13.
Piero sollevò la serranda quel tanto che bastava per passare. Controllò l’esterno. Un cortiletto vuoto, con le sagome scure di altre case che si stagliavano come sentinelle silenziose. Sentì gli scoppi delle molotov. Allora indossò la maschera color carne e uscì carponi. Richiuse la saracinesca. Con sé aveva solo il mannarino. Attraversò il cortile fino al marciapiede. Poteva vedere le luci delle fiamme e una quarantina, forse più, di quegli esseri. Strisciò dietro una Punto blu. Provò ad aprirla. Chiusa. Sempre carponi, si portò dietro una Seat Coupe rossa. Guardò dentro. Il quadro comandi era sfracellato. Inservibile. Avanzò ancora. Lungo il marciapiede c’erano dei corpi. Indossavano delle mimetiche scure. Attorno c’erano numerosi bossoli e pistole d’ogni tipo. Piero ne scavalcò uno con la faccia rosicchiata come una pannocchia.
Mentre scivolava nella via non vide il morto color melanzana uscire dal buio del cortiletto e avvicinarsi alla serranda. Imitando il lottatore, il morto infilò le dita nell’incavo della maniglia e spinse verso l’alto.
La serranda cigolò pigra e si sollevò un pochino. L’essere provò ancora. Alle sue spalle comparvero altri zombi.
Silenziosi come lupi, s’infiltrarono nel retrobottega.
Intanto, l’odore della notte divenne pungente, segno che il mattino era vicino.
14.
Li vide ululare alla notte. Gridare. Lottare. Strapparsi i capelli. Tutti raccolti attorno alla bottega. Da un balconcino, un ragazzo lanciava delle bottiglie incendiarie su quelle creature. Il fuoco le corrodeva ma le creature continuavano ad accerchiare l’alimentari. Poi il ragazzo rientrò nella casa. Dal retro uscì un’altra persona. Indossava un costume giallo e una maschera. La figura scivolò dietro alcune vetture. Le creature non se ne accorsero.
Alzò il binocolo verso il tetto della casa. Una terza figura camminava in bilico sulle tegole. La vide avvicinarsi alla finestrella sul tetto e calarsi dentro. La figura era colorata di rosso e non assomigliava alle cose sulla strada. Era troppo agile. Intanto il tipo mascherato sgattaiolò dietro altre vetture. Veniva verso di lui.
Il secondo fratello posò il binocolo e imbracciò la doppietta.
15.
Sandro finì le molotov. Lasciò il balcone. Attraversò la camera da letto. Dalla mansarda venne un tonfo. Armato di zippo e blacktail salì a controllare. La mansarda era grigia e polverosa. Le pareti erano occupate da vecchi cartelloni. Dive sbiadite e dimenticate gli fecero l’occhiolino. Il pavimento era coperto da un linoleum rosso. In un angolo vide uno sgabello a tre gambe con sedile rotante. Uno spiffero d’aria gli carezzò la faccia. Alzò la testa. Vide un pezzo di cielo, delle stelle remote e le prime faville del giorno frammentare la materia compatta del buio. Sopra di lui, un lucernario rettangolare. Il vetro del lucernario era spalancato. Per un attimo provò a dimenticare tutto quell’orrore e respirò l’aria del mattino. Chissà perché ricordò una scena della sua infanzia. Lui, suo padre, sua madre. Uno dei pochi flash che aveva di loro tre assieme. Una gita a Viverone. Al lago. Una domenica. Passeggiavano. Sua madre sorrideva. Nel ricordo era magra e bella. Indossava un vestitino verde mela. Suo padre aveva dei baffi scuri da siciliano e lo portava a cavalcioni sulle spalle perché potesse toccare il cielo con un dito. Sandro lo baciava sulla mascella e ne sentiva il sangue caldo come liquore scorrere sotto la pelle.
Allora tutta la disperazione del mondo non l’aveva ancora toccato.
Chiuse gli occhi per trattenere i bordi sfumati del ricordo, poi si avviò verso le scale.
Degli occhi vitrei si aprirono nel buio.
Sandro si bloccò. Le mani dondolarono intorpidite e inservibili. La pistola idem. Esterrefatto osservò l’uomo che gli sbarrava il passo. Era nudo, interamente dipinto di argilla rossa. Delle sottili strisce orizzontali di colore bianco attraversavano tutta la superficie della pelle. La testa era nascosta da una maschera conica che assomigliava a un cappuccio di pelle riempito di foglie secche. Due buchi per gli occhi. Nient’altro.
Sandro fece per parlare ma l’uomo lo colpì dietro l’orecchio.
Il ragazzo serrò le palpebre.
Nel buio, fosfeni multicolore gli ballarono davanti agli occhi.
16.
Gli zombi invasero il retrobottega. Una puzza di marcio li seguiva come un cane fedele.
Rovesciarono gli scaffali.
Calpestarono ogni contenitore. Addentarono ogni forma.
Il pavimento del retrobottega luccicò opaco.
Gli zombi invasero la bottega.
Spaccarono il vetro del bancone. Affondarono le mani screpolate nelle acciughe sotto sale. Morsicarono i salami. I formaggi. La frutta. Le sedie. Le mensole. La cassa. La carta degli scontrini. Le riviste.
Come cannibali si azzannarono a vicenda.
Uno di loro, con una pancia sporgente e metà faccia andata, tempestò di pugni la porta dell’emporio. Sradicò l’asse. Il congelatore di gelati confezionati si rovesciò di lato. Dall’esterno, altri zombi affollarono la bottega, distruggendo quel che ancora c’era da distruggere.
Alla fine si incolonnarono sulle scale.
Sui gradini, i loro passi scricchiolarono come foglie in un autunno livido e muto.
17.
Baron Corvo sentì il fracasso bestiale degli zombi. Li sentì salire le scale. Allora afferrò lo sgabello e lo posizionò sotto al lucernario.
Poi sollevò il ragazzo dal linoleum rosso e si issò sul tetto.
18.
Il cielo passò da un blu elettrico a un azzurro brillante con striature d’albicocca. La luna divenne trasparente.
Il lottatore controllava la strada e avanzava dietro le macchine appollaiate sul marciapiede. Erano tutte inservibili.
Sul fondo della via sentì il baccano proveniente dall’emporio. Tornò indietro, ma il secondo fratello si materializzò da dietro un’Alfa Romeo marroncina. Il secondo fratello aveva la doppietta calibro 12 e il cinturone di esplosivo a tracolla. Piero s’immobilizzò. Con la coda dell’occhio cercò una via di fuga. Il killer non batté ciglio.
- Suca! – disse sollevando il fucile.
Delle luci intermittenti rosse e gialle squarciarono il cielo. Un elicottero sorvolò il paese. Ondeggiò sopra le case come un calabrone indeciso. Il monotono ronzio delle pale. L’elicottero fece alcuni giri concentrici e si allontanò.
Il secondo fratello sollevò il capo per guardarlo.
Piero ne approfittò. Lanciò il mannarino e scivolò sotto una Opel beige. Il killer ruotò il busto ed evitò la lama rotante, poi lasciò partire una scarica di piombo. Il colpo polverizzò la portiera della Opel.
Il killer si accostò alla vettura e sparò un’altra raffica. Le gomme dell’auto esplosero come palloni. Il lottatore si tappò le orecchie. Pezzi di vetro e lamiera volarono dappertutto. Il killer ricaricò il fucile e si chinò sotto l’auto. Piero scivolò fuori appena in tempo.
Un terzo colpo maciullò la pancia della Opel.
Piero corse sull’altro lato della via. Saltò una cancellata bianca e si riparò dietro un albero di pere. Aspettò un’altra fucilata. Nessuno sparò. Sporse in fuori la testa. Il killer era attorniato da cinque esseri.
Lo avevano afferrato da dietro e sbattuto a terra.
Il secondo fratello strillava come una bestia al macello. Un tic nervoso alla guancia sinistra gli alterò i lineamenti come un quadro di Dalì. Cercava di liberarsi ma un morto lo teneva per le gambe. Altri due gli strapparono la camicia e artigliarono il ventre. L’addome e lo stomaco si aprirono come la chiusura ermetica di un sacchetto pieno di lasagne fumanti. Le viscere si sparsero sul marciapiedi. Il secondo fratello si contorse e scalciò. Mulinava le braccia mentre gli zombi annaspavano sul suo corpo.
Piero uscì dal nascondiglio e si avvicinò quel tanto che bastava per raccogliere il fucile. A terra c’era anche la cintura con l’esplosivo.
La sollevò e corse verso l’emporio.
Un morto con i capelli mangiati dai vermi gli tagliò la strada.
La doppietta lo fece esplodere come un pomodoro maturo.
19.
Le case erano così attaccate che Baron Corvo riusciva a saltare da un tetto all’altro anche col ragazzo sulle spalle. Individuò una casetta più bassa e ci volò sopra. Nel prato c’era un gazebo.
Lasciò scivolare il corpo di Sandro sul tendone del chiosco.
Il corpo del ragazzo atterrò come un grosso prosciutto.
Il lottatore annusò l’aria.
Da est, qualcosa sfarfallava nel cielo multicolore.
Baron Corvo atterrò sul gazebo e toccò terra.
Subito qualcuno avanzò contro di lui.
Baron Corvo schivò il calcio del fucile, si abbassò in avanti e partì con la testa. Affondò nella pancia del suo aggressore, piegandolo in due.
Il fucile volò via e Piero cadde nell’erba.
Baron Corvo gli appioppò un calcio sul cranio.
Un pezzo del machete di plastica sulla maschera si ruppe.
Piero cercò di proteggersi il capo con le mani, ma l’altro gli diede dei calci sui fianchi e lo costrinse a raggomitolarsi. Un piede dipinto di rosso lo colpì in piena faccia. Piero sentì il sangue sprizzargli dal naso e appiccicargli la maschera alla pelle. Cercò di alzarsi, ma l’altro continuò a picchiare. Un calcio arrivò sulla tempia e una penombra fitta gli oscurò la vista. Calci e pugni arrivavano da tutte le parti.
Piero strisciò sull’erba in cerca di un appiglio. Con la mano incontrò la gamba di un tavolino di plastica sotto al gazebo. Ci si attaccò.
I colpi cessarono.
Si sentì rivoltare sulla schiena. Socchiuse un occhio pieno di sangue.
La faccia gli pulsava come se stesse per esplodere. Troppo dolore.
Sopra di lui, la maschera conica di Baron Corvo lo fissava con occhi baldanzosi.
L’avversario lo trascinò per le caviglie, rovesciando il tavolino.
Una serie di attrezzi da giardinaggio finirono nell’erba.
Attraverso la patina di sangue, Piero vide una spatola trapezioidale.
Baron Corvo, a cavalcioni, cercò di sfilargli la maschera gommosa.
- Hai perso, – disse.
Piero afferrò la spatola e la piantò nel piede nudo dell’altro.
La punta in ferro trapassò le ossa cuneiformi del metatarso e si conficcò nell’erba.
Baron Corvo si raddrizzò di colpo e strillò.
Piero lo colpì sul muso con un pugno così forte che tutto il braccio gli vibrò per il contraccolpo.
KRAKKKAK! Baron Corvo cadde pesantemente sulla schiena.
Il cappuccio di pelle rossa della maschera saltò via.
Il lottatore si tirò a sedere.
L’avversario si dibatteva disperato. Senza maschera, era solo un ragazzino spaventato. Scintille d’odio lampeggiarono nei suoi occhi.
Cercò di liberare il piede, ma il lottatore lo tramortì col calcio del fucile.
Il ragazzino smise di agitarsi. Filamenti di muco rotolarono dal naso.
Piero gli sfilò la spatola dal piede, poi si accovacciò accanto a Sandro.
Gli sollevò la testa.
Dalla strada vennero dei grugniti.
20.
L’elicottero si librò sopra Santagata e gli zombi levarono il capo per guardarlo.
( fuoridaltempotre)
AMMINISTRATORE DELEGATO- P…Pronto?
BIBLIOFILO – Madonnasonoio!
AD – Cristo! Che ore sono? Accidenti!
B – Dov’è andato? Madonna, a casa non c’è. Non risponde a nessun numero. Cazzo. Cazzo. Cazzo. Gli avevo detto di pazientare. L’avevo implorato. Perché è così testa di merda?
AD – Ehi, ehi! Frena! Che cazzo di ore sono?
B – E’ l’alba.
AD – Dico, ma sei scemo? Ho una riunione alle sette.
B – Se non lo troviamo, domattina non hai più un cazzo di niente.
AD – Cos’è successo?
B – E’ uscito. Dev’essere andato là. Mi ci gioco le palle. Tu l’hai sentito?
AD – Eh? No. E’ da ieri. Dici Santagata?
B – Si. Si. Proprio. Deve aver preso l’elicottero.
AD – Merda.
B – Appunto.
AD – Che si fa?
B – Se si mette nei pasticci abbiamo chiuso. Se lo vedono attorno al sito è finita.
AD – Ehhsi!
B – Ma dico. Avevo organizzato tutto. Gente seria. Fidata. Dei professionisti. Amici di amici. Hai capito, no?
AD – Si, credo di si.
B – Lui deve sempre fare quel cazzo che gli pare. Ti sembra giusto? Cosa ci stiamo a fare noi, eh?
AD – Dai, ce l’abbiamo sempre fatta per il rotto della cuffia. Adesso provo a muovermi da qui. Vediamo cosa posso fare. Magari mando un paio di macchine della vigilanza.
B – No, no eh? Basta sgherri! Aspettiamo. Aspettiamo.
AD – Stai tranquillo, ok?
B – Vabhè.
AD – Tuo figlio?
B – Come?
AD – Tuo figlio. Come sta? Bene? Anche tua moglie, eh?
B – Ma si, bene, bene, grazie. I tuoi?
AD – Ho la più grande che si laurea Martedì. Vieni eh! Ci conto.
B – Grazie. Dai ci sentiamo.
AD – Ciao. Stai tranquillo. Ciao.
B - Si, si. Grazie. Ciao.
21.
La luce gialla della lanterna.
Nella cantina.
Micol con la Broken Butterfly in mano e la testa di Rubino nel grembo. Il ragazzo era morto da una ventina di minuti ma lei non sembrava accorgersene. Continuava a lisciargli la cresta floscia.
Il Colonnello li spiava con le mani intrecciate dietro la schiena.
Forzò i lacci. Senza rumore. Massaggiò i polsi.
La ragazza dark fissava il vuoto, assente.
La bocca del Colonnello divenne una fessura sottile.
Si alzò dallo sgabello.
Lei non sollevò nemmeno la testa.
Il Colonnello le sfilò la Magnum. Le carezzò il mento.
Micol ebbe un sobbalzo.
Era pallida, istupidita dall’orrore.
Lui la afferrò per le ciocche rosa shocking e le sbatté la testa contro il bordo d’acciaio della lavatrice.
Il Colonnello aveva gli occhi come cristalli scuri. Un folle luccichio si agitava dietro quegli specchi. Per un attimo il viso del militare s’increspò come un’onda.
Continuò a sbatterle la testa contro il bordo della lavatrice. Ci fu un rumore vischioso. Dal cranio della ragazza sgorgò una poltiglia rossastra dall’odore amaro di mandorle bruciate.
Il Colonnello indietreggiò disgustato. Ansimava
Era sopraffatto dalla confusione.
S’infilò due dita in gola e vomitò della bile.
Gli occhi bruciavano e sentiva un TUMP TUMP martellargli le tempie.
Osservò il corpo inerme di Micol.
Qualcosa dentro di lui applaudì soddisfatto.
Scacciò quella sensazione.
Vomitò ancora.
Poi scoppiò a ridere. Come un ossesso.
(Senza che potesse vederle, ombre filiformi, senza carne, scivolarono fuori dalla sua bocca, scappando nei muri.)
22.
Una musica.
Iniziava sempre così.
Il jingle del Ferdinando Show.
Le tende di velluto rosso.
La platea al buio.
Due luci a occhio di bue.
Il presentatore entra da sinistra. Il pianista da destra.
Salivano gli scalini del palco.
S’incontravano.
Accennavano un inchino. Immancabile. Ogni sera. Puntata dopo puntata. Replica dopo replica. All’infinito.
Il presentatore fece un sorriso da sei milioni di spettatori. Inforcò gli occhiali e iniziò a leggere dei nomi su una cartellina.
Il sipario si aprì. Le luci si accesero.
Sulle sedie degli ospiti c’erano tutti.
Sua madre. Sua nonna. Valeria Golia. La regista. La truccatrice. Cinzia. Il vicino col cane. La biondina giallo piscio. L’uomo trota. Quelli dalla testa a punta.
Il presentatore li chiamò uno a uno. Macchinisti e telecamere s’affannarono nel riprenderli dalle angolazioni migliori.
Uno scroscio continuo di applausi venne dalla platea.
Il pubblico.
Sedevano sulle poltroncine rosse.
Stavano composti e immobili.
Sbattevano le mani gonfie e grigie simili a pesci palla.
E li fissavano con appetito.
Un odore di carogna ammorbò il teatro.
Il presentatore non ci badò.
Neanche gli ospiti.
Sandro si ritrovò sotto la luce dei riflettori. In mezzo alle telecamere.
Il presentatore lo affiancò sornione.
Indicò il pubblico.
Il suo pubblico.
I morti mugugnarono compiaciuti.
Il pianista, dal suo scranno, accennò col piano Feast on dismembered carnage dei Carcass.
Un tale chiamato Shulz fissò il microfono alla maglietta di Sandro.
- E’ il tuo quarto d’ora, ragazzo, – disse il presentatore.
Cambiarono le luci. La musica salì di volume.
Il pubblico rumoreggiò come un grosso verme.
Sul palco si materializzò Micol. Era nuda. Le avevano lavato il viso. Tolto il cerone, l’eyeliner. Rasato i capelli.
Era irriconoscibile, un involucro vuoto.
- Un esordiente, – strillò il presentatore.
Applausi.
- Vediamo cos’ha preparato per l’occasione.
Il presentatore si voltò verso gli ospiti.
Attendevano pazienti, con le bocche spalancate e lame color avorio al posto dei denti.
Applausi.
Sandro provò a muoversi, a scappare, ma braccia trasparenti lo trattennero.
Lentamente, il pubblico del teatro salì sul palco.
Sandro si sentì strattonare per la maglietta.
Vide i morti dirigersi verso Micol. Accerchiarla.
Uno spettatore cadavere le strappò un pezzo del seno destro.
- Oh, ecco! Un numero di sventramento. Bene, – disse il presentatore arrampicandosi su uno sgabello.
L’uomo trota annuì complice.
La regista, la truccatrice e la Golia gridarono qualcosa.
Applausi.
Micol era satura di terrore.
Sui monitor accanto alle telecamere apparve una scritta elettronica: DEATH!
Applausi.
I morti posarono le lingue gelide sulla pelle di Micol.
Altre braccia la ghermirono.
Uno zombi sui sessanta, con l’abito scuro sporco di terra la penetrò tra le gambe.
Sandro provò a chiudere gli occhi, ma le palpebre s’erano fatte trasparenti come quelle dei fantasmi.
Applausi.
Mentre lo zombi sessantenne stantuffava come una scimmietta meccanica, un altro morto girò Micol su un fianco e le infilò l’erezione nell’ano.
Micol emise un sospiro torturato.
Sandro sentì la gola riempirsi di vomito. Faticò a respirare.
Sua madre e sua nonna accennarono un segno della croce.
Il pianista abbozzò Cadaveric incubator of endoparasites dei Carcass.
Le luci, le telecamere, i monitor zoommarono sull’orgia.
Applausi.
Lo zombi sessantenne si inarcò all’indietro e spruzzò bolle di saliva dalle labbra violacee. Dietro di lui, una fila interminabile di zombi aspettava il proprio turno.
Partirono degli intermezzi pubblicitari. Al posto dei consueti quadri, c’erano delle cromolitografie ovali di San Romualdo (abate, 951-1027 ) e San Luigi Gonzaga (gesuita,1568-1591).
Sandro sospirò. La paura lo mangiava un pezzo alla volta.
Il presentatore si materializzò sopra la sua spalla.
La faccia era scomparsa. Al suo posto una testa nera, senza volto.
- Ecco il tuo premio ragazzo! Non è questo che volevi? Essere speciale. Fosforescente. Risplendere nella tenebra. Beh, ci sei riuscito!
Il presentatore s’amalgamò col buio.
- Fermeremo il flusso infinito dei tuoi pensieri. Mai più decisioni, mai più responsabilità. Mai più dolore…
La musica finì.
Le spie rosse delle telecamere sparirono.
Il palco sparì.
La platea. Il pubblico. Gli ospiti. Sparirono.
- Ho paura, – bisbigliò Sandro nell’oscurità.
Adesso sapeva.
Era solo una cavia.
Una cavia che brillava nel buio.
23.
Il terzo fratello era livido d’odio. L’immagine del corpo del primo fratello non l’aveva abbandonato. Continuava a pensarci. Qualcuno doveva pagare, ripeteva dentro di sé come un mantra. Poi, nascosto dietro un cassonetto dell’immondizia, aveva scorto alcuni esseri. Mugugnavano dementi e camminavano come dei robot. Li aveva seguiti fino ad un emporio. Nascosto sotto un porticato, era rimasto ad osservarli mentre penetravano nella bottega e distruggevano ogni cosa. Un elicottero era passato sopra di loro. Gli esseri avevano cercato di afferrarlo.
La vista dell’elicottero l’aveva scosso dal torpore. Doveva sbrigarsi o sarebbe arrivato qualcuno. Con le due cinture d’esplosivo e la 9 mm, lasciò il porticato.
Due esplosioni rimbombarono nella strada.
Gli esseri lasciarono il prato dell’emporio e s’avviarono nella direzione da cui venivano gli spari.
Contemporaneamente dall’emporio uscì una risata orribile.
Il terzo fratello si bloccò indeciso. Voleva continuare a seguirli, ma la risata gli accapponò la pelle. L’elicottero tornò a librarsi sopra di lui. Istintivamente, il killer riparò nell’emporio. Dentro non c’erano zombi. Tutto era sfasciato. Accartocciato. Entrò nel retrobottega. Vide la serranda mezza sollevata. Altri detriti. Poi un altro sghignazzo. Disumano. Il terzo fratello individuò la porticina di ferro dello scantinato. Chiusa. Sparò alla serratura. Scintille di fuoco. La porta si aprì. Vide le scale che scendevano e la luce gialla della lanterna sul fondo. Adagio, scese i gradini. Laggiù c’era ancora un po’ di buio. Strinse le dita attorno al calcio della pistola. Arrivò nello scantinato. Vide il frigorifero verticale, la lavatrice e i corpi dei due dark buttati l’uno sopra all’altro. Il killer si accostò ai corpi. Percepì un movimento alla sua sinistra.
WHUUUP! Il Colonnello lo sbatté contro il frigo e gli affondò le dita nelle orbite. I bulbi esplosero con un suono bagnato.
Il terzo fratello si contorse e crollò a terra, urlando.
Sparò alcuni colpi, ma nessuno centrò il Colonnello.
24.
Sandro riprese conoscenza. Mise a fuoco la maschera color carne col machete conficcato tra i capelli. Il manico del machete era rotto.
Il lottatore l’aiutò ad alzarsi.
- Riesci a camminare?
Sandro notò un corpo steso nell’erba. Il corpo era interamente verniciato di rosso e non si muoveva. Ai piedi del corpo c’era una maschera conica. Sandro si ricordò della figura nella mansarda e rabbrividì.
- Chi è?
Il lottatore si levò la maschera. Sotto era pieno di tagli e sangue secco.
- Baron Corvo.
Sandro guardò ancora la figura a terra.
- E’ solo un ragazzino.
- Già.
- L’hai ucciso?
Il lottatore scrollò il capo.
- Oltre quelle case c’è una chiesa. Ho visto delle luci.
Sandro pensò a Micol e Rubino chiusi nello scantinato.
Dovevano assolutamente trovare un telefono.
- Pensi di farcela?
- Uh, sì.
Due morti con la faccia di cera e il naso adunco arrivarono dalla strada. Uno dei due era combinato da fare schifo. Sembrava che un treno merci gli fosse passato sopra. Aveva il cervello impiastricciato sulla faccia e i vestiti a brandelli, con le braccia strappate sotto la clavicola. Il morto camminava adagio e aveva un piede girato al contrario. I due emettevano il solito borbottio rauco.
Il lottatore usò la carabina. Esplose un colpo. Il viso del primo zombi saltò via. Denti e ossa si disintegrarono in poltiglie e spruzzi di sangue rosso brillante. Il secondo sembrò sogghignare. Piero sparò di nuovo. CLICK! Fine delle pallottole. Il lottatore usò il fucile a mò di clava. Lo calò sulla testa dello zombi e ci fu un rumore secco identico al grattare di una puntina su di un disco. Il cranio dell’essere s’incassò sul naso ed un occhio sprizzò in fuori con un POP sonoro.
Sandro e Piero corsero via.
Da qualche parte sopra di loro, l’elicottero sferzò l’aria secca.
La notte era finita. L’alba era fredda e limpida.
(7/2 – continua)