèi e i suoi demoni non hanno nulla di religioso, sono soltanto alieni venuti dal centro dell’universo e indifferenti più che nemici delle questioni umane.
Secondo le opinioni più accreditate, tre fasi sono riscontrabili nella sua produzione, anche se non separate cronologicamente ma frammiste lungo tutto l’arco della sua attività: una fase “dunsaniana” (cioè in cui è predominante l’ispirazione al mondo fantastico di Lord Dunsany, scrittore di fantasy irlandese) in cui i racconti non sono necessariamente orrorifici ma onirici e sognanti (ad esempio quelli del ciclo di Randolph Carter); una fase alla Poe, ossia di terrore in senso più tradizionale, molto spesso a sfondo necrofilo; la fase dell’orrore cosmico, invenzione autonoma di HPL che, per dirla con Giuseppe Lippi, rappresenta il ponte di collegamento tra la narrativa horror e la fantascienza.
La paura, e in particolare quella dell’ignoto, dice Lovecraft nel saggio L’orrore soprannaturale in letteratura (Supernatural Horror in Literature, 1927-1934), è il sentimento più forte dell’uomo. Argomenta Fritz Leiber nel suo saggio Un Copernico letterario che fino a oltre il Medioevo la paura principale è quella del Diavolo e dell’Inferno; poi, con il crescere del materialismo e del razionalismo, si fa per così dire indefinita, fino a quando Edgar A. Poe non la collega con il nostro io profondo (il mostro è in noi). Lovecraft capovolge questo concetto e vede solo un universo estremamente materialistico, retto dal determinismo, al centro del quale sta un “dio cieco e idiota”, contornato da un pantheon di dèi indifferenti alle cose umane e per questo malvagi e temibili, ma solo per chi li disturba. I tanti racconti dedicati a questo tema hanno originato una vera e propria mania presso altri scrittori contemporanei e successivi. E questo, forse, è il più grande omaggio che si poteva fare allo scrittore che è riuscito ad assolutizzare l’ignoto e a rendere davvero cosmica la paura.