IX TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: I CLASSIFICATO

LA MAGIA DELLO SCULTORE

di Davide Camparsi

«La magia è nella carne dei padri» disse Rabbe.

La luce del falò si spezzava in mille riflessi contro le minute scaglie che gli imperlavano il viso.

«Per questo rendiamo onore ai caduti recuperandone le ossa, forgiandole in armi e armature. L’acciaio, il ferro, sono maledetti, ma l’ossovivo è una benedizione dello Scultore. Solo alcuni possono incanalare la magia che scorre attraverso di noi ma, conservando le ossa, plasmandole in nuovi strumenti, questa non va perduta.»

Morditore scosse il capo. «Questo lo so. Ho appreso le tradizioni e conosco il potere della mia scure.»

Nonostante fosse giovane, il muso canino era solcato da numerose cicatrici. Molte se le era guadagnate al loro fianco, altre lo segnavano da prima che Cantaluna l’accogliesse nella compagnia.

«Ma da dove nasce la magia? Perché è solo in noi e non negli animali. O nelle piante?»

Rabbe dei Rettili sospirò. I Cani erano sempre pieni di domande.

«Le vecchie storie dicono che fu il Dio Scultore a instillare la magia tra carne e ossa. La magia attecchì e ci mutò. E poi cambiò il mondo. Nessuno sa cosa significhi: i sentieri degli Dei sono tortuosi e richiedono fede nei loro intenti. Mettiti il cuore in pace: non saranno un Cane o un Rettile mercenario a venirne a capo stanotte.»

«Sono solo storie. Non esistono gli Dei: le cose accadono e basta» disse Mia.

Rabbe sbuffò, contrariato. I Gatti non credevano in nulla, solo in se stessi.

Mia non badò al suo disappunto.

«Alcuni hanno fede quando le preghiere vengono esaudite o perché l’ombra della tragedia non aleggia sulle loro case. Altri muoiono su un campo di battaglia, cedono alla malattia o nascono storpi, la fame li consuma, l’ingiusto li rende schiavi. Eppure, ad ascoltare quel che si dice sullo Scultore, non siamo tutti figli dello stesso Dio? Forse questi ultimi non pregano abbastanza forte, Rabbe? O sei uno di quelli che crede che la sofferenza sia una prova? Se anche lo Scultore esistesse, allora la verità è che il suo piacere consiste nell’infliggere tormento alle proprie creature. Per quanto mi riguarda, i deboli possono tenersi un dio del genere e lui stesso dovrebbe guardarsi dalla mia magia, se mai me lo trovassi di fronte. Io non ho bisogno di preghiere, solo di essere più svelta e forte del mio nemico.»

Morditore allungò una mano a sfiorare Mia, senza toccarla. La gatta gli era amica, ma non si poteva mai sapere come i felini avrebbero reagito a un gesto, fosse anche d’affetto.

«Non litighiamo» disse. «La giornata è stata dura e il viaggio è ancora lungo. Non desideravo creare attrito tra noi, ero solo curioso.»

Mia abbassò le spalle, lasciandosi sfuggire un sorriso. Era disposta a concedere molto a Morditore. Forse proprio perché era così giovane o per via di tutte quelle cicatrici.

«Hai ragione» ammise. «Per farmi perdonare l’insolenza, quando cadrò, Rabbe potrà tenere le mie ossa e forgiare per sé un glifo sacro dello Scultore, se ci tiene tanto.»

La battuta strappò una risata nella notte.

Morditore emise un sospiro di sollievo; la marcia attraverso quella foresta infida li stava rendendo nervosi e irritabili.

Dopo tre settimane di marcia nel fitto della boscaglia, lungo il sentiero sconnesso e a tratti irriconoscibile degli Antichi, avevano perso sei di coloro che avrebbero dovuto proteggere e altrettanti mercenari impegnati a scortare il convoglio diretto a Par del Grande Albero. Tra i caduti c’erano anche le uniche due vedette alate della spedizione, cosicché ora viaggiavano alla cieca all’interno della foresta, cercando di non cadere vittima di altre imboscate da parte di ciò che trovava riparo tra le sue profondità.

Nonostante le convinzioni di Mia, Morditore rivolse una preghiera allo Scultore perché li risparmiasse almeno dagli Incubi.

«Ci sono alcuni che parlano di leggende più antiche» disse Cantaluna, strappandolo a quei pensieri torvi.

Rabbe rise. «Certo. Le abbiamo sentite tutti, da cuccioli, ma adesso siamo un po’ cresciuti per credervi ancora, non trovi?»

Cantaluna ignorò il sarcasmo dell’altro. «Eppure le rovine esistono. Come le spieghi?»

Rabbe scrollò le spalle.

«Un passatempo del Dio Scultore» lo canzonò Mia, ma il Rettile non abboccò.

«Che intendete?» chiese Morditore. «Sono nato randagio, mia madre non aveva tempo per le storie della buonanotte.»

«I Canti, le Genealogie, arrivano fino a duemila anni fa. L’epoca degli eroi» disse Cantaluna. «Le leggende narrano che, prima di quel tempo, quelli come noi non esistevano, che fu il Dio Scultore a crearci e a creare la magia.»

Morditore annuì, confuso. «Questo lo so.»

«Ma ci sono storie più antiche. Molti, come Rabbe, ritengono che si tratti di superstizioni. Questi miti affermano che furono gli Uomini a crearci, a dar vita in qualche modo allo Scultore. E che la magia venne dopo, in conseguenza di ciò. Le storie dicono che le rovine su cui abbiamo costruito le nostre case, la stessa Par, siano i resti delle loro città.»

Morditore scoppiò a ridere. «Vi prendete gioco di me, non è vero? Gli Uomini sono solo animali, come Furfante.»

Cantaluna sorrise, continuando a fissare le fiamme.

«Te l’ho detto, sono storie molto vecchie, forse addirittura prima dei Cani, dei Gatti, dei Rettili e degli Uccelli… però qualcuno le ricorda ancora.»

Morditore scosse la testa, scandalizzato.

«Gli Umani sono solo bestie. Non sanno nemmeno parlare, vagano fragili e nudi per le selve, privi di alcuna magia…»

«A proposito di bestie, dov’è la tua?» li interruppe Rabbe, guardandosi intorno. «È un po’ che non la si vede in giro.»

Cantaluna si alzò in piedi, fiutando l’aria notturna. Scortavano una carovana commerciale, molti dei mercanti viaggiavano con le loro famiglie e i falò venivano tenuti vivi fino all’alba. I fuochi dei bivacchi parevano i resti di stelle cadute e proiettavano ombre lunghe e nere che confondevano ogni cosa. Presto avrebbero ripreso il loro turno di guardia, dando il cambio a una delle altre compagnie: dove si era cacciato Furfante?

Cantaluna fischiò, rimase in attesa, ma l’altro non rispose al richiamo.

«Vado a cercarlo» disse.

Morditore, Rabbe e Mia si alzarono a loro volta, scalciando terra sulle fiamme.

«Veniamo anche noi» disse la gatta. «Nonostante la fede di Rabbe, dubito che pregare lo Scultore servirà a riportarlo da noi.»

 

Il ragazzo digrignava i denti, minacciandoli col coltello sguainato.

Ogni tanto una pietra lo colpiva al corpo o alla tempia, facendolo sanguinare. Allora cercava di avventarsi sui propri aguzzini, ma la catena di ossovivo alla caviglia lo teneva legato all’albero, suscitando il dileggio degli astanti. Qualcuno, armato di lunghi bastoni, si divertiva nel tormentarlo. Altri gli sputavano contro.

Il ragazzo li fissava con occhi neri e feroci attraverso ciocche di capelli sporchi, scuri e lunghi. Indossava un perizoma di cuoio, per il resto era nudo. A ogni colpo ricevuto emetteva un ringhio di dolore e uno di collera.

«Guarda che occhi cattivi» disse un cane. «Scommetto che se lo lasciassimo libero, ci balzerebbe alla gola senza esitare.»

«Non succederà. E la prossima volta Cantaluna imparerà a badare alle sue cose.»

Qualcuno rise.

«Forza, finiamolo» disse un mastino grande e grosso. «Poi portate la carcassa nella foresta e bruciatela. Seppellite l’acciaio con lui. Non toccatelo, o lo Scultore vi maledirà.»

Una coppia di cani si fece avanti, brandendo lunghe lance.

Il ragazzo arretrò verso l’albero, sempre tenendo il pugnale alzato e strattonando inutilmente la catena alla caviglia.

Una delle lance saettò in avanti, cercando di insinuarsi attraverso la sua guardia, ma lui la evitò, afferrando la seconda e facendo cadere in ginocchio il cane che la brandiva. Dal cerchio dei presenti si levò un latrato di entusiasmo. Lo spettacolo si faceva interessante.

Il ragazzo strattonò l’asta di legno e il cane inciampò. Svelto, il pugnale scattò a mordere l’avversario col suo dente d’acciaio. Un uggiolio di dolore si confuse con la rabbia dei presenti.

Una pietra colpì il ragazzo alla tempia, facendolo crollare a terra; mentre cercava di rialzarsi, l’altra lancia lo ferì al costato, stillandone sangue.

Il cane che aveva ordinato di bruciarlo nella foresta si fece avanti, sguainando la sua spada d’ossovivo. La magia di cui era intrisa serpeggiò lungo la lama, facendo arretrare tutti gli altri ma non il prigioniero, che si limitò ad asciugarsi il sangue dalla fronte, continuando ad agitare il pugnale davanti a sé.

L’altro glielo fece saltar via dal pugno con un colpo di piatto, un gesto quasi annoiato. Dentirossi era sulla strada da una vita, un guerriero troppo esperto per il ragazzo. Gli piantò lo stivale contro il petto glabro e lo inchiodò all’albero cui era prigioniero, poi sollevò la lama, caricando il braccio per finirlo con un fendente.

Il ragazzo non abbassò lo sguardo. Cercò invece di morderlo ancora.

«Sei proprio una bestia infida, come tutta la tua specie» disse il vecchio mercenario. «Ma presto o tardi ci libereremo di voi, dovessimo mietervi uno alla volta.»

Dentirossi calò la spada.

La lama rimbalzò, avvampando scintille, incocciando nella spada protesa di Cantaluna, partorita in quell’istante dalla notte. La magia intrisa nell’ossovivo sfrigolò, facendo recedere l’oscurità tutt’intorno.

Dentirossi scartò all’indietro, tornando ad affondare la spada in un attacco repentino, istintivo. Cantaluna parò il colpo, avventandosi con una spallata contro l’avversario, scagliando Dentirossi a terra, puntandogli la lama alla gola.

Un cane e un gatto si fecero avanti. Uno dei due allungò la mano verso la propria arma, con l’intenzione di dar manforte a Dentirossi.

L’aria crepitò di magia.

Una sferzata di potere scaturì dalle mani protese di Mia, investendo entrambi senza tanti complimenti.

Rabbe e Morditore emersero dalle ombre al fianco della gatta, le lame già sguainate.

«Direi che lo spettacolo è durato abbastanza, brava gente» disse Cantaluna. «Siamo qui per proteggervi, ma quello è il mio uomo. Se qualcuno prova di nuovo a fargli del male, se la dovrà vedere con me.»

«La tua bestia se ne va in giro libera, portando con sé acciaio maledetto» latrò Dentirossi da terra, sputando. «E in ogni caso, per quanto mi riguarda, l’unico Uomo buono è un Uomo morto.»

Cantaluna abbassò la spada.

«Le leggi dello Scultore valgono per noi: Cani, Gatti, Rettili e Uccelli, non per le bestie. E in ogni caso non lo ripeterò: fate del male a Furfante e ne pagherete il prezzo. Adesso disperdetevi e tornate ai vostri fuochi, l’alba è vicina e presto ci rimetteremo in cammino. Se invece preferite sfidare la fortuna fino a Par del Grande Albero con tre lame e una maga in meno, pagateci il soldo e proseguite da soli. Ne ho fin sopra al pelo di questa foresta umida e fetida.»

Brontolando, uno alla volta, gli astanti si allontanarono verso i rispettivi carri.

Dentirossi si rialzò, imprecando e rinfoderando la spada. Il mercenario sputò di nuovo, ma alla fine s’incamminò riluttante verso il centro dell’accampamento, seguito dai propri compagni.

Cantaluna indicò Furfante.

«Qualcuno può liberarlo?»

Morditore calò la scure contro gli anelli d’ossovivo, sprizzando scintille di magia incandescente. La catena si spezzò e Furfante recuperò svelto i suoi pugnali, infilandoli nel perizoma di cuoio.

Cantaluna si chinò verso di lui, allungando una mano.

«Qui, ragazzo. Fammi vedere come ti hanno conciato.»

Furfante si accoccolò sotto la carezza che gli scompigliava la zazzera impiastricciata di fango e aghi di pino, ansimando. Non digrignava più i denti, ma aveva ancora quello sguardo cupo che Cantaluna conosceva fin troppo bene.

«Tranquillo bello, è passata. Lo sai che non devi andartene in giro da solo, soprattutto con quell’acciaio in bella vista. Devi fare attenzione.»

Furfante lo fissò negli occhi.

Cantaluna non gli aveva mai sentito emettere altro che ringhi e brontolii; più di rado, un verso che poteva essere una risata, forse. Non aveva nemmeno idea se comprendesse quel che gli diceva.

Scosse la testa, mentre Mia si apprestava a medicare le ferite del ragazzo.

Le vecchie storie narravano di un tempo in cui gli uomini possedevano addirittura la parola, ma lui non ne aveva mai udita nessuna pronunciata dalle labbra di Furfante. Quando ancora era un bambino, aveva provato a insegnargli, ma invano. La sua gente abbatteva gli uomini così stupidi o affamati da avvicinarsi troppo alle fattorie e ai campi coltivati: erano una specie pericolosa e parassita, lo sapevano tutti. Presto si sarebbero estinti, anche se alcuni sopravvivevano all’interno delle foreste, lontano dalle rovine delle città, dove abitavano Cani, Gatti, Rettili e Uccelli.

Forse, non era vero nulla di quel che aveva detto a Morditore: solo favole da raccontare ai cuccioli, la notte, prima di metterli a dormire… Però quell’idea continuava a turbarlo e affascinarlo.

Cantaluna si rialzò, scrutando nel buio della foresta, oltre i pali di difesa che erigevano ogni notte lungo il perimetro dell’accampamento.

Scorse nient’altro che ombre, nere e ingannevoli.

Cosa vi fosse acquattato dentro, in attesa di ghermirli, solo lo Scultore poteva saperlo.

 

Seguire la strada degli Antichi richiedeva concentrazione, perché la via, in realtà, non esisteva più da secoli.

Quel che affiorava dalla vegetazione erano i resti di una strana pietra fusa, sbriciolata dalle radici e dalla vegetazione; ogni tanto, frammenti di metallo rugginoso emergevano lungo il bordo di quella che un tempo doveva essere un’ampia carreggiata, ma la carovana se ne teneva alla larga, timorosa che il potere nefasto del metallo potesse attirare la sfortuna.

Cantaluna non se ne preoccupava: quelle tracce erano la conferma che si trovavano ancora sul sentiero, l’unica via certa attraverso gli alberi. Mentre marciavano all’avanguardia, erano talmente presi dall’impegno di scorgere quei segni familiari, che si accorsero dell’Incubo solo quando fu troppo tardi.

Furfante li precedeva, correndo avanti e indietro senza sosta. Raggi di sole cadevano in fasci diritti dalle fronde in alto, segno che doveva essere quasi mezzogiorno. Cantaluna stava riflettendo sul fatto che fra non molto avrebbero dovuto cercare un riparo per la breve sosta del pranzo. Alzò una mano per richiamare il ragazzo, fermo una decina di metri davanti a loro come se stesse puntando qualcosa, quando il bosco esplose in un boato di schegge di pietra, legno e ruggiti.

«Un Incubo!» gridò Morditore. «Un Incubo, davanti a noi!»

Poi la terra si rovesciò su di loro.

C’era magia diversa oltre a quella dei padri, anche se alla gente non piaceva parlarne. E un altro Dio, oltre allo Scultore. Qualcuno lo chiamava il Dio Matto, per altri non aveva nome. Quelli come Mia erano convinti che, se gli Dei esistevano sul serio, lo Scultore e il Matto non fossero altro che le due facce della stessa entità che se la rideva dei loro fragili destini. Gli Incubi sembravano dar loro ragione, perché non vi era alcun senso in loro, proprio come se fosse davvero la magia di un dio privo di senno a forgiarli, al solo scopo di colpire il mondo con una sferza di rovina.

Quello che avevano di fronte somigliava vagamente a un orso, ma enorme, alto forse sei, sette metri. La metà sinistra del capo scarnificato esibiva ossa biancheggianti costellate da eruzioni chitinose e mitili marini. L’unico occhio sano, di un azzurro abbagliante, occupava il resto del muso. Rovi e rose crescevano su tutto un fianco del mostro, con spine acuminate, lunghe quanto un braccio. Il resto erano zanne e artigli, furia e dolore che echeggiavano assordanti attraverso la selva.

L’Incubo caricò.

Cantaluna estrasse la spada e si lanciò in avanti, lasciando la magia della lama libera di avventarsi contro l’avversario.

Mia fu più veloce.

Una folgore di potere esplose attraverso la foresta, infrangendosi contro la creatura, avvampando tra le rose scarlatte.

Morditore e Cantaluna colpirono un istante più tardi, affondando ascia e spada nella carne corrotta. Uno spruzzo di sangue bollente li investì, sollevando volute fumanti dalla carne ustionata là dove l’armatura di cuoio e ossovivo non riusciva a proteggerli.

«Indietro!» gridò Cantaluna, afferrando Morditore ed evitando per un soffio che una zampata del mostro li decapitasse entrambi.

Due frecce scagliate in rapida sequenza si conficcarono nel gigantesco occhio azzurro. Rabbe incoccò di nuovo, ma prima che riuscisse a scagliare la terza, la creatura speronò la roccia su cui si era inerpicato, frantumandola, facendolo cadere di sotto con un grido di sorpresa e dolore.

Altra magia divampò dalle braccia protese di Mia, appiccando il fuoco sul roveto. Mentre le rose ardevano, dai fiori si levarono grida lancinanti di sofferenza. L’Incubo, tuttavia, pareva trarre forza da quel dolore, come se darne o riceverne non facesse differenza per lui: solo arrecare rovina e morte importava.

Cantaluna si rialzò, gettandosi con un balzo sul fianco esposto della creatura, conficcando di nuovo l’ossovivo nella carne del nemico. La magia della spada sfrigolava attraverso muscoli e tendini, in un canto che rivaleggiava con il ruggito furioso dell’Incubo.

Nel frattempo, altri mercenari li avevano raggiunti. Se non fossero riusciti ad abbattere il figlio del Dio Matto, il mostro sarebbe piombato sui carri inermi provocando una carneficina.

Con un gemito, Cantaluna estrasse la spada dalla carne, tornando a dilaniare il mostro; sangue rovente gli ustionò carne e pelo. Sotto di lui, picche e lance si conficcarono nel ventre esposto dell’Incubo, brandite da Dentirossi e dai suoi compagni. Ringhiando, menando fendenti rabbiosi, Morditore combatteva al loro fianco.

L’orso mugghiò, sollevandosi sulle zampe posteriori e scrollandosi di dosso Cantaluna. Poi ripiombò a terra, scattando in avanti con zanne e artigli, sbranando un paio di guerrieri, abbattendo alberi e sollevando schegge di pietra che ferirono Dentirossi e Morditore.

La magia di Mia esplose per la terza volta, quasi del tutto esaurita.

L’Incubo soffiò e scartò in avanti.

Cantaluna roteò la spada impattando le zanne spalancate, frantumandole, mozzando la lingua del mostro e strisciando l’ossovivo lungo la mandibola. La bestia ululò, serrando le fauci sulla lama di Cantaluna, mandandolo a schiantarsi contro il tronco divelto di un albero.

Mia, ancora in ginocchio, tese di nuovo le braccia ma la magia la tradì, ormai consumata in rivoli sterili e privi di forza. Mentre fissava l’Incubo, incredula e furente, questi si volse a fronteggiarla.

Fu in quell’istante che Furfante saettò fuori dalla selva, svelto come la lancia scagliata da un dio irato.

La gatta lo vide arrampicarsi sul mostro, scalandone il fianco attraverso le ferite inferte da Cantaluna, affondando i pugnali nella carne, risalendo il pendio sconnesso fino all’iride azzurra, ancora spalancata nonostante i monconi delle frecce di Rabbe spuntassero dall’orbita. Quando raggiunse l’occhio, il ragazzo spinse quel che restava dell’impennaggio dentro il bulbo.

L’Incubo sussultò entrambe le volte.

Furfante sollevò i pugnali e piantò il proprio acciaio nell’azzurro, dilaniando e sbrecciando, affondando fino al gomito in quella pozza di cielo che arrossava a gran velocità sotto colpi feroci. Implacabili.

Uomini, pensò Cantaluna, accasciato contro il tronco, a pochi passi da Mia, mentre un brivido lo percorreva. Una specie spietata e crudele. Forse le vecchie storie non sono tutte sbagliate…

Mentre il mostro s’inarcava di dolore, ululando sofferenza attraverso la selva ammutolita, Furfante colpì ancora. E ancora.

Le ossa dell’orbita cedettero.

La creatura schiantò sulle zampe anteriori. Furfante balzò a terra, raccolse una lancia e, mentre Cantaluna si tirava in piedi e lo affiancava, la spinsero insieme fin dentro il cranio deforme.

Crepitando, le ultime fiamme consumarono quel che restava del roseto lungo il fianco della bestia; un fumo nero, acre e oleoso si alzò oltre la chioma degli alberi più alti.

Caddero alcune foglie tra i respiri affannosi dei sopravvissuti e il sangue versato.

Poi l’Incubo emise un rantolo e morì.

 

Scorsero la città di Par tre giorni dopo.

Erano ancora lontani ma, anche da quella distanza, ciò che rimaneva del grande albero scintillava nel tramonto. Ammiccanti bagliori tra il rigoglioso fogliame del fusto.

Morditore strinse gli occhi. Le ferite bruciavano ancora ma lo stupore trapelava dalle sue parole.

«C’è metallo nell’albero?»

Rabbe, al suo fianco, rise. «No, è l’albero stesso a essere fatto di metallo, o quel che ne resta. La natura se l’è solo ripreso, e la ruggine sta facendo il resto.»

«Non capisco» disse Morditore.

Rabbe indicò i quattro fusti distinti, tralicci di ferro intrecciati che si congiungevano sulla cima, ora spezzata. Anche così, il moncone superstite svettava a un’altezza impossibile rispetto al fiume più in basso, la città e la sua isola. «Le rovine degli Antichi non si possono capire. Solo accettare, come la fede nello Scultore.»

Toccò a Mia ridere questa volta, ma Rabbe non parve prendersela.

Qualche passo davanti a loro, anche Cantaluna e Furfante contemplavano la meraviglia di Par.

Un pensiero strano attraversò la mente del mercenario.

Forse la scienza di ieri è la magia di oggi. Forse la magia di oggi sarà la scienza di domani.

Cantaluna scosse la testa.

Allungò una mano e la posò sul capo di Furfante, scompigliandone la zazzera arruffata.

Cane e Uomo indugiarono contro l’orizzonte, ognuno perso nei propri irrequieti sogni.

Dopo un po’, Mia li guardò avviarsi lungo lo sconnesso sentiero degli Antichi.

Fianco a fianco.

Un’alleanza che la sconcertava sempre ma, nonostante i pregiudizi, in qualche modo familiare. Rassicurante.

«Andiamo» disse incamminandosi.

Una smorfia sorniona sotto baffi da gatta.

«Vediamo cos’ha in serbo per noi lo Scultore, oggi.»