IN OMNE TEMPUS
di Giuseppe Agnoletti
Roma, 216 a.C.
La folgore si abbatté su Helvia a ciel sereno. Il cavallo scartò e cadde disarcionando la ragazza. Il corpo della giovane aristocratica, nudo e disarticolato, rimase a terra con gli occhi sbarrati a contemplare il cielo. Nel colore chiaro delle iridi sfumava una domanda senza risposta.
“È un prodigio, un messaggio mandato dagli dei infuriati.”
La voce di Marco Claudio Pera era rotta dall’ira che gli arroventava il volto. Lucio Cornelio Lentulo Caudino, il Pontifex Maximus, ascoltava con attenzione. I due uomini si trovavano nel tablinum della villa di Lucio Cornelio. Alle loro spalle, si apriva la quinta rappresentata dal peristilium, il giardino circondato da un colonnato che dava luce e aria alla domus.
“Mentre andava a cavallo, la giovane vergine Helvia, figlia del cavaliere Lucio Helvio, è stata colpita dalla folgore scagliata dal cielo” proseguì insistente Marco Claudio.
Lucio Cornelio si ritrovò a torcersi le mani una contro l’altra, mente una ruga gli scavava la fronte. “E dicevi che il suo corpo è stato ritrovato privo degli abiti?”
Il senatore assentì gravemente. “I vestiti erano sparsi accanto a lei, come se non avesse mai indossato nulla. E così pure la bestia era priva delle cinghie. Un prodigio osceno e funesto!”
Il Pontifex Maximus si alzò, percorse alcuni passi nel tablinum. Fissò per alcuni istanti un bronzetto raffigurante un ercole bibax, nudo, con la clava sollevata nella mano sinistra e la pelle leonina pendente dall’avambraccio. Ercole, l’eroe che tutte le matrone desideravano avere nel loro lectus. Che tempi erano mai questi, nei quali le donne di Roma si rivestivano d’impudicizia? All’epoca dei loro padri stavano al loro posto. E gli venne alla mente il mirabile esempio del cavaliere Ignazio Mecennio, che aveva ucciso la moglie a bastonate perché sorpresa in cantina a bere vino.
“Pensi alle vestali?” chiese di colpo.
“È la prima cosa che mi è venuta alla mente” rispose Marco Claudio Pera. ”Per esempio, quella Opimia, è una delle ragazze più belle di Roma. Un uomo potrebbe perderci la testa. Tu lo sai, Annibale ha distrutto il fiore degli eserciti e a Canne ha umiliato ancora una volta la nostra potenza. Gli dei sono adirati, occorre agire in fretta. La sopravvivenza stessa della città è in pericolo.”
Lucio Cornelio si rimise a sedere. Prese il calamus e ne rinnovò l’estremità. La intinse nell’atramentarium, poi cominciò a vergare una charta epistolaris.
2)
Roma, 9 giugno 20…
Per sua fortuna Fulvio aveva un padre ricco. Così aveva potuto studiare a piacimento la storia, materia che amava sopra ogni altra, senza l’assillo della ricerca di un posto di lavoro; soprattutto si era concesso il lusso di una villetta edificata in una zona così ricca di risonanze storiche. Un miracolo impossibile in mezzo a tutti quegli edifici, eppure era accaduto. All’incrocio fra via Goito e via XX settembre, dove nella Roma antica era sorta Porta Collina, un luogo intriso di avvenimenti di una certa importanza. Nel 217 a.C., in piena guerra punica, Annibale si era avvicinato con la scorta di duemila cavalieri numidi, poi si era arrestato in groppa alla sua cavalcatura a contemplare il panorama della Città eterna. E chissà cosa aveva mai visto? Perché poi si era dedicato a quelli che erano diventati famosi col nome di “ozi di Capua”. Nello stesso punto, nel 390 a.C., erano penetrati i galli che si erano spinti sino in Campidoglio. Gli episodi non si contavano. Eppure dopo venticinque secoli di sfida la porta era scomparsa alla fine dell’Ottocento per mano dell’uomo, che l’aveva annientata con la forza della polvere da sparo allo scopo di costruire il palazzo delle finanze.
Dal balcone l’ultima luce del tramonto regalava ombre profonde. Un ponentino più malandrino del solito si era alzato col fremito soffuso di un coro a bocca chiusa.
La stronza aveva chiamato verso le otto. Lo aveva mollato per telefono, come due adolescenti che avessero bisticciato per una stupidata. Invece la loro relazione andava avanti da tre anni, con alti e bassi, certo, ma nulla che avesse mai fatto pensare a una fine così meschina.
Ho bisogno di riconsiderare il nostro rapporto, una frase intrisa di veleno che lei aveva sputato fuori dai denti senza la necessità di ulteriori parole.
La serata inaugurale della sua villetta era andata a fondo come il Titanic e adesso la tavola apparecchiata possedeva l’aspetto metafisico di una piazza in un quadro di De Chirico. Ma le due candele accese le conferivano solo un aspetto triste. Eppure Fulvio aveva sfogato la sua passione per la cucina come poche altre volte. C’era un polipo in insalata le cui ventose appassivano fra cubetti di patate e olive nere spaccate a metà. Antipasti caldi e freddi, uniformatisi per par condicio alla stessa temperatura, si fronteggiavano squadrandosi di sbieco; la bottiglia di Ferrari, simile a un corpo armato tenuto di riserva per essere lanciato nel culmine della battaglia, riposava strategicamente in frigorifero.
La stronza di cui le molecole cerebrali di Lucio argomentavano era Virginia, la sua ragazza, o per meglio dire la sua ex ragazza. Quanto al nome, poi, Virginia; si concesse un sorriso maligno.
Squadrò indispettito il polipo. Ne infilzò un tentacolo e lo masticò di malavoglia: mancava di sale, ma forse anche un pizzico di pepe in più non avrebbe guastato. Mentre sgranocchiava con cattiveria un gambo di sedano concluse di non avere fame e che la serata sarebbe stato meglio terminarla a letto. Ovviamente da solo.
Sparecchiò e ripose il cibo in frigorifero. Abbassò la tapparella della porta finestra della sala e si tolse la camicia che lanciò nel centro della tavola. Quando giunse nella camera, la prima cosa che lo colpì nella figura che vide, fu la tristezza di quel volto e poi la bellezza che sprigionava. Avrebbe dovuto provare paura, visto che dopotutto si trattava di una sconosciuta penetrata in casa sua. Ma era una giovane bellissima, e poi neppure lei appariva spaventata, se mai, ecco, stupita.
La ragazza fece un passo verso di lui, solo allora Fulvio si rese conto che era vestita completamente di bianco. Doveva provenire da qualche festa in maschera fuori stagione, perché indossava una stola e un mantello di lana. Il capo era ricoperto quasi per intero da una fascia che lasciava libera la fronte e l’attaccatura dei capelli. Sotto all’orlo anteriore del tessuto si vedeva la capigliatura divisa in sei trecce, attorno alle quali si attorcigliavano fulgidi nastri rossi.
“Io mi chiamo Fulvio, e tu?” le chiese.
La ragazza si portò le mani al volto, adesso era piena di meraviglia, come una bambina di fronte a un regalo inaspettato.
“Fulvius, Fulvius” disse, poi si portò un dito davanti alla bocca e venne avanti. Sembrava ancora più bella, luminosa come la prima stella della sera.
Gli appoggiò le mani sulle spalle, poi una scivolò dietro la nuca ad accarezzargli l’attaccatura dei capelli. La ragazza lo baciò a lungo, con una dolcezza struggente.
Tolse la fascia che le copriva il capo e, mentre Fulvio subiva passivo l’incedere di quell’immensa bellezza, prese a spogliarsi.
La ragazza aveva la pelle così chiara da sembrare finta, Simile a una statua di marmo che tuttavia, al contatto, emanava calore e desiderio. Sembrò paralizzarsi per un istante, dopo avere toccato la sua camicia. Ne studiò i bottoni come se li vedesse per la prima volta, ma, rivelando un carattere impetuoso, infilò le mani nel colletto e tirò forte fino a stracciare il tessuto. Squadrò stranita la cintura dei pantaloni, sfoderò un sorriso malizioso, la slacciò e rise divertendosi come per un gioco nuovo. Tirò giù il tessuto e quando vide i suoi slip colorati rise ancora più forte portandosi una mano alla bocca. Ma quando rimase in ginocchio davanti a lui, alla vista del suo membro turgido come una spada di carne, il fiato le si bloccò in gola.
“Fulvius.” disse ancora, poi aprì le labbra, lo accolse dentro di sé e non poté più dire nulla.
3)
Roma 216 a.C.
“Fulvio, il mio segretario? La voce di Lucio Cornelio Lentulo Caudino tradiva l’incredulità.
“Lo sappiamo, Lucio, i tempi sono funesti e questa è solo una ulteriore dimostrazione. Ma ti assicuro che sono certo di quello che dico. L’ho fatto sorvegliare e non ci possono essere dubbi. Come potremo mai riferire che il segretario del Pontifex Maximum ha rubato la verginità a una vestale?”
Lucio Conelio si coprì il volto con le mani. Quando le tolse le sue guance erano rosse di rabbia. “Chi è lei?”
“Opimia, come tu avevi immaginato.”
“Opimia, dei del cielo! Eppure, in qualche modo me lo sentivo, è così bella.”
“Non è la sola; anche Floronia ha infranto il voto.”
Lucio Cornelio si alzò boccheggiando come un pesce. “Floronia! Impossibile.”
“Non ci sono dubbi, visto che ha già provveduto a uccidersi con le proprie mani. Così per adesso ignoriamo il nome del suo amante, ma non ci sfuggirà, puoi starne certo.”
Lucio Cornelio cominciò a camminare su e giù a passi lenti e misurati. Pensava alle due vestali che si erano macchiate di un crimine spaventoso rompendo la pace con gli dei. Era stato lui stesso, nella sua veste di Pontifex Maximus a prenderle per mano e a pronunciare le parole rituali previste dalla captio virginis, la presa delle vergini, conferendo loro la carica di vestale che le obbligava a trent’anni di verginità, ma che conferiva enormi privilegi per una donna. Potevano, infatti, muoversi in lettiga precedute dai littori e se un condannato le incontrava durante il loro percorso veniva automaticamente graziato. Alle vestali era consentito addirittura redigere un testamento ed essere sepolte nell’Urbe, perché la loro esistenza era così sacra che nemmeno le loro ceneri erano nefas.
Lucio Cornelio aveva ancora chiara nella mente la scena, quando subito dopo i voti erano state tagliate loro le chiome e appese a un albero: l’antico loto crinito.
Si trattava di un ordine antichissimo. La stessa Rea Silvia, madre di Romolo e Remo, era stata una vestale di Albalonga e a Numa Pompilio, uno dei mitici sette re, si faceva risalire l’istituzione di quell’ordine sacerdotale, fra i primi della città.
Ma adesso il momento era grave e a peggiorare la situazione c’era il ridicolo di cui lui rischiava di coprirsi, visto che l’amante di Opimia altri non era che il suo segretario, Fulvio!
Non vedeva l’ora di ritrovarsi al suo cospetto nel Comizio. Lui nudo, davanti a tutti, col collo immobilizzato da una forca, a subire la pena prevista per la blasfemia commessa: fustigato fino a morirne, il supplizio riservato agli schiavi. E il braccio che avrebbe guidato con violenza le verghe sarebbe stato proprio il suo, quello del Pontifex Maximum; così era previsto.
4)
Roma, 10 giugno 20…
La mattina seguente Fulvio si svegliò con un’erezione violenta fra le cosce. Il suo primo pensiero fu di avere sognato. L’umore appiccicaticcio che sentiva sul pube e tutto lì intorno induceva a pensare a una polluzione notturna, come quando era adolescente. Ma poi c’era quel profumo leggero, persistente, esclusivamente femmineo. E il ricordo della nottata ancora così nitido e vivo che era impossibile ritenerlo un’invenzione onirica del suo cervello. Il letto poi era disfatto, come solo dopo una battaglia combattuta senza esclusione di colpi, fra uomo e donna. Fra pene e vagina, mani, bocca e culo senza dimenticare nulla. Quella ragazza aveva fatto l’amore come se fosse stata a digiuno da secoli. Non ne aveva avuto abbastanza fino a quando lui era crollato esausto come un pachiderma recatosi a morire nel cimitero degli elefanti. Gli era sembrato che lei lo cercasse ancora, ma era solo un vago ricordo recepito appena, mentre la sua coscienza svaniva nel sonno.
Aveva una gran fame. Si poteva mangiare polipo in insalata, a colazione? Decise saggiamente di no.
Trascorse tutta la giornata ciondolando avanti e indietro nella sua nuova casa, sistemando piccoli dettagli rimasti in sospeso, come quadri da appendere, schizzi di imbiancatura da grattare via e altre rifiniture necessarie a rendere perfetto il suo infranto nido d’amore.
Verso il tramonto si stava apprestando a passare una tranquilla serata in solitudine, poi vide la ragazza comparire ancora, la stessa della sera precedente. Ebbe un tuffo al cuore, come se quel suo muscolo deputato ai sentimenti fosse precipitato dai piani più alti di un grattacielo.
Quella ragazza continuava a tacere il proprio nome, la notte precedente aveva solo, e quante volte, detto il suo: Fulvio, Fulvio, scherzando di continuo a pronunciarlo in latino. Chi era quella creatura fantastica, misterica e lussuriosa? Ma non era il momento di farsi troppe domande. La desiderava. Lei lo aveva travolto con la sua dirompente sensualità e adesso che la rivedeva capiva che non avrebbe potuto farne a meno, che non ne avrebbe avuto mai abbastanza.
Quanto alla stronza, era come se non fosse neppure esistita. Per la verità lei lo aveva cercato nel primo pomeriggio. Fulvio stava dormendo per recuperare energie. E l’aveva allegramente mandata a quel paese con molto gusto e tanta cattiveria.
5)
Roma 216 a.C.
“Sono stati consultati i libri sibillini, sai cosa riportano?”
La voce di Marco Claudio Pera sconvolse gli ordinati equilibri del Pontifex Maximus.
“Dimmi”
“Che un giorno Roma sarà conquistata dai galli e dai greci. Un tempo un oracolo lo aveva predetto.”
Lucio Metello lo osservò per un istante, indeciso su come replicare a quella velata accusa. Lui era la massima autorità in materia religiosa e avrebbe dovuto saperlo.
“Non basterà punire le vestali colpevoli, l’ira divina è a livelli terribili. Gli dei sono stati consultati, occorrono altre vite. Cosa pensi di fare, Lucio?”
Lucio Metello rimase di pietra. Sospirò afflosciandosi sulla sua sella curulis. Poi, come colpito da un’illuminazione, esclamò: “Seppelliremo una coppia di galli e di greci, vivi, nel pomerio. Così il destino si compirà. Quelle genti prenderanno per davvero possesso di Roma, anche se in maniera diversa.”
Marco Claudio Pera allungò le braccia in avanti, le mani distese come a volere respingere fisicamente una prospettiva del genere.
“Il popolo di Roma, aborre i sacrifici umani…”
“È già stato fatto qualcosa di simile, nel passato. E poi è per la salvezza della nostra stessa città; Annibale sembra un dio della guerra; immenso, imperscrutabile… Invincibile.”
Marco Claudio annuì in silenzio, mentre con lo sguardo esplorava il giardino velato dalle colonne del peristilio. Nel pomerio, il territorio dell’urbe compreso fra le mura, non poteva essere seppellito mai nessuno, a eccezione delle vestali, il cui corpo era sacro. Adesso, invece, d’improvviso si apprestava a ricevere genti straniere che avrebbero posseduto Roma senza averla realmente, forse il potente simbolismo sarebbe stato sufficiente a ingraziarsi il favore degli dei e a salvare l’Urbe.
6)
Roma 16 giugno 20…
Per tutte quelle sere la ragazza era tornata a trovarlo e ogni volta lo soffocava in un piacevolissimo abbraccio dei sensi.
Fulvio era troppo stanco per cucinare. Così di buon mattino aveva fatto spese per riempire la dispensa e il frigorifero vuoti. Ricordava di avere acquistato della piadina, la prese e la tagliò a metà. La farcì con del prosciutto ben stagionato e ne staccò un boccone grande come mezza mano.
Mentre trangugiava lo spuntino qualcosa prese a rodergli la mente. Aveva a che fare con la piadina, il sale, qualcosa di antico. Qualcosa che aveva studiato nel corso dei suoi approfondimenti sulla storia più lontana della sua città.
Gli venne in mente di colpo, come un fulmine a ciel sereno. La parola che stava lottando per emergere dalla nebbia dei suoi ricordi era: Mola salsa: la focaccia salata utilizzata nei riti religiosi della Roma antica, che si otteneva unendo il farro macinato al sale e all’acqua sorgiva.
Veniva offerta alle divinità. Distribuita in piccole porzioni ai fedeli, come atto di purificazione, oppure utilizzata per cospargere gli animali destinati al sacrificio.
I vestiti della ragazza misteriosa e la sua testa così acconciata avevano tormentato Fulvio stimolando una parte recondita delle sue conoscenze, che ora venivano fuori a gran voce.
Come aveva fatto a non pensarci prima? Prese un libro di storia. Scorse veloce le pagine, poi si fermò. L’immagine era quella. Una fotografia che ritraeva una statua raffigurante una vestale. Cercò di immaginarla a colori e l’immagine della ragazza venne a sovrapporsi. Lo stesso abito, l’acconciatura uguale, anche l’espressione aveva qualcosa di simile.
Si mise a leggere il testo, parlava delle vestali, le figlie sacre di Enea, sacerdotesse di un culto che si perdeva nella notte dei tempi; coloro che dovevano mantenere sempre acceso il fuoco, pena castighi pesantissimi. Al termine della lettura aveva tutto chiaro. Poteva immaginare la scena.
7)
Roma 216 a.C.
Portano Opimia attraverso la città. Legata come un cadavere, in una lettiga posta su un carro nero, velata da tessuti neri e trainata da cavalli anch’essi neri; tutti si ritraggono in silenzio e l’accompagnano muti, con una terribile costernazione. Non c’è spettacolo più agghiacciante, né giorno più lugubre per la città.
Il corteo è partito dalla casa delle vestali, costruito nel foro, a forma di capanna, e percorre la cresta del Quirinale giungendo presso porta Collina, nel campus scelleratum, dove è stata ricavata una stanza sotterranea. Nel sepolcro si trovano una tavola imbandita, una fiaccola accesa, pane, acqua, latte e olio, la vestale è sacra alla Dea e non si può fare morire di fame un corpo consacrato ai riti più solenni. E comunque va seppellita nel pomerio perché, ancora adesso, dopo il sacrilegio commesso, dopo avere rotto la pace con gli dei, il suo rimane sempre un corpo che non sarà mai nefas, mai.
Il pontefix Maximus declama alcune preghiere segrete e alza le mani al cielo. Opimia viene sciolta dai legacci. Il sacerdote la copre e mentre la vestale scende tutti volgono il capo all’indietro. La scala viene subito ritirata. Come tetto del sepolcro viene posta una grossa lapide e una enorme quantità di terra riportata dagli schiavi, quasi che la sventurata possa risalire e fuggire con l’aiuto della Dea. Ma Opimia adesso è rinchiusa, e lo sarà per sempre.
8)
Roma 16 giugno 20..
Il denaro non era un problema. Fulvio assoldò un’intera squadra di operai. Scavarono in cantina fino a sera e venne alla luce una lastra di grosse dimensioni. Lucio promise loro di raddoppiare la paga se l’avessero sollevata subito. Dopo un paio d’ore, in un turbinio di bestemmie, la pietra venne scalzata lasciando intravedere una stanza sotterranea.
Lucio si precipitò e quasi cadde nel buco. Gesticolando pretese una scala. Ne discese i gradini e si trovò solo nell’antro deserto.
Il tanfo di morte era sfumato da secoli. Vide subito lo scheletro sdraiato compostamente per terra, ancora avvolto da vesti che un tempo dovevano essere state candide, ma che adesso erano poco più che fetide ragnatele. Il tavolo era conservato, sebbene poggiasse solo su tre gambe. Si accorse di alcuni segni che dovevano essere una scritta. Si avvicinò.
Prima di morire la ragazza si era scorticata le vene dei polsi con le unghie e aveva utilizzato il sangue per scarabocchiare un graffito sul tavolo.
La frase diceva: tibi in omne tempus, io e te per sempre… e poi sotto due nomi: Lucius et Opimia.
9)
Roma 16 giugno 20…
Si mise a letto posseduto da una tristezza indefinita. Pensava a una ragazza seppellita viva duemila anni addietro, al destino atroce che aveva subito per amore. Aveva trovato il corpo di quella fanciulla e l’aveva sepolto in giardino. Si chiese se adesso lei sarebbe ritornata, o se invece avesse trovato finalmente la pace. Era venuta la prima volta il nove di giugno, l’inizio delle celebrazioni delle vestalia, i giorni sacri alla loro Dea, quando il tempio veniva aperto e le sacerdotesse preparavano la mola salsa. Mentre la fine era stata proprio ieri, il quindici.
Il ponentino aveva appena cominciato a respirare il suo mormorio, le tende si agitavano inquiete. Vide il contorno di un’ombra muoversi. Chiamò quel nome che adesso conosceva: Opimia! Ma si accorse di avere solo gridato inutilmente al vento.