“L’ultima missione” (2008) di Olivier Marchal parte da questioni strettamente autobiografiche, ovvero dai suoi traumi di ex poliziotto (una carriera durata 12 anni) ancora non superati, come testimoniano le dichiarazioni a Brigitte Baudin con le quali ci autorizza a ricalcare la trama del film sulla sua vita senza troppe mediazioni; a 23 anni egli arresta un pericoloso criminale: “Quel giorno realizzai cosa fossero la barbarie e l’orrore col volto umano. Tuttavia amavo il mio statuto di poliziotto. L’avevo scelto. Ci credevo. Ma tutto è precipitato. Ero troppo sensibile. […] Avevo paura. Ho cominciato a bere”, proprio come lo sbirro alla deriva protagonista del suo film.
Sophie, la ragazza sopravvissuta alla carneficina reale dei propri genitori che tanto aveva traumatizzato il futuro regista, vent’anni dopo s’incontra nuovamente con un riluttante Marchal, fa germinare in lui l’idea stessa della pellicola ed è presente alla sua realizzazione, così come il personaggio di Justine incontra uno Schneider altrettanto tormentato e lo induce a una nuova indagine. Diciamo la verità: di solito le opere nate su basi così rigidamente esistenziali funzionano poco e male, come massimo documentano problemi, disagi ecc. e in questo senso. “L’ultima missione” non fa eccezione: sono corretti i rilievi espressi da più parti a proposito di eccessi inutili tanto nel décor che nella sceneggiatura e allusioni troppo pronunciate che rendono la trama non sempre fluida e comprensibile (vizio, questo, di molta cinematografia contemporanea che confonde lo snobismo delle ellissi con l’eleganza narrativa).
Tutto giusto. Tutto vero.
La prossimità esistenziale al proprio oggetto artistico non rende. Ma poiché le vie della salvezza estetica sono infinite, gli dèi hanno offerto un’altra possibilità a Marchal: quella di mostrare in metafora, con l’aiuto della musa nera Sophie, tutto il senso di colpa degli uomini nei confronti delle donne girando un film formalmente femminista privo, stavolta sì, di sbavature, come dimostra un elenco dei personaggi e dei tratti che li caratterizzano; è degno d’un investigatore di Ellroy, ma abbiate pazienza: o così, utilizzando la visione dall’alto, o l’indagine estetico-antropologica resterà priva di soluzione.
Partiamo dalle figure maschili ordinandole secondo i loro rapporti col mondo femminile, da moralmente positivo a negativo: Louis (il neonato figlio di Justine, al quale per gratitudine la donna dà il nome del poliziotto); il nonno di Justine e Hélène (ha tenuto unita la famiglia dopo l’uccisione dei genitori delle ragazze); Georges Matèo (flic amico di Schneider, ha rapporti difficili sia con la moglie che con la figlia); il protagonista Schneider (“Ero dove non dovevo essere” al momento dell’incidente che gli ha distrutto la famiglia, ovvero stava tradendo la moglie con la collega Marie); il convivente di Justine (fuco che una volta fecondata la compagna scappa via); Jumbo (poliziotto che deruba una morta); il galeotto in cella con Subra (uxoricida per ragioni passionali); Charles Subra (vecchio violentatore e serial killer di coppie già catturato da Schneider); il nuovo violentatore e serial killer di donne sole. Ho escluso dall’elenco Kowalski e il capo della polizia della sezione servizi interni perché i due trattano maschi e femmine con la stessa indifferenza irredimibile da utilitaristici ignavi.
Quanto alle maschere dell’altro sesso, dalla meno alla più vittima: Marie Angéli (poliziotta amante di Kowalski e connivente con la sua concezione del modo); Justine e Hélène Maxence (sopravvissute all’omicidio dei genitori); una prostituta; Mathilde Schneider (moglie del detective, tetraplegica a causa dell’incidente automobilistico); la figlia di Schneider (morta nell’incidente); le vittime del nuovo serial killer.
Questo sfaccettato rosario arriva addirittura alla perfezione geometrica con l’alfa rappresentato dalla bambina uccisa in auto e l’omega dal neonato Louis (che viene al mondo, ahimè, in una sequenza degna del peggior cinema femminista militante: intorno a lui ci sono solo donne).
In sostanza, nelle analisi della pellicola non si è tenuto fin qui abbastanza conto del fatto che il film privilegia la retorica dei personaggi perché l’urgenza della materia autobiografica spingeva Marchal verso un approccio il più possibile vicino alla realtà del vissuto proprio e altrui (la già citata Sophie). E chi vive sono uomini e donne, ovvero, nell’arte, per l’appunto i personaggi.
La denuncia spietata di Marchal è interessante perché ritengo sia del tutto involontaria, ben lungi da qualsiasi film “a tesi”, in cui l’assunto (ma meglio sarebbe dire: il pregiudizio, l’ideologia) di partenza rende sempre, anche nel migliore dei casi, l’opera piuttosto meccanica e i personaggi dei fantocci riempiti di idee predigerite, dei “tipi” insomma. Nel caso de “L’ultima missione”, invece, all’interno della suddivisione sessuale proposta ogni singolo personaggio mostra aspetti che offrono una gradualità precisa, non manichea e anzi assai equilibrata, di chi sia la vittima e chi il carnefice: per esempio, la poliziotta Marie è certo un esempio negativo di donna, ma la cosa non deve far dimenticare tutte le altre vittime femminili, tanto dei serial killer che del marito geloso.
L’atto di accusa nei confronti del genere maschile, d’altro canto, mette in luce le colpe di Jumbo, il poliziotto sciacallo che arriva a derubare una vittima, quanto quelle del vecchio lupo sadico e omicida, ma anche le qualità del nonno della protagonista, o il senso della giustizia e dell’amicizia di Georges.
Insomma, sotto il profilo dei personaggi ci troviamo di fronte a un film dal gusto quasi medievale per la simmetria e la casistica gerarchicamente ordinata che ricorda a suo modo un intero Inferno contemporaneo.