Prima dei Cannibal movies
La produzione minore 1968 – 1976
Gli anni Sessanta sono a tutti gli effetti un momento decisivo per il cinema italiano, dal mitologico al western, passando per l’horror e il thriller, molti generi conoscono una nuova vita o un’estinzione definitiva proprio tra l’inizio e la fine di un decennio cruciale. L’erotismo, non ancora codificato in un filone o in un genere vero e proprio, inizia a contaminare molte pellicole. Tra gli studiosi di cinema c’è chi fa nascere il genere erotico con i film di Blasetti (Europa di notte, Io amo, tu ami) e Jacopetti (Mondo cane, La donna nel mondo…) ma in realtà situazioni di erotismo si riscontrano anche in generi insospettabili quali il western o il bellico, per non parlare di sottintesi sessuali sempre più espliciti contenuti in molte commedie. La Romana Film di Fortunato Misiano, casa di produzione attiva nel cinema di genere sin dal 1947, comincia a sfornare una serie di pellicole che forzano i confini angusti e controllati dell’erotismo su pellicola. Ed è proprio per incoraggiare questa tendenza che dalle fucine della Romana Film escono bizzarri prodotti oscillanti tra esotismo ed erotismo come Gungala la vergine della giungla (1967), Samoa regina della giungla (1968), Tarzana sesso selvaggio (1969). Molto simili nella trama e costruiti intorno alle nudità, molto discrete per la verità, delle avvenenti protagoniste. Due dei film citati sono diretti con l’abituale pseudonimo di James Reed da Guido Malatesta (1919 – 1970), regista attivo nel peplum e nel mitologico. Nello stesso filone si inserisce Gungala la pantera nuda, girato da Deodato nel 1968 con lo pseudonimo di Roger Rockfeller per un’altra casa di produzione. Si tratta di una sorta di sequel di Gungala la vergine della giungla (1967) di Romano Ferrara (si firmava Mike Williams) su soggetto di Mino Roli. Il primo film prende spunto da una ricerca di uranite in Africa, con i protagonisti Fleur (Linda Veras) e Chandler (Conrad Loth) che si imbattono in Gungala (Kitty Swan), una donna bianca che vive nella giungla e porta al collo un diamante azzurro. Questa pellicola è la prima di una breve serie di film sexy africani che vedranno impegnate due attrici che faranno la futura commedia scollacciata italiana: Edwige Fenech (Samoa regina della giungla) e Femi Benussi (Tarzana sesso selvaggio). Tutti film che a livello di scene erotiche promettono molto di più di quel che mantengono. La sceneggiatura di Gungala la vergine della giungla per Mereghetti è a livello zero. E questa volta non possiamo dargli torto. Ci sono molti inserti documentari per allungare il brodo e il piatto forte è la bella olandese Kitty Swan che corre per la giungla coperta da foglie o stole di paglia per evitare le forbici dei censori. E se a un film come questo togliamo la bellezza della protagonista resta davvero poco.
Kitty Swan torna a vestire i panni di Gungala nel film di Deodato.
Il cast di Gungala la pantera nuda comprende: Angelo Infanti, Jeff Tangen, Michael Cendali Pignatelli, Tiffany Anderson, Archie Savage, Alberto Terrani (doppiato da un giovane Renzo Montagnani) e Consalvo Dell’Arti. Questa pellicola è il seguito delle avventure della bella selvaggia africana, che alla fine della prima storia era stata presentata come una ricca ereditiera figlia di un re dei diamanti.
In questo film assistiamo al viaggio esotico della cugina Julie (Pignatelli) in compagnia di Chandler (Tangen) e un’immancabile guida (Infanti). Gli attori che interpretano i vari personaggi non sono gli stessi del lavoro di Ferrara e l’unica superstite del vecchio cast è la bella olandese che tradisce le attese del pubblico maschile e non si spoglia più del dovuto. La vediamo in vesti discinte solo mentre scorrono i titoli di testa e lei corre libera per la savana, ma anche qui di primi piani senza veli neanche a parlarne. Durante il film Gungala si spenzola tra gli alberi di una giungla ricostruita negli stabilimenti De Paolis e indossa un costume rosso fatto di liane intrecciate. Sono gli stessi protagonisti a spiegare come è fatto il costume di Gungala durante una scena con la bella selvaggia protagonista. Deodato o Ferrara devono aver pensato che poteva apparire strano che una donna nata e vissuta nella giungla vestisse un bikini rosso comprato in un supermercato! Il film risente della sceneggiatura approssimativa di Romano Ferrara (lo stesso autore del primo Gungala) e la pellicola procede tra scene di gelosia familiare e diamanti contesi, senza impennate narrative. Poche cose sulla trama. La cugina è interessata soltanto al diamante e così il fidanzato, la guida invece è un ispettore assicurativo in incognito. Poi c’è un arabo fanatico dell’unità nazionale, che anche lui vuole derubare Gungala del diamante e quando ci riesce finisce nelle sabbie mobili. La scena delle sabbie mobili è girata in studio ma è molto realistica. Intanto la cugina si impossessa del diamante e si veste come Gungala, però viene catturata da una feroce tribù di guerrieri ed è la donna della giungla che la libera in groppa a un elefante. C’è pure il tempo per una love story senza speranza tra l’ispettore e la selvaggia. Lei impara a dire il suo nome, lo tiene per mano correndo per la savana. Ma il loro amore non può avere futuro. Inevitabile il finale struggente.
Deodato fu chiamato dalla produzione a sostituire Ferrara e si trovò in mano un film già fatto che andava soltanto girato, ebbe poca autonomia e restò intrappolato in una storia senza nerbo.
“Rimpiazzai Romano Ferrara perché lui non sapeva dirigere una scena con le sabbie mobili e la produzione mi offrì di girare l’intero film. Non era facile venirne fuori, perché Ferrara in tre settimane aveva fatto soltanto parecchia confusione. Aveva girato scene rapidissime con quattro elefanti, un’altra in una capanna dove c’era una bambina che si masturbava. Praticamente niente o quasi”. Dice Deodato, che girò buona parte del film negli stabilimenti De Paolis a Roma, ma pretese di integrare il lavoro con sequenze realizzate in Africa. Poi invertì i ruoli dei protagonisti, fece fare ad Angelo Infanti l’eroe e a Jeff Tangen il cattivo. “Quell’americano era un cane, un biondino orribile…”, confessa Deodato. Il film risente del tempo passato, è un lavoro molto datato. Le cose da salvare sono le sequenze africane quasi documentaristiche dove si fa notare la differenza tra l’Africa civilizzata e i villaggi tribali. Anche le scene iniziali e le parti centrali, quelle con Gungala che corre seminuda, libera per la savana, sono da ricordare. Il finale romantico con la bella selvaggia che saluta il suo amore impossibile è ancora un altro bel momento di cinema, pure se ha il sapore del drammone sentimentale. Poi ricordiamo le parti con gli animali in primo piano: zebre, serpenti (ottim la sequenza in cui la guida ne trova uno nel suo letto), aironi, bufali, ippopotami, uccelli multicolori. L’influenza di Gualtiero Jacopetti e del suo Africa addio (1966) si fa sentire, pur se Deodato è originale nelle riprese dal vivo. Sono queste le sequenze che fanno intravedere il futuro mestiere, la passione per il selvaggio, per le scene di vita nella giungla e all’interno dei villaggi. Accanto a queste parti positive molte sequenze rasentano il trash. A puro titolo di esempio si veda l’attacco dei selvaggi alla spedizione. La scena è girata in studio (come gran parte del film) e siccome mancano i figuranti di colore si ricorre all’espediente delle comparse italiane truccate da negri. L’effetto finale è involontariamente comico. Il nero del trucco è così nero da essere palesemente irreale. Nelle stesse sequenze si sfiora il ridicolo con un figurante morto che, non credendosi inquadrato, si toglie una collana dal collo. Infine i riti tribali girati in studio sono fumettistici e stereotipati, ci sono dei finti negri che non vanno a tempo con la musica. Forse sono scene che aveva già girato Ferrara e Deodato se le è trovate appiccicate nel film, magari non ha avuto neppure il tempo di riguardarle. Altra cosa fastidiosa sono i negri che dicono Sì buana e parlano con voce nasale sostituendo la p con la b. Sono i negri del cinema anni Sessanta, al tempo era normale, venivano raffigurati così. Ottimo il personaggio di Gungala, con quegli occhi verdi, luminosi, da pantera, una donna selvaggia che ruggisce invece di parlare, ma che è capace di innamorarsi e di piangere (nel finale) per la prima volta nella sua vita. Gungala vive in compagnia di alcuni animali, un piccolo zoo costruito alla De Paolis con un leone, una scimmia e un paio di pappagalli. Parla con gli animali, li comanda, annusa l’uomo, lo mordicchia, infine lo porta con sé al suo rifugio. Qui lo incorona con bucce di banana e gli mette al collo una collana di foglie. Gungala si comporta come una belva ma prova sentimenti da donna. Buona la parte girata nella savana dove l’ispettore della compagnia di assicurazioni, che indaga sulla presunta morte di Gungala e dello zio, fotografa la bella selvaggia in uno sfondo popolato da zebre e ippopotami. Tutto quello che è stato girato da Deodato in presa diretta in Africa è di buon livello, il resto è da dimenticare. Un’idea originale del film è quella dello scontro tra le due donne, che a un certo punto si vestono con lo stesso costume rosso fatto di liane intrecciate e finiscono quasi per confondersi. Si riconoscono solo perché la cugina non ha l’occhio fiammeggiante, il diamante che Gungala porta sempre al collo. Il diamante è l’elemento su cui ruota la trama del film e alla fine è l’ispettore a recuperarlo dalle mani dell’arabo, mentre lui sprofonda nelle sabbie mobili. A questo punto la finta guida confessa la sua vera identità e restituisce la pietra a Gungala. C’è appena il tempo per un inseguimento da parte degli africani con Gungala e gli animali che aiutano la spedizione a fuggire. Biuono il finale con gli animali sullo sfondo e la selvaggia che piange mentre la zattera si allontana e partono le note di una struggente colonna sonora.
Su Kitty Swan, la bella protagonista, Deodato dice durante la citata intervista a Nocturno: “Kitty era deliziosa. Dopo il mio film ne fece un altro che incassò un sacco di soldi… e poi andò a fuoco! Fece un film a Bora Bora dove veniva messa su di un rogo per girare una scena e prese fuoco davvero. Si ustionò tutta tranne il viso: rovinata completamente! Lei all’epoca stava insieme a un ragazzo che la sposò lo stesso. Poi non ne ho saputo più niente”.
Per completare una rapida analisi sul filone sexy africano diciamo che Samoa regina della giungla venne girato nel 1968 da Guido Malatesta, su soggetto e sceneggiatura di Gianfranco Clerici, con un budget così irrisorio che lo dovettero infarcire di documentari naturalistici sul Borneo per garantire una durata di novanta minuti. Il film, nonostante si avvalga della presenza di Edwige Fenech e Femi Benussi, non accontenta neppure la vista dello spettatore e non vale assolutamente i soldi del biglietto. Colonialista, improbabile, mal recitato e peggio girato. Molte sequenze sono in studio e i pochi esterni sono stati filmati in breve tempo per risparmiare. Da segnalare che il film rappresenta il debutto italiano per la bella attrice franco-algerina Edwige Fenech.
La coppia Malatesta-Clerici si ripete nel 1969 con Tarzana sesso selvaggio, che fa il verso al film di Deodato copiando lo spunto della ricca ereditiera perduta nella giungla (Tarzana-Benussi) e imbastendo il solito scontro tra buoni e cattivi in mezzo alla foresta. Chi cerca solo erotismo ed esibizioni di bei corpi femminili non resterà deluso perché sia Femi Benussi che Franca Polesello sono sfruttate al meglio delle loro potenzialità. Poche le scene girate in Africa. Pessima la recitazione e storia decisamente debole. Il film si ricorda per essere il primo che vede Femi Benussi nelle vesti di protagonista.
Femi Benussi, nella citata intervista rilasciata a Cine 70 del marzo 2002, afferma: “Erano film che si facevano con pochi soldi, tutti girati negli stabilimenti della De Paolis. Ma gli animali erano veri, li portavano dal circo: il leoncino piccolo c’era, l’elefante c’era e c’era pure lo scimpanzé… In Samoa la regina della giungla c’era la Fenech. Che aveva un bel viso, un bel seno, era già sicura di sé, aveva grinta, non era spaesata neanche un po’ e si capiva già che la sua avventura nel cinema non sarebbe finita lì”.
Meno rilevanti altre due pellicole di imitazione che cavalcavano l’onda del successo della serie Gungala. La prima è Luana la figlia della foresta vergine (1968), diretta e prodotta da Roberto Infascelli con protagonista la vietnamita Mei Chen. La seconda è Eva la venere selvaggia (1968) diretta da Roberto Mauri con la bella brasiliana Esmeralda Barrios, molto attiva nel cinema italiano anni Settanta.
In definitiva questo mini filone sexy africano non ha lasciato che quattro modesti film, tra questi il lavoro di Deodato non è dei peggiori, considerando che il nostro ha trovato la trama già scritta.
Nel 1969 Deodato gira altre due pellicole: Zenabel e I quattro del Pater Noster. Non sono pietre miliari nella carriera del regista.
Zenabel è una coproduzione italo-francese diretta da Nicola Parenti (lo stesso di Fenomenal) che rientra nel filone cappa e spada erotico. Il film è conosciuto anche con il sottotitolo: Davanti a lei tremavano tutti gli uomini. In Francia lo intitolarono: Faut pas jouer avec les vierges e fu lanciato con lo slogan: “Arriva Brancaleone in gonnella”. Scritto e sceneggiato da Ruggero Deodato, Antonio Raccioppi e Gino Capone. Fotografia di Roberto Reale, musiche di Bruno Nicolai, scenografie di Elena Ricci.
Zenabel si ricorda soprattutto per la bellezza di Lucretia Love (Zenabel), Elisa Mainardi e Fiammetta Baralla (le amiche di Zenabel). Fanno parte del cast Mauro Parenti, Lionel Stander, John Ireland, Christine Davray, Fiorenzo Fiorentini, Nassir Cortbawi, Luigi Leoni. Il film è girato interamente in Alta Maremma, nella zona di Viterbo, alcune scene si svolgono nella stupenda cornice dei giardini di Bomarzo e altre davanti al sagrato della chiesa romanica di Tuscania. Ci sono alcune sequenze sul lago di Bracciano.
La storia si svolge nel 1627, lo scenario è l’Italia meridionale al tempo della dominazione spagnola. Zenabel ci viene presentata come una femminista ante litteram ribelle e decisa che non rinuncia alla sua femminilità. Insieme alle amiche cattura due guardoni che spiavano il loro bagno nel fiume, lega gli uomini dietro a un carro e li trascina in paese. I due sono esposti al pubblico ludibrio. Le battute si sprecano. “Sei costretta ad andare a caccia di uomini, Zenabel?” Fa uno. “A questo porta il modernismo!” aggiunge un altro. Si scatena una lite tra donne e uomini ed è Zenabel che la fomenta con le sue idee rivoluzionarie. Il film è soprattutto comico, ha ben poco di erotico, qualche seno nudo, niente più, visto adesso pare un film per ragazzi.
La trama prende corpo quando il patrigno di Zenabel, credendosi in punto di morte, le dice che in realtà non è suo padre. “Tu sei una duchessa” confida “tuo padre è stato ucciso dal barone Don Alonzo, subito dopo la sua morte io mi sono occupato di te e tuo fratello è stato affidato a una balia”. Poi le consegna un sigillo a dimostrazione del titolo nobiliare e le dice che anche il fratello ne possiede uno. Zenabel parte alla guida di una pittoresca armata Brancaleone in gonnella, un vero e proprio esercito di donne, decisa a vendicare il padre e a riprendersi il ducato. Insieme a lei ci sono due uomini: Pancrazio (un ottimo Lionel Stander) e Baldassarre (Luigi Leoni) che non è poi così uomo. Sulla loro strada incontrano il bandito Gennaro (Mauro Parenti) che si unisce alla lotta contro il barone. Il personaggio di Gennaro è divertente. Si tratta di un brigante sfaticato e dormiglione che non vuole troppi problemi ma che all’occorrenza sa il fatto suo. A un certo punto sconfigge anche Zenabel in duello e deve subire la giocosa ritorsione del gruppo di donne. Zenabel lo crede il fratello che sta cercando ma sbaglia: Gennaro ha rubato lo stemma ducale. Il fratello di Zenabel è Baldassarre, l’omosessuale. Singolare l’incontro con Don Alonzo (John Ireland), il vizioso barone, che per passare il tempo organizza la rituale Sagra delle vergini. Il barone prima misura con una coppa il seno delle partecipanti per valutarne perfezione e rotondità, poi libera le donne nella foresta e le fa inseguire da una torma di cani. Una specie di caccia alla volpe con le ragazze al posto degli animali che Zenabel manderà in malora. Don Alonzo medita la vendetta nei confronti della donna, infine riesce a catturarla e a portarla al castello. Ma è ancora Zenabel a colpire. Prima si finge innamorata di Don Alonzo e poi durante un rapporto sessuale lo castra con una trappola per topi inserita nella vagina. A questo punto entra in scena l’esercito delle donne che vince la battaglia grazie all’aiuto del mago Cecco e dei suoi piccioni bombardieri. Il finale è spassoso. Zenabel viene acclamata duchessa e in un impeto di femminismo come primo atto di governo decreta aperta la caccia al vergine, rendendo agli uomini pan per focaccia. Il bandito Gennaro decide di tornarsene in montagna perché la vita di corte non fa per lui, ma quando vede Zenabel cavalcare nuda nella foresta non può fare a meno di isenguirla. Prima della parola Fine sullo schermo campeggia la parola Fermati a caratteri cubitali. I due resteranno insieme.
Non vi fidate di quel che dice Marco Giusti su Stracult (op. cit. pag. 854) quando giudica il film “violento e infarcito di pesanti scene di sesso e di parti troppo gore per il gusto del tempo”. Solo chi non ha visto Zenabel e ne parla per sentito dire può lasciarsi andare ad affermazioni simili. La pellicola è per tutti. Di sangue neanche a parlarne e il sesso è appena accennato. Tempo fa rividi Zenabel in compagnia di mio figlio che al tempo aveva soltanto sei anni e si divertì un mondo. Il film è tratto da un fumetto erotico in voga in quel periodo ma è molto più castigato della versione cartacea. Bruno Corbucci fece un’operazione simile e girò Isabella, duchessa dei diavoli, personaggio ideato da Sandro Angiolini e Giorgio Cavedon, ma Zenabel è più ricco di spunti comici che di sesso e la presenza di Lionel Stander è una garanzia. Da citare, a titolo di curiosità, che Lucretia Love al tempo era la moglie del produttore Nicola Parenti.
“Mi divertì molto fare Zenabel. Peccato che in Italia lo distribuirono poco e male. Sono in pochi ad averlo visto. In America è andata meglio e lo lanciarono a dovere. Poi c’era Lionel Stander che era un tipo originale. Non aveva mai voglia di girare perché aveva caldo, però se aveva due o tre donne nude accanto saltava subito in piedi…”, ricorda Deodato. Resta il fatto che ancora adesso non è facile reperire Zenabel in italiano e si deve ricorrere a copie duplicate sul mercato dei collezionisti. Si trova su Amazon la versione tedesca.
I quattro del Pater Noster è una parodia del cinema western all’italiana come lo faceva Sergio Leone e ricorda in parte il precedente I quattro dell’Ave Maria. È un film western comico che si avvale della bravura di attori come Paolo Villaggio, Lino Toffolo, Enrico Montesano, Oreste Lionello, Rosemarie Dexter, Mariangela Giordano e Sal Borgese. Il film è girato interamente a Roma negli stabilimenti della Elios, su soggetto di un giovanissimo Maurizio Costanzo che si avvale della collaborazione di Augusto Finocchi e Luciano Ferri. Le musiche sono di Luis Enriquez Bacalov, la fotografia di Riccardo Pallottini e le scenografie di Cesare Monello e Pino Aldrovandi. La produzione è Speed Film.
I quattro dell’Ave Maria, girato l’anno precedente da Giuseppe Colizzi, era interpretato dal duo comico Terence Hill (Mario Girotti) e Bud Spencer (Mario Pederzoli) alle prese con il loro primo film. C’era anche un ottimo Eli Wallach, nella parte del pistolero ingaggiato dal direttore della banca per recuperare il denaro rubato da Hill e Spencer. Un buon film, non solo comico, godibile come western.
I quattro del Pater Noster è inferiore come trama e in realtà non ha altra ambizione che quella di prendere in giro il cinema western classico. Villaggio se la cava bene con le gag comiche, Montesano e Toffolo sono ben diretti. La storia invece è molto raffazzonata. Tre creduloni (Villaggio, Toffolo e Montesano) recuperano una refurtiva ma vengono accusati di essere i ladri e tradotti in prigione. Un bandito (Lionello) li fa scappare ma poi li deruba, loro cercano in ogni modo di recuperare il denaro ma non ci riescono. Nel corso del film truccano anche la roulette di una casa da gioco e vincono una discreta somma. Pestaggio finale come in ogni buon western, benché parodistico.
Mereghetti definisce il film: banale e scioccherella parodia western. Sappiamo quanto poco il critico milanese sia amante del cinema di genere. Secondo noi, da un punto di vista prettamente comico, il film non è riuscito male perché diverte e le battute dei bravi attori comici sono scritte da Maurizio Costanzo che redigeva i copioni a Montesano e Villaggio per la televisione. Deodato non era il regista ideale per un film così, penalizzato pure da un’uscita fuori tempo sul mercato a causa di uno sciopero dell’Istituto Luce che lo bloccò per due mesi.
Ricordiamo a titolo di esempio la sequenza iniziale che fornisce l’esatta misura del film. Siamo all’interno di un saloon in pieno giorno, c’è un primissimo piano su due occhi che guardano intensamente avanti, si fa uno stacco e il primissimo piano si sposta su di un altro paio di occhi, gli sguardi esprimono attesa ed emozione. A questo punto una voce fuori campo (quella del primo uomo inquadrato) dice: “Tra poco finirai di succhiare il mio sangue!”. Zummata veloce sull’uomo che ha pronunciato la frase. Si vede la sua mano scendere rapidamente sul fianco e frugare sotto la camicia, poi con espressione trionfante estrae la mano e tra il pollice e l’indice stringe una pulce. L’uomo la poggia in terra e la schiaccia con il piede, quindi guarda gli amici con soddisfazione. Una musica dal tono epico accompagna la parte finale della scena. Lo spettatore comprende subito il tipo di film: una pura parodia del cinema western. “Arrivano sempre all’alba, morti di sonno e in ritardo, li chiamavano i quattro del Pater Noster”, è la frase di lancio. La critica del tempo (si veda per tutti Il Messaggero dell’11 febbraio 1969) sottolineò l’originalità della scelta di quattro attori di estrazione cabarettistica, che si erano fatti le ossa a stretto contatto con il pubblico prima di fare televisione e cinema. Villaggio, Montesano, Toffolo e Lionello avevano già acquistato una certa popolarità imponendo una comicità moderna, allusiva e graffiante. Deodato scelse i quattro comici e la bella Rosemarie Dexter a ragion veduta, non aveva nessun timore di dover gestire troppi galli in uno stesso pollaio. Il film vive soprattutto della presenza di ottimi attori ben diretti e di spunti comici improvvisati in barba alla sceneggiatura.
Sentiamo cosa Deodato ricorda del film.
“Avevo già lavorato con Montesano (in Donne, botte e bersaglieri, nda) ed ebbi l’idea di radunare un po’ di attori di cabaret che stavano facendo bene anche in televisione per realizzare una parodia dello spaghetti western. Il problema del film fu che questi attori divennero tutti piuttosto famosi in quel periodo ed erano spesso via per curare i loro interessi. Era difficile persino averli tutti insieme per girare!”.
A questo punto Deodato si prende una pausa dal grande schermo e, dopo due anni intensi nel corso dei quali ha girato ben sei film, si dedica alla televisione. Questa è una costante nella carriera del regista che alterna momenti di cinema a periodi di pausa per produzioni pubblicitarie o serial televisivi.
(3/2 – continua)