W. S. BURROUGHS E LA SCRITTURA CREATIVA

A quanto pare, l’eredità più discutibile e problematica che William Burroughs ci ha lasciato è il suo fallito tentativo di insegnare scrittura creativa; domande retoriche come questa: “Può la scrittura creativa essere insegnata?” (1), il blocco totale della creatività, l’idea di dissuadere – piuttosto che di persuadere – tanto gli allievi del City College di New York quanto quelli del Naropa Institute di Boulder dal diventare dei letterati e infine una simile dichiarazione: “Ho perfino insegnato per un semestre al New York City College e, dopo aver fatto questa esperienza, ho deciso che non insegnerò più per niente al mondo” (2) con il suo corollario di luoghi comuni a seguire, dimostrano in maniera inappellabile il nostro punto di partenza.

Eppure, nonostante l’aperta dichiarazione di sconfitta dell’autore, crediamo che il cut-up (3) sia molto interessante in prospettiva didattica, solo non deve essere meccanicamente e rapidamente sovrapposto agli studenti, cosa che invece Burroughs fa senza troppi complimenti: “Il compito per questa classe è di mettere insieme una pagina o due o quante ne volete, che non contengano nemmeno una parola di vostro. Possono venire da qualsiasi fonte, passaggi di dialogo vero e proprio, libri, film, qualunque cosa chiunque abbia detto. Potete tagliarle e riarrangiarle come volete. Potete anche usare frasi di sogni vostri o di chiunque, o qualsiasi voce possiate aver udito nella vostra testa. Potete tagliare il materiale su un magnetofono e trascriverlo” (4).

In questo modo, l’autore de Il pasto nudo pecca proprio a causa della sua virtù antiumanista, mentre in altri casi i suoi assunti si fanno del tutto ovvi: “Prenderò certi scrittori, in genere scrittori dimenticati, e chiederò agli studenti di leggere in modo creativo. Farò loro le seguenti domande: ‘Cosa ha voluto fare lo scrittore? In che misura c’è riuscito? Fermatevi dopo un certo numero di pagine e pensate a quale conclusione voi dareste a questo romanzo. Pensate a cinque o sei possibili fini per questo romanzo’ ” (5). Se è vero che di rado gli artisti sono i migliori interpreti delle loro stesse metafore, non è neppure detto che essi siano i più indicati ad applicare i metodi che pure hanno concepito. Meglio che lascino fare a noi tecnici; loro “non sanno nemmeno quali bottoni premere né cosa succede quando li si preme. Si incasinano ogni volta che ne premono uno” (6).

In effetti ci pare che Burroughs abbia dimenticato un proprio tema centrale che, sia pure sotto spoglia metaforica, avrebbe invece potuto dargli precise indicazioni operative sul versante della scrittura creativa: dopo un primo addestramento base per imparare a viaggiare nel tempo, Joe Brundige descrive così la sua specializzazione: “Andai a Mexico City e studiai i Maya con una squadra di archeologi – I Maya vivevano in quelli che attualmente sono lo Yucatan, l’Honduras Britannico e il Guatemala – Non starò a ricapitolare quello che è già noto della loro storia, ma alcune osservazioni sul Calendario Maya sono essenziali per comprendere questo rapporto – Il calendario Maya inizia da una data mitica 5Ahua 8 Cumhu e giunge fino alla fine del mondo, una data ugualmente specificata dipinta sui codici come un Dio che riversa acqua sulla terra – I Maya avevano un calendario solare, uno lunare e uno religioso che si snodavano a incastro dal 5 Ahua 8 Cumhu fino alla fine – Il potere assoluto dei sacerdoti, che formavano il 2 per cento circa della popolazione, dipendeva dal controllo di questo calendario – L’entità di tale numero di monopolio può essere dedotta dal fatto che il linguaggio verbale dei Maya non contiene alcun numero oltre il dieci – […] – L’agricoltura Maya era basata sull’abbattimento di alberi che venivano bruciati subito dopo – […] – Ora, l’agricoltura basata sull’abbattere e bruciare gli alberi è tutta una questione di tempismo – La macchia deve essere tagliata ad una data epoca in modo che ci sia poi il tempo di farla seccare e di bruciarla prima che inizi la stagione delle piogge – Un errore di calcolo di pochi giorni e l’intero raccolto annuale è perduto […] Il Maya è una lingua molto viva e nei villaggi più remoti non si parla altro – Ancora lavoro di routine – Ho studiato il Maya e l’ho ascoltato su di un registratore a nastro” (7). Proprio come Joe Brundige si impadronisce alla perfezione della cultura Maya (a quale scopo lo vedremo più avanti), così i nostri allievi dovranno impadronirsi nella maniera più completa e dogmatica possibile del testo (un racconto o un brano di romanzo, l’essenziale è che sia lungo una sola facciata perché almeno all’inizio le cose non siano troppo complicate) che proporremo loro: questo è esattamente ciò che Burroughs fece con se stesso (per esempio, se mescolava Rimbaud, Conrad e Kafka, egli conosceva bene gli autori che  citava), ma non con i suoi studenti – i quali avrebbero senza alcun dubbio potuto montare insieme dei testi in maniera del tutto meccanica e magari anche con ottimi esiti estetici – dimenticando dunque che per compiere questa operazione in forma cosciente, ovvero produttiva per il loro futuro letterario (non scordiamoci che il cut-up è solo uno dei possibili approcci alla scrittura creativa, al punto che non può essere inteso come totalizzante neppure per lo stesso Burroughs), occorre preliminarmente un lavoro di routine anche ipnotico: insomma, per poter vampirizzare un racconto occorre prima diventarlo. “Joseph Conrad fece alcuni superbi pezzi descrittivi su giungle, acqua, cielo; perché non adoperarli parola per parola come sfondo in un romanzo ambientato ai tropici? […] E naturalmente potete rapire i personaggi di qualcun altro e metterli in un ambiente diverso […] Prendete il monologo di Molly Bloom e datelo alla vostra eroina” (8): sì, ma soltanto dopo essere diventati le pagine di Conrad o di Joyce; Burroughs stesso in quanto scrittore è un prodotto (laureato in lettere, allievo di Korzybski, studioso di antropologia e medicina), e non un dato – dunque a maggior ragione non si può pretendere che lo siano gli studenti.

E dire che lo stesso autore de La scimmia sulla schiena afferma, sia pure di sfuggita, che per il cut-up occorre prendere “brani che avete letto e straletto” (9), anche se l’ottica in cui egli fa questa affermazione è quella che l’esercizio in questione ha, fra gli altri suoi scopi, pure quello di straniare un testo cristallizzato, di far tornare in vita i capolavori mummificati, siano essi quelli di Conrad come di Joyce.

Ecco allora un possibile modello operativo: 1) lettura in classe del testo 2) l’insegnante ne evidenzia tutti gli aspetti enciclopedici, retorici e ideologici (con particolare riguardo per ciò che ha voluto fare l’autore, quali reazioni ha voluto suscitare nel lettore, con quali mezzi tecnici) 3) breve verifica formativa con esercizi di comprensione 4) eventuale nuova spiegazione degli aspetti non pienamente compresi 5) rilettura del testo. A questo punto, gli allievi lo conosceranno abbastanza bene e in qualche misura ne avranno subito anche un effetto ipnotico causato dalla serie di letture e riletture: “E’ un’operazione di grandissima precisione – Prima di tutto mandiamo in giro una serie di agenti – (di solito travestiti da giornalisti) – per mettersi in contatto con Winkhorst e sottoporlo ad una batteria di unità di simulazione – Gli agenti di collegamento parlano e registrano a tutti i livelli la reazione alle unità delle parole mentre un fotografo fa fotografie – Questo materiale viene poi passato al Dipartimento Artistico – Gli scrittori scrivono ‘Winkhorst’, i pittori dipingono ‘Winkhorst’, un attore del sistema diventa ‘Winkhorst’, e allora ‘Winkhorst’ risponde alle nostre domande” (10).

E’ chiaro ormai il nostro obiettivo: dar ragione a Burroughs quando afferma: “Desidero fortemente che quel che dico sia preso alla lettera […] mi interessa la precisa manipolazione della parola e dell’immagine […] per creare un’azione, un’alterazione della consapevolezza del lettore” (11); d’altro canto le sue routines, “brevi brani surreali che talvolta includono personaggi reali, ma che più spesso sono il prodotto della strana/allucinata immaginazione di Burroughs” (12), sono ben distinte dalle altre attività artistiche ( scrivere incluso): la routine “è non completamente simbolica ma portata a scivolare nell’azione da un momento all’altro. (Tagliarsi via un dito, scassare una macchina ecc. In un certo senso, tutto il movimento nazista è stato da parte di Hitler una grande, malvagia routine senza humor)” (13).

Crediamo sia possibile restituire letteralità alle metafore del nostro autore in maniera ben diversa da come il nazismo la restituì alla frase fatta. Naturalmente, “per dire che due per due fa cinque occorre sapere che due per due fa quattro”, secondo le parole di Karl Kraus, e ciò presuppone più un lavoro iniziale di ripetizione, contrazione e rallentamento che non di espansione superficiale e di rapidità: l’insegnante deve sapere che con questo metodo di lavoro si studia un solo racconto nello stesso tempo che nella norma occorrerebbe per studiarne due o tre. La dilatazione temporale è necessaria perché gli alunni conoscano a menadito i meccanismi del testo allo scopo di interrogarne l’ordine, il sistema di controllo: quello “Maya si basa sul calendario e sui codici contenenti simboli che rappresentano ogni stadio del pensiero e dei sentimenti di cui sono capaci gli animali umani che vivono in tali limitate circostanze – con questi mezzi fanno ruotare le unità di pensiero e le controllano” (14).

Ora, ogni testo letterario è anche un sistema di controllo che, almeno entro certi limiti, lo scrittore impone alla propria pagina: le reazioni del lettore (di sorpresa, curiosità, disgusto, paura ecc.) sono in buona parte previste da chi ha redatto il testo (si pensi in particolare ai racconti di genere come i gialli o gli horror e agli artifici retorici come l’ellissi o il flash-back) – proprio come il calendario Maya. L’interpretazione che proponiamo non ha nulla di forzato: “Burroughs le identifica [le forme moderne dell’intossicazione] innanzitutto nella pubblicità […] per assimilarle successivamente a un sofisticato organismo di controllo più vasto che è quello della stampa e del linguaggio più in generale, paragonato al sistema maya studiato da Joe Brundige” (15). Per scardinare tale ordine, ad esempio distruggendo delle metafore e/o creandone di nuove, così da evitare che “le linee di parole ti mantengano in posizione” (16) (affermazione che – da sola – pone il cut-up ideologicamente al di fuori dei cadaveri squisiti surrealisti e dei giochi dell’Oulipo) è sufficiente ora “mischiare l’ordine delle registrazioni e l’ordine delle immagini e quest’ordine cambiato sarebbe stato captato e feed- back nella macchina – Avevo le registrazioni di tutte le operazioni agricole, del taglio, della bruciatura della macchia prima della coltivazione, ecc. – Correlai le registrazioni per la bruciatura della macchia con le immagini di tale operazione e mischiai il tempo in modo che l’ordine di bruciare arrivasse in ritardo ed il raccolto annuale andasse distrutto – La carestia indeboliva le linee di controllo ed io ne approfittai per inserire dei radio disturbi nella musica di controllo […] Nello stesso modo inesorabile con cui avevano controllato pensieri sentimenti e impressioni sensoriali dei lavoratori, le macchine dettero adesso l’ordine di auto-demolirsi” (17).

L’imperativo paradossale è: distruggere l’ordine – adesso che lo conosciamo perfettamente, adesso sì – attraverso il cut-up. Rileggendolo, prima o dopo averlo copiato si potranno fare degli aggiustamenti a seconda della propria sensibilità estetica: si potrà ritoccarne la punteggiatura come toglierne di mezzo intere parti o ripeterne altre: per fare un esempio, qualcuno potrebbe decidere di ricostruire il testo montando i soli materiali della prosa originaria che gli piacciono ed eliminando tutti gli altri: ciò è già contemplato, sia pure in negativo, in una potente metafora burroughsiana: “Come si fa a far sì che una persona si senta stupida? – Gli si fa vedere e rivedere se stesso ogni volta che ha parlato e agito da stupido e si è sentito stupido per un numero infinito di volte alimentato nella combinazione della morbida macchina calcolatrice regolata in modo da trovare sempre più schede perforate e in modo da aumentare sempre più immagini di stupidità” (18). Non vogliamo andare oltre perché si tratta essenzialmente d’un lavoro di (ri)montaggio sul quale ha scarso senso stare a teorizzare per due ottime ragioni: 1) occorre fare nella realtà, e non nella testa perché “tutto quello che fate dentro la testa ne mantiene i modelli precostituiti” (19); 2) per il nostro cervello è molto più complicato, se non impossibile (come afferma Burroughs nella sua intervista a Knickerbocker già citata) tener ben fermi nella memoria tutti i pezzi dei quali si compone il cut-up rispetto che agirlo (parte non simbolica della routine sulla quale torneremo). Sotto il profilo squisitamente didattico aggiungerei ancora che gli allievi nella norma sono – peraltro giustamente – più sensibili alla produzione materiale di un oggetto (tagliare, scomporre, ricomporre fisicamente una pagina), piuttosto che al “discorso” su qualcosa, che spesso non li soddisfa per nulla: loro hanno bisogno del referente, non di qualche “significato”. Infine, provate a immaginare quale piacere si può ricavare dal distruggere alla lettera qualcosa che si è dovuto studiare (contemplare)… nessuno ricorda di aver bruciato il proprio diario alla fine dell’anno scolastico? Ma c’è di più: cambiare nella direzione di una maggiore praticità proprio le discipline per eccellenza contemplative sposta in modo significativo lo scopo della politica culturale – che “consiste nell’impedire che qualcosa accada” (20), ovvero nel far sì che un atto venga sospeso e su di esso si rifletta e si discuta prima di passare o meno a compierlo (parlar di droga femminicidio bullismo ecc. serve essenzialmente a questo) –: la parte simbolica della routine burroughsiana fa la parte della tradizionale politica culturale mediando sublimando sostituendo l’atto di partenza, mentre quella non simbolica permette di compierne un altro al suo posto, un’azione distruttiva (il testo originario viene fatto a pezzi come Dioniso) ma paradossalmente anche produttiva, come il gesto del contadino che semina gettando via, per parafrasare Adolf Loos; e i semi, come in ogni operazione estetica seria, possono essere anche minuscoli come un frase (o forse un verso) ricavata dai miei allievi di vent’anni fa dal brevissimo racconto di Aleksandr Solženicyn  Il respiro: “Non importa se questa è soltanto stilla dopo la pioggia e fra le gabbie delle belve non ha nome”.

In conclusione, è il caso di rilevare come gli studenti, imparando questo metodo, si troveranno in posizione esattamente antitetica rispetto alla domanda di originalità dilettantesca che spesso la scuola richiede loro innanzitutto con l’imperativo: “non copiare”; e invece “bisogna copiare, perché chi ha qualcosa dentro non può copiare” (Radiguet). L’originalità forse come esito, ma certo non come spontaneistico punto di partenza.

Gianfranco Galliano

NOTE

(1) W. S. Burroughs, La scrittura creativa, trad. G. Saponaro, Milano, SugarCo, 1981, pagg. 39.

(2) Op. cit., pag.112.

(3) “Tecnica letteraria che consiste nel tagliare fisicamente un testo scritto, lasciando intatte solo parole o frasi, mischiandone in seguito i vari frammenti e ricomponendone così uno nuovo che, senza filo logico e senza seguire la corretta sintassi, mantiene pur sempre un senso anche se a volte incomprensibile”(Wikipedia): a questo punto deve intervenire la sensibilità estetica dell’autore del cut-up per valutarlo e quindi cassarlo, emendarlo o approvarlo. La tecnica venne utilizzata già dal dadaismo, ma fu largamente usata a partire dagli anni sessanta dallo scrittore statunitense William Burroughs, che la elaborò insieme al pittore Brion Gysin. “Il più semplice cut-up taglia una pagina a metà e in quattro sezioni. La sezione 1 è poi messa con la sezione 4 e la  sezione 3 con la sezione 2 in una nuova sequenza”. Poi, “andando avanti, possiamo spezzettare la pagina in unità sempre più piccole in sequenze alterate”( W. S. Burroughs, E’ arrivato Ah Pook, trad. G. Saponaro, Milano, SugarCo, 1980, pag. 149.). Il più radicale: si fotocopia il testo scelto dall’antologia, lo si ritaglia come si vuole (mantenendo però l’integrità delle singole parole, unità minima di senso), lo si (ri)unisce a casaccio estraendo uno a uno i pezzi da un cappello – seguendo il metodo concepito da Tzara negli anni Venti del Novecento (fra gli altri precursori di Burroughs/Gysin vale la pena di ricordare Pound, T. S. Eliot e Dos Passos) – e si copia quanto risulta più o meno fedelmente.

(4) W. S. Burroughs, La scrittura creativa, cit., pag. 106.

(5) Op. cit., pag. 113

(6) W. S. Burroughs, Terre occidentali, trad. G. Saponaro, Milano, SugaCo, 1994, pag. 40

(7) W. S. Burroughs, La morbida macchina, trad. D. Manganotti, Milano, SugarCo, 1991, pagg. 81-83.

(8) W. S. Burroughs, La scrittura creativa, cit., pag. 81.

(9) W. S. Burroughs, “Il metodo cut-up di Brion Gysin”, in A.A. V.V. Re/Search, William Burroughs Brion Gysin, Milano, Shake Edizioni, 1992, pag. 134.

(10) W. S. Burroughs, Nova Express, trad. D. Manganotti, Milano, SugarCo, 1991, pagg. 45-46.

(11) C. Knickerbocker, Intervista con William Burroughs, trad. C. Gasperini, Roma, Edizioni minimum fax, 1998, pagg. 74-75, pag. 36

(12) J. Campbell, “Lotta contro lo spirito maligno”, in A.A. V.V., Re/Search, William Burroughs Brion Gysin, cit., pag. 7.

(13) W. S. Burroughs, Interzona, trad. G. Saponaro, Milano, SugarCo, 1991, pag. 153.

(14) W. S. Burroughs, La morbida macchina, cit., pag. 90.

(15) G.-G Lemaire, William Burroughs: una biografia, trad. V. La Via, Milano, SugarCo, 1983, pag. 102.

(16)W. S. Burroughs, Il pasto nudo, Milano, Sugar, 1970, pag. 10.

(17) W. S. Burroughs, La morbida macchina, cit., pagg. 91-92.

(18) W. S. Burroughs, Nova Express, cit., pagg. 85-86.

(19) T. Wilson, “Brion Gysin Una biografia-rivalutazione”, in A.A. V.V., Re/Search, William Burroughs Brion Gysin, cit., pag. 148. Un esempio personale: “Lo penso come scena: Marat, seduto in una sala giochi, cerca di rovinare ai giovani il piacere del flipper. Viene poi pugnalato dalla Corday, perché lei vuole giocare al flipper. Questo all’incirca sarebbe ora il nocciolo del mio interesse per il materiale. Non è necessario che quel che dice Marat sia scontato. Semplicemente nessuno vuole ascoltarlo. Perché? Perché non c’è nessuna risposta a quanto questa generazione che qui gioca a flipper si attende dalla vita. Per tutta la loro vita non possono esserci promesse di un divertimento migliore e più differenziato del flipper. Ogni essere pensante qui sa che finché vivremo non ci sarà la rivoluzione. Decidersi per essa avrebbe solo valore morale.” (H. Müller, L’invenzione del silenzio, trad. G. Galvani e P. Kammerer, Milano, Ubulibri, 1996, pag. 126). Se non avessi fatto il cut-up di questo brano, sul quale avevo rimuginato a lungo senza trovare altra soluzione all’infuori di quella proposta dal suo autore, non sarei mai giunto a questo esito: “Non ci sarà la rivoluzione – che quel che dice Marat sia valore morale – Vuole ascoltarlo – Perché – Perché – A quanto questa generazione seduta in una sala giochi per tutta la sua vita del flipper – Questo Marat viene poi pugnalato – un divertimento migliore – e più giocare al flipper non è necessario”: “i cut-ups spesso si rivelano come messaggi in codice con un senso speciale per chi li scompone. Se ci sei batti un colpo? Forse. E’ già un passo avanti rispetto alle solite riprovevoli esibizioni di poeti evocati da una medium” (W. S. Burroughs, “Il metodo cut-up di Brion Gysin”, cit., ibidem): è probabile che con questa “medium” Burroughs alluda alla critica letteraria.

(20) H. Müller, L’invenzione del silenzio, cit., pag. 127.