Ultimo mondo cannibale
Adesso fermiamoci al 1976 e a Ultimo mondo cannibale che Antonio Tentori definisce filiazione diretta dei mondo movie da cui riprende la descrizione dell’orrore in diretta, ma anche pellicola capace di fissare definitivamente le coordinate del filone cannibalico. Ecco perché mi sorprende sfogliare le pagine scritte da Mereghetti e da Cammarota e non trovare traccia di questo film che un critico preparato e senza pregiudizi come Tentori giudica di grande importanza per il futuro sviluppo del filone cannibalico.
Ultimo mondo cannibale è stato scritto e sceneggiato da Renzo Genta e Gian Carlo Rossi. Aiuto regista è Lamberto Bava, fotografia di Marcello Masciocchi, musiche di Ubaldo Continiello e scenografia di Walter Patriarca. Prodotto da Giorgio Carlo Rossi per Erre Cinematografica e distribuito da Interfilm. Gli effetti speciali (notevoli) sono di Paolo Ricci. Deodato ci mette del suo esprimendo notevoli capacità di regia e facendo la prova generale del suo capolavoro Cannibal Holocaust. Il cast: Ivan Rassimov (Rolf), Massimo Foschi (Robert Harper) e la bella Me Me Lai (l’indigena Palen), che diventerà immancabile nei cannibal movie. Due su tre li avevamo incontrati nel precedente film di Umberto Lenzi. La produzione voleva fare un seguito de Il paese del sesso selvaggio, che aveva avuto un buon successo, incentrato sugli stessi protagonisti.
In breve la trama. L’antropologo Rolf (Ivan Rassimov) e un ricercatore petrolifero (Massimo Foschi) atterrano nella giungla di Mindanao alla ricerca di alcuni colleghi di cui da tempo non hanno notizie. Perdono subito il pilota e la sua ragazza, caduti nelle mani dei terribili Manabu. Appena arrivati si rendono conto che l’accampamento è deserto e presto comprendono che sono stati tutti divorati dai cannibali. Gli indios assalgono i due uomini: l’antropologo riesce a fuggire e a far perdere le proprie tracce, il ricercatore petrolifero viene catturato e imprigionato in una caverna. L’uomo bianco non viene mangiato ma messo a nudo, deriso da tutti, umiliato e trattato come un animale. Il prigioniero è obbligato ad assistere ai riti tribali, che vanno dalle torture su animali a scopo gastronomico (vedi il barbecue di coccodrillo) sino allo stupro, passando per violenze di vario genere. I primitivi sembrano interessati ad alcuni aspetti fisici del protagonista: la sensuale Me Me Lai (nella parte di un’indigena) è affascinata dai suoi genitali e non perde occasione per dimostrarlo. C’è anche una scena curiosa dove l’uomo è appeso ad alcune liane e fatto volteggiare in aria per combattere contro una specie di tucano-tacchino. I Manabu hanno visto arrivare il ricercatore in aereo e pensano che sia capace di volare! A un certo punto l’indigena (Me Me Lai) si innamora del prigioniero e lo fa scappare, lui porta con sé la donna e in un attacco di follia selvaggia la violenta. Questa è una scena davvero scioccante e pare quasi che l’uomo così facendo voglia far capire alla donna che è lui a comandare. Forse Deodato non voleva caricare di valenze maschiliste la scena, ma soltanto costruire un effetto shock. Dobbiamo dire che ci è riuscito bene. Subito dopo il ricercatore affronta il capo degli indios, lo uccide e ne mangia il fegato. Gli indigeni sono stupefatti dal suo coraggio e da questa prova che fa apparire il bianco un vero guerriero. Lui riesce a liberarsi dai selvaggi, scappa di nuovo insieme all’indigena, ritrova l’amico antropologo (in condizioni abbastanza pietose) e soprattutto l’aereo che il pilota prima di morire aveva riparato. I tre tentano di prendere il volo ma l’antropologo si becca una lancia nel costato e Me Me Lai viene divorata dai suoi stessi compagni Manabu. La fuga alla fine riesce e la pellicola si chiude con una panoramica della giungla tropicale.
È indubbio che Ultimo mondo cannibale risenta dei mondo movie ma qui c’è una storia ben costruita a metà tra l’avventuroso e l’orrorifico, che magari può essere debitrice nelle atmosfere da Il paese del sesso selvaggio di Umberto Lenzi ma che contiene molti elementi innovativi. Primo tra tutti il cannibalismo, esibito senza veli e falsi pudori, e alcune scene forti che anticipano quella discesa negli inferi che sarà Cannibal Holocaust. In questa pellicola i vecchi mondo movie sono recepiti ed estremizzati con l’esibizione in diretta dell’orrore e con riprese di realistiche uccisioni.
Ultimo mondo cannibale si ispira a una storia vera avvenuta un anno prima tra le tribù selvagge e primitive dell’isola di Mindanao.
I protagonisti vengono avvolti a poco a poco in una spirale di orrore e scoprono un vero e proprio inferno selvaggio fatto di lotte tra animali feroci, trabocchetti mortali e presenza terrificanti. La caverna dei cannibali è inquietante e ben riprodotta, le scene della prigionia e delle progressive umiliazioni dell’uomo bianco sono parti di vero cinema dell’orrore. Si susseguono poi immagini shock come cadaveri decomposti, un indigeno mangiato vivo dalle formiche, un coccodrillo fatto a pezzi, un’indigena (Me Me Lai) squartata e divorata dai cannibali dopo averla cucinata con pietre calde inserite nella cassa toracica. Ma non dimentichiamo la scena del bambino appena partorito che viene gettato nel fiume e divorato dal coccodrillo. Paolo Ricci fa bene il suo mestiere e gli effetti speciali sono di un inquietante realismo. La cosa più sconvolgente resta l’ostentata rappresentazione di banchetti antropofagi in primo piano per lunghe sequenze del film.
La pellicola ha lo stesso produttore de Il paese del sesso selvaggio (Giorgio Carlo Rossi) ma i risultati raggiunti sono superiori. Deodato ha maggior perizia tecnica di Lenzi, inoltre si trova a suo agio nel girare scene nelle foreste selvagge e nel filmare le crudeltà della natura. Anche qui, come nel successivo Cannibal Holocaust, non mancano le riprese di animali uccisi a sangue freddo. Non sono mai immagini gratuite ma sempre funzionali all’economia del film e servono per dare l’idea dei crudeli rituali indigeni.
Dopo aver visto Ultimo mondo cannibale ci si rende conto di come sia riduttivo ascrivere il film al filone avventuroso. Al limite possiamo avere dei dubbi per Il paese del sesso selvaggio, che presenta scene meno forti e mette in primo piano elementi tipici del cinema di avventura. Ultimo mondo cannibale è horror puro, cinema del terrore perché restiamo nell’ambito del possibile, ma pur sempre cinema che analizza la paura e gli istinti più bestiali dell’uomo.
A livello di curiosità diciamo che il produttore Giorgio Carlo Rossi ha messo pesantemente le mani sul film inserendo alcune scene truculente. Rossi è morto da alcuni anni. Era entrato nel mondo del cinema occupandosi di esportare e distribuire film d’avventura prodotti in Italia a basso costo. In seguito produsse in proprio Il paese del sesso selvaggio, quindi affidò a Deodato Ultimo mondo cannibale. Fu lui a inserire alcune scene di violenza sugli animali. La lotta tra il boa e l’iguana l’ha girata Rossi al termine delle riprese, quando la troupe era già partita. Deodato considerava terminata la pellicola e si rifiutò di girare altre sequenze. Rossi fece restare un operatore, comprò un’iguana e andò da un allevatore di serpenti cercando un boa che fosse in grado di divorare l’animale. Trovò un boa che aveva mangiato solo tre giorni prima, ma lui aveva fretta di tornare in Italia e tentò ugualmente. Stuzzicò il boa finché l’animale non incominciò a ingoiare l’iguana senza però terminare l’impresa. Infatti nel film la scena non si conclude. Ovvio che il lancio della pellicola sul mercato puntasse molto sull’equivoco realtà-finzione e la produzione pubblicizzò il film come un documentario realistico alla Jacopetti. Il successo di pubblico fu immediato.
Sempre a livello di pettegolezzo cinematografico citiamo l’incidente accaduto all’aiuto regista Lamberto Bava che venne morso da un serpente. La paura fu tanta, anche se il serpente non aveva veleno. Lo avevano svuotato la mattina prima di cominciare a girare. Ma Bava si prese un tale spavento che lo dovettero portare d’urgenza in ospedale. Questo per dire che non era facile fare un film nella giungla malese e che il pericolo era sempre in agguato. Deodato non aveva paura di niente, lui si trovava a suo agio tra gli indios, in mezzo alle sanguisughe, agli alberi enormi che ogni tanto cadevano, alle bestie feroci. In poche parole questo è il tipo di film congeniale a Deodato.
Sentiamo dalla sua voce cosa ricorda di Ultimo mondo cannibale.
“Non è il mio film che preferisco anche perché dovetti subire molte pressioni dalla produzione, però non è neppure un film da gettare. Ci sono tante scene carine, quasi delicate, come la masturbazione di lei a lui. Un critico di un giornale che non ricordo (il Corriere della Sera, nda) scrisse che lo avevamo girato in Abruzzo. Solo a pensarci mi viene ancora da ridere. Lo girammo tutto in Malesia, nella grotta sacra, dove poi anche Sergio Martino girò qualcosa di suo (La montagna del dio cannibale, nda). Finimmo a Qualatanan, un posto in mezzo alla giungla che per arrivarci ci volevano sette ore di piroga. Le prime due settimane ci prese voglia di tornarcene a casa”.
Massimo Foschi in un’intervista a Nocturno ricorda con disgusto il pasto del fegato: “Al termine di un combattimento dovevo mangiare il fegato del mio avversario, un fegato di capra acquistato qualche giorno prima e conservato a temperatura ambiente (tropicale, però). Puzzava così tanto che lo addentai con un’espressione di vero disgusto. Fu una scena realistica!”.
Le locandine del film, come già detto, puntarono molto sull’aspetto documentaristico e misero in risalto a caratteri cubitali quanto di turpe e di vero si sarebbe visto. L’uccisione rituale delle figlie femmine, la scarnificazione del braccio, il pasto con il fegato dell’avversario (vedi sopra), l’amore selvaggio e via di questo passo.
Deodato è originale perché sa narrare in maniera secca ed essenziale costruendo un effetto di crudo realismo. Le frequenti scene senza sonoro suscitano più tensione di una colonna sonora ben fatta e le parti in cui i cannibali sono all’opera risultano sempre legate alla narrazione. La volontà documentaristica in Ultimo mondo cannibale è stemperata da una qualche concessione al romanzesco.
Il filone cannibale prosegue con alcune pellicole girate da Aristide Massaccesi (in arte Joe D’Amato), un grande contaminatore dei generi. Le prime sono inserite nella serie porno soft di Emanuelle nera, ma contengono elementi splatter e situazioni tipiche del cinema cannibalico. Emanuelle in America (1976) è un’indagine di Emanuelle sulle perversioni sessuali, che la porta a scoprire snuff film con scene di tortura e violenze su donne perpetrati da uomini in divisa. Qui c’è una contaminazione più con il filone nazi-film (vedi i nazi-erotici itama anche la serie Ilsa, la belva delle SS di Don Edmonds) che con il cannibalico, ma citiamo la pellicola per completezza e perché contiene scene davvero efferate: seni tagliati, uncini nel ventre, stupri con falli di legno e chi più ne ha più ne metta. Il vero cannibal movie della serie Emanuelle è però Emanuelle e gli ultimi cannibali (1977), un film erotico arricchito da sequenze splatter e cannibalesche (come saranno anche Porno Holocaust e Antropophagus nel 1980). Questa è una delle tante pellicole girate da D’Amato sulla scia del successo del film francese Emmanuelle (l’originale va scritto con due emme!) diretto da Just Jaeckin nel 1973 e interpretato dall’affascinante Silvia Kristel. Il film era diretta filiazione dei romanzi sconvolgenti di Emmanuelle Arsan e fu l’iniziatore di una serie di pellicole francesi con protagonista una ricca e annoiata signora sposata con un uomo d’affari, che passa le sue giornate esperimentando le gioie del sesso. La serie italiana è apocrifa, per evitare l’accusa di plagio ribattezza la protagonista Emanuelle (con una emme sola), identificandola con una bella giornalista di colore che gira il mondo a caccia di scoop e di avventure erotiche. L’attrice simbolo di questa serie è Laura Gemser, una stupenda indonesiana dal corpo perfetto, generosamente esibito pellicola dopo pellicola.
In Emanuelle e gli ultimi cannibali Laura Gemser si finge internata in una clinica per malattie mentali dove sta cercando materiale per un articolo scandalistico. A un certo punto assiste all’aggressione di un’infermiera da parte di una ragazza antropofaga e decide di vederci chiaro. Conosce l’antropologo Mark Lester (Gabriele Tinti, suo marito nella vita privata) che a casa sua le mostra un filmato sugli orrori praticati dalle tribù africane (forse un mondo movie) che comprende scene di cruente evirazioni e riti tribali. C’è una sequenza in cui i parenti del marito mangiano gli occhi della donna e i parenti della moglie si cibano del membro del maschio come punizione per un caso di adulterio. I due partono alla ricerca degli ultimi cannibali, dopo che Emanuelle ha salutato alla sua maniera il fidanzato ormai più che cornificato (per fortuna che non siamo nella giungla…). In Amazzonia l’antropologo fa un po’ di lezioni sul cannibalismo sociale e i motivi che spingono gli uomini a cibarsi dei propri simili, parla del cuore che contiene le virtù e delle interiora che sono il cibo preferito dai cannibali. Poi i due incontrano una strana coppia che si scopriranno cacciatori di diamanti più che di animali feroci e un’improbabile suora. C’è una bella scena con l’uccisione di un pitone che stava soffocando Emanuelle ed è notevole pure la colonna sonora di Nico Fidenco, costruita con tamburi in sottofondo e una voce femminile molto sensuale. Lungo il cammino trovano molti cadaveri putrefatti e mangiati da animali, una delle donne finisce nelle sabbie mobili ma viene salvata, infine cominciano ad attaccare i cannibali. Da notare che le sequenze che anticipano l’arrivo dei mangiatori di uomini sono caratterizzate da una colonna sonora che si fa più intensa con dei colpi di gong e da una fotografia sporca. Le numerose scene di sesso stemperano la tensione narrativa e ricordano che il film è soprattutto erotico. Laura Gemser e Monika Zanchi hanno il loro da fare per mostrarsi vestite in più di due scene di seguito. A un certo punto si aggiunge anche Nieves Navarro che si concede una scappatella sotto gli occhi del marito con un robusto portatore negro. Certo, tra un rapporto sessuale e l’altro, ci sono anche avventure esotiche, azione, splatter, voyeurismo… soprattutto c’è la stupenda Laura Gemser che da sola vale il prezzo del DVD. Ma gli ultimi venticinque minuti sono puro cannibal movie con un pasto a base di capezzoli, uno squartamento spettacolare frutto di un singolare tiro alla fune, coltellate al pube, banchetti con interiora e parti di vagina. Finale che ritorna alla commistione erotico-cannibal con Monika Zanchi prima prigioniera in una gabbia di legno e poi posseduta da tutta la tribù in attesa del sacrificio finale. Emanuelle risolve la situazione uscendo dalle acque con il dio Tupinaba dipinto sul ventre e si porta via l’amica tra lo stupore degli indigeni, che si accorgono di essere stati beffati solo quando vedono le due donne nuotare. Si poteva evitare la ridicola scena finale dell’assalto alla barca da parte dei cannibali e soprattutto il sermoncino retorico della bella Gemser contro lo schiavismo e le meschinità del mondo. “Non è colpa nostra, è il prezzo della civiltà”, filosofeggia Gabriele Tinti mentre scorrono i titoli di coda e partono le note della suggestiva Make on the wing di Nico Fidenco (cantata da Ulla Linder). Questo film è girato interamente in Italia in quattro settimane, per la precisione a Mezzano Romano e non certo in Brasile come dice l’ingannevole scritta finale (dove saràmai Tapurucuarà?).
Un anno prima di Cannibal Holocaust esce La montagna del dio cannibale (1978) di Sergio Martino. Il film, scritto con Cesare Frugoni, si avvale di un cast composto dalla bella Ursula Andress (resa famosa dai film di 007), Stacy Keach e Claudio Cassinelli. Gli effetti speciali sono del solito Paolo Ricci. Un buon film d’avventura che mescola l’orrore a piccole dosi in un crescendo da incubo. Nel corso della pellicola vediamo: uccisioni sanguinarie, pasti cannibali, evirazioni e sul finire persino il corpo della statuaria Andress cosparso di liquami cadaverici. Nella pellicola confluisce tutta l’esperienza documentaristica dei mondo movie mescolata al sensazionalismo di Ultimo mondo cannibale e alla pura avventura de Il paese del sesso selvaggio. Un buon precursore di Cannibal Holocaust, in definitiva. Vediamo la trama. C’è una spedizione in Nuova Guinea sulle tracce di un etnologo scomparso (tanto per cambiare…) in un luogo tabù chiamato “la montagna del dio cannibale”. Ne fanno parte la moglie dell’etnologo e il fratello in compagnia di un’esperta guida e di alcuni portatori indigeni. Quando raggiungono l’isola misteriosa non c’è traccia dell’etnologo e l’accampamento è deserto. Vengono scoperti cadaveri e resti umani, poi gli indigeni cominciano ad attaccare e a uccidere. I nostri raggiungono una missione e vengono accolti ma le uccisioni continuano e sconvolgono il villaggio. Il capo della missione, convinto che gli uomini della spedizione siano causa dell’eccidio, intima loro di andarsene. Durante la scalata verso la montagna del dio cannibale si aggiunge al gruppo anche il medico Manolo, esperto della zona. Nel corso del viaggio il fratello fa morire deliberatamente la guida che chiedeva aiuto e Manolo comprende che c’è sotto qualcosa di strano. Una volta raggiunta la grotta tutto è chiaro: la moglie dell’etnologo e suo fratello in realtà cercano solo un enorme giacimento di uranio per rivenderlo a potenze straniere. I cannibali, dipinti per tutta la pellicola come uomini fangosi, attaccano ancora e il fratello viene ucciso. Manolo e la moglie vengono catturati. La scena più raccapricciante è quando i cannibali servono come pasto alla donna le carni del fratello. Degna di nota pure la parte in cui lei scopre che il marito è morto e il suo corpo putrefatto viene adorato dai cannibali come se fosse una divinità, per via di un contatore geiger attaccato al corpo ancora funzionante. Gli indios scoprono una foto che ritrae la donna con il marito e ritengono anche lei una dea. Per questo la costringono a cospargersi con i liquami del cadavere del marito in un rito che per i selvaggi ha un significato liberatorio. Alla fine di tutto Manolo riesce a liberarsi e a far fuggire la donna che comprende la stupidità di quel che ha fatto e si riscatta nel finale.
Sono pochi i personaggi positivi del film, forse solo il medico Manolo, difensore di un mondo naturale che non vuole essere contaminato dalla civiltà. Tutti gli altri hanno un passato da far dimenticare (la guida ha mangiato carne umana e ha rapito un ragazzino della tribù cannibale), oppure scopi inconfessabili che niente hanno a che vedere con quel che dicono (la moglie fedele è in realtà un’avida cercatrice di uranio e suo fratello non esita a uccidere per denaro). La stessa natura è scrutata soltanto dal suo lato malvagio. Si riprende un pitone che divora una scimmia, un ragno gigante che aggredisce la donna, i pipistrelli che escono dagli alberi, un coccodrillo che fa fuori un’iguana. Poi ci sono gli infidi rumori notturni della giungla, i trabocchetti mortali, le scene rituali degli indigeni che squartano un’iguana e ne mangiano le interiora dopo essersi cosparsi di sangue il corpo. La filosofia spicciola di Manolo giustifica le uccisioni degli animali con la necessità: “Anche l’uomo uccide, ma lo fa ricorrendo alla menzogna e all’inganno”, dice. Saranno temi che torneranno in tutto il cinema cannibalico, sempre proteso alla ricerca di quel che di negativo si può esibire.
(4/2 – continua)