I maestri di Deodato
Deodato collaborò anche con Bruno Corbucci in alcuni film di genere comico-musicale (musicarelli). Il migliore è di sicuro Marinai in coperta con Little Tony, Ferruccio Amendola, Jimmy il Fenomeno e Tino Scotti. Si tratta di una pellicola costruita su misura per le capacità canore di Little Tony, popolarissimo nel 1963 e considerato la risposta italiana a Elvis Presley. Ma non si tratta della solita storia inconsistente infarcita di canzoni, qui la comicità è genuina e il film diverte, al di là della musica. Deodato era un punto fisso per i Little Tony movie di Bruno Corbucci. Aiuto regista in Riderà (Cuore matto) del 1966, primo film musicale del cantante che comprende tutti i suoi grandi successi (Riderà, Cuore matto, Perdonala, Il ragazzo col ciuffo…) e lo sarà pure in Peggio per me… meglio per te (1967). Deodato girerà poi un suo film con protagonista Little Tony: Vacanze sulla costa Smeralda. Deodato ricorda con piacere le esperienze con Bruno Corbucci perché era un regista che lasciava molta libertà sul set e valorizzava gli assistenti.
Citiamo soltanto l’influenza che possono aver avuto sul nostro giovane regista autori come Luigi Capuano, Gianni Puccini e Massimo Franciosa, con i quali Deodato ha collaborato per pochi film mitologici e sentimentali. Parliamo invece di chi possiamo considerare il suo vero maestro: Antonio Margheriti (Anthony M. Dawson, come si faceva chiamare seguendo una moda dell’epoca). Deodato lavorò con Margheriti alla realizzazione di Danza macabra, un capolavoro dell’horror anni Sessanta che vede l’affascinante Barbara Steel nel ruolo del fantasma innamorato. La storia è tratta da un racconto di Edgar Allan Poe ed è un film che piace anche a Mereghetti che lo definisce uno dei migliori gotici italiani dell’epoca, dove l’eleganza classica della messa in scena fonde il romanticismo macabro con temi sottilmente morbosi, creando un clima sinuoso e suggestivo, senza il lieto fine d’obbligo. Deodato e Mereghetti sono insieme anche ne I Diafanoidi vengono da Marte, un buon lavoro di fantascienza girato come sempre con poche lire. Margheriti è stato uno dei primi in Italia a cercare di fare fantascienza, aveva già realizzato Space Man (1960) e Il pianeta degli uomini spenti (1961), lavori oggi del tutto fuori epoca che si possono vedere solo per apprezzarne l’importanza storica. Era fantascienza realizzata in studio con pochi mezzi e tanto ingegno, i dialoghi lunghi e le sequenze interminabili che si sviluppavano per le stanze di un’improbabile base spaziale appesantivano molto la narrazione. I Diafanoidi è la versione povera de L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel, messa in scena con povertà di mezzi ma ben realizzata. C’è il tema fanta-horror della zombizzazione dei corpi umani da parte dei diafanoidi, entità immateriali visualizzate da un fumo verdolino. Un film ancora da vedere che ha per protagonista la stazione spaziale Gamma che ritornerà in successivi lavori di Margheriti come I criminali della galassia (1966) e Il pianeta errante (1966).
Deodato collaborò ancora con Margheriti, sia per il cinema che per la televisione, alla realizzazione di pellicole fantascientifiche e dal maestro apprese l’ingegno creativo della realizzazione di effetti speciali con poco dispendio di mezzi.
Ursus il terrore dei Kirghisi lo possiamo definire un lavoro a mezzo tra Deodato e Margheriti, anche se viene accreditato a quest’ultimo. In realtà lo ha girato Deodato e Margheriti si è limitato a supervisionarlo. Se stiamo alle parole di Margheriti lo dobbiamo assegnare a Deodato senza mezzi termini. “Non è un film mio” ci confidò alcuni anni fa il Maestro, scomparso nel 2002 “io l’ho soltanto terminato e non l’ho mai visto. Lo ha diretto tutto il mio assistente e io non dovevo che girare qualche piccola sequenza”. Margheriti nello stesso periodo era impegnato con Il crollo di Roma e non aveva tempo per fare due cose insieme. Fu così che passò Ursus a Deodato che lo diresse quasi completamente. Margheriti si limitò a dargli una mano sul set, poi firmò la pellicola per esigenze di produzione. Il suo nome era già noto anche negli Stati Uniti e con una firma importante sarebbe stato più facile vendere il film. La parte finale, però, è opera di Margheriti che intervenne per velocizzare la consegna del prodotto nei tempi imposti. La pellicola si può ascrivere a pieno titolo al così detto filone peplum, un genere di cinema che Deodato frequenta per la prima volta e che riprenderà solo nel 1987 con The Barbarians. Il peplum ha avuto molti adepti in Italia sin dai tempi del cinema muto ed è esploso come genere dopo il Quo vadis? di Enrico Guazzoni del 1912. Ricordiamo solo i cicli di Maciste (1915-1918), Sansone (1918 -1920), Ercole e poi Ursus (1920). Pellicole ed eroi del peplum sono stati ripresi in tempi moderni con il rifacimento del Quo vadis? a opera di Mervyn Le Roy (1951) e di Franco Rosi per la televisione (1985). Il peplum vede il suo periodo di maggior splendore negli anni Sessanta – Settanta con i film su Ercole di Pietro Fancisci, Vittorio Cottafavi, Mario Bava e Giorgio Ferroni e su Maciste di Giacomo Gentilomo, Riccardo Freda e Umberto Lenzi. Ursus è un personaggio minore, come minori sono stati i cicli su Goliath e Sansone, Thaur, Spartacus, Ator e le varie serie dei gladiatori.
Vediamo intanto di chiarirci le idee sul significato dell’espressione peplum e diciamo (con il Cammarota) che il nome deriva dal peplo, la veste indossata dalle donne greche, quella con agganci sulla spalla, una cintura ai fianchi e uno strascico. Il termine peplum lo usarono per primi i critici francesi (Robert Benayoun, Fereydun Hoveyda…) e il citato M.D. Cammarota junior nel testo Il cinema peplum (Fanucci, 1987). La veste maschile era il chitone (tunica lunga o corta) ma ormai è tardi per cambiare e si deve fare i conti con questa definizione che comprende tutte le pellicole che hanno qualcosa di mitologico, fantastorico, epico… Accettiamo dunque il termine peplum che ci pare esaustivo e sintetico al tempo stesso.
Venendo a Ursus il terrore dei Kirghisi diciamo che è il settimo film di Ursus, al quale ne seguiranno altri due nel 1965. La serie aveva presso il via con una coproduzione italo-spagnola nel 1960 proprio con la pellicola Ursus. Purtroppo i film di Ursus nascono già perdenti e con il destino segnato dalla grande popolarità di Maciste ed Ercole. Non riescono mai a decollare, frenati da una fredda accoglienza da parte del pubblico più intellettuale (che preferisce Ercole) e anche da quello di bocca buona (che fa il tifo per Maciste). In ogni caso quando ci troviamo di fronte a una serie di film con lo stesso protagonista di solito il primo film è sempre il migliore e anche Ursus non fa eccezione. L’Ursus del veterano Carlo Campogalliani (che annoverava nel cast Ed Fury, una giovanissima Moira Orfei e il bravo Mario Scaccia) è un personaggio preso da Quo Vadis?, un eroe mitologico che forse a causa delle sue discendenze troppo letterarie non avrà successo popolare e non accenderà la fantasia dei giovani. Il film si ricorda soprattutto per la scenografia stravagante, per gli avvenimenti onirici e stupefacenti che si susseguono. Meno indimenticabili gli altri (anche se nel mio immaginario di ragazzino che fremeva per le gesta di Ursus li ricordo tutti con piacere): La vendetta di Ursus (1961) di Luigi Capuano, Ursus e la ragazza tartara (1961) di Remigio Del Grosso, Ursus nella valle dei leoni (1962) di Ludovico Bragaglia, di cui abbiamo già parlato, Ursus gladiatore ribelle (1962) di Domenico Paolella, Ursus nella terra del fuoco (1963) di Giorgio Simonelli. Il nostro Ursus, il terrore dei Kirghisi di Anthony M. Dawson (così recita la locandina) e Ruggero Deodato giunge nel 1964 ed è recitato da un cast di attori non molto noti: Reg Park, Ettore Manni (è anche il produttore della pellicola), Mireille Granelli, Furio Meniconi, Lilly Mantovani e Maria Teresa Orsini. La fotografia è di Gabor Pogany, la distribuzione niente meno che della Titanus. Vi sconsigliamo di fidarvi del Mereghetti per quel che concerne la trama perché prende l’ennesima cantonata quando dice che Ursus (Reg Park) è accusato di essere un mostro spietato che compie stragi notturne mentre il vero colpevole è la regina Aniko (Mireille Granelli) che si trasforma in belva grazie a un filtro magico. Qualcosa di vero c’è ma il film non è questo e forse il critico milanese non ha fatto la fatica di vedere la pellicola prima di commentarla. Il film è un tantino più complesso. Ursus è innamorato di una donna che crede Aniko, la regina dei Kirghisi, ma viene raggirato da una strega che ha preso il posto della vera Aniko (l’umile Kato, interpretata da un’affascinante Maria Teresa Orsini). La strega possiede un filtro magico che somministra con l’inganno prima a Ursus e poi a suo fratello, trasformandoli in una belva sanguinaria che tutti chiamano l’Avvoltoio. La storia pare una rivisitazione de Lo strano caso del dottor Jekyll e mister Hyde, però qui il filtro che trasforma i buoni in cattivi non viene assunto consapevolmente ma con l’inganno della strega. Si tratta di un film storico che si sbilancia sul lato fantastico ed è proprio questa la parte da salvare di una pellicola che resta un lavoro legato al gusto dell’epoca. Una bella atmosfera horror pervade le scene che vedono all’opera l’Avvoltoio. Il mostro indossa un grande mantello nero che lo mimetizza nel buio della notte, ha le braccia e il petto pelosi, un volto orribile, trasfigurato, quasi da licantropo. L’importanza di questa pellicola risiede nel tentativo di contaminare il peplum con l’horror, come aveva fatto Bava in Ercole al centro della terra (1961) che avrebbe dovuto chiamarsi Ercole contro i vampiri. In comune con il film di Bava c’è anche un ottimo Reg Park nella parte dell’eroe forzuto. Per concludere con la trama diciamo che la pellicola è caratterizzata dalla solita lotta tra il buono (Ursus) e il cattivo (Zereteli, il capo dei Kirghisi interpretato da un buon Furio Meniconi) che si affrontano in un corpo a corpo finale dopo molte scene tipiche del cinema avventuroso. Non mancano galoppate, uccisioni, combattimenti con spade e all’arma bianca, villaggi che prendono fuoco. Le scene di battaglia sono molto curate e ricche di comparse, i costumi sono ben realizzati e la scenografia è suggestiva. La recitazione è sempre all’altezza. Molte le scene girate di notte con una fotografia buia e cupa. Il finale vede un crescendo di tensione e di emozioni, con la strega che trasforma ancora una volta Ursus nell’Avvoltoio e lo manda a uccidere Kato. La strega voleva un automa da comandare, un essere perverso dotato della forza di Ursus, ma del tutto in balia dei suoi poteri. Il fratello di Ursus risolve la situazione e scopre l’inganno spingendo la strega al suicidio. Alla morte della perfida donna il liquido stregato viene versato sul pavimento e tutto torna alla normalità. Ursus si ritrova tra le braccia la bella Kato e adesso sa che è lei la vera Aniko e invece di ucciderla la bacia. Spettacolare, da un punto di vista scenografico e degli effetti speciali, la sequenza della diga aperta da Ursus che spinge il fiume verso le fiamme salvando il villaggio. Un fanta-horror dai contenuti storico-mitologici che si gusta con piacere ancora oggi, a distanza di quasi quarant’anni. E non è poco.
Dopo questo film la serie di Ursus decade e va a esaurire con Gli invincibili Tre (1965) di Gianfranco Parolini ed Ercole, Sansone, Maciste ed Ursus gli invincibili (1965) di Giorgio Capitani. Due pellicole mal girate e peggio distribuite che affossarono definitivamente le gesta dell’eroe invincibile.
Per maggiori particolari su Deodato e il cinema peplum vi rimandiamo all’esauriente appendice curata da Maurizio Maggioni.
Deodato ha collaborato anche a Giulietta e Romeo di Riccardo Freda, una coproduzione italo-spagnola tutt’altro che memorabile. Il film viene dopo lavori di ben altro spessore girati da George Cukor (1936), Peter Ustinov (1961) e in Italia da Renato Castellani (1954). Questo è un Giulietta e Romeo recitato da un cast di attori non memorabile (Geronimo Meyner, Rosemarie Dexter, Carlos Estrada, Umberto Raho) e sullo schema dei film di cappa e spada. Importante la collaborazione con un regista che è stato tra i maestri del fantastico e dell’horror italiano (I vampiri del 1956 e Caltiki del 1959).
Il terzo occhio di Mino Guerrini (per l’occasione si firmava James Warren) è un film memorabile che ci piace pensare come fondamentale nel futuro sviluppo artistico di Deodato. Tra gli interpreti troviamo un ottimo Franco (si fa chiamare Frank ma fa lo stesso) Nero e un’imprevista Marina Morgan (non ancora giornalista televisivo). Si tratta di uno dei primi film italiani sulla figura del serial killer che se da un lato si rifà molto alle atmosfere alla Hitchcock di Psycho, dall’altro mette in scena atmosfere morbose e claustrofobiche davvero insolite per il periodo storico. Joe D’Amato (Aristide Massaccesi) nel 1979 ne farà una riedizione sotto il titolo di Buio omega, lavoro a tinte forti condito di eccessi splatter che si basa molto sulla struttura del film originale. Crediamo che anche Deodato si sia ispirato a questo film quando ha girato due slasher movies come La casa sperduta nel parco e Camping del terrore. Senza dimenticare che i maestri americani di queste due pellicole rispondono al nome di Stanley Kubrick, Wes Craven e Sean S. Cunningham. Ma ne parleremo a suo tempo.
(2/2 – continua)