“La conoscenza reale – la realtà – è la celebrazione
più esatta possibile del casino che hai combinato”
(P. Sotos, Index)
Luogo comune vuole che lo spazio occupato dal genere erotico nell’immaginario maschile equivalga a quello che il rosa occupa nelle fantasie femminili; l’uno e l’altro avrebbero come effetto più o meno involontario la cancellazione della complessità dell’individuo e la sua riduzione a una sorta di monodimensionalità: l’operazione molto spesso riesce, poiché se è vero che i personaggi tutti eros o tutti sentimentalismo risultano incredibili nella finzione, è altrettanto vero che lo schema semplicistico viene invece spesso applicato nella quotidianità, con le immaginabili conseguenze delle quali ciascuno di noi porta le stimmate (più laicamente si chiamano “etichette”).
Se comunque si volesse ricostruire la totalità della persona a partire dalle alquanto opinabili metà citate, la cosa, nel suo ovvio rivelarsi impossibile, darebbe tuttavia dei notevoli risultati in termini di incongrua negatività e di assurdo divertimento proprio a causa dell’ossimoro culturale che la fonda. E’ questo lo scopo del fumetto Cowgirls at war (1973) di Russ Heath e Michael O’Donoghue. Esemplato su Gauchos e ragazze di Eneg (Morrocchi), Cowgirls è un concentrato di cortocircuiti spazio-temporali e di contaminazioni di generi differenti, sia pure con una predominanza piuttosto netta del rosa e dell’erotico: vi si fondono infatti il West e la Seconda Guerra Mondiale, le eroine lesbiche e s/m dei Bizzarri e il linguaggio dei romanzetti donneschi; il tutto concentrato in pochissime, esilaranti pagine. Un perfetto prodotto postmoderno, insomma. Nonostante l’impressione di assoluta caoticità che se ne può ricavare a una prima lettura, il fumetto è in realtà costruito con estrema precisione dal suo sceneggiatore: innanzitutto, lo spazio concesso al rosa è quello dei dialoghi, mentre l’immagine, un supporto molto professionale secondo i rigidi canoni verosimili dei comics avventurosi americani, è in gran parte riservata all’erotico: va dunque rilevato il netto contrasto fra balloon e disegni (sfasamento immagine/parola dal quale Levis e Leroi trarranno un’ottima lezione per il loro Le perle dell’amore), una separazione formale decisa che trova puntuale riscontro contenutistico nella divisione in schiere opposte delle figure femminili e di quelle maschili. Inoltre, la fattoria diroccata che i soldati di Hitler attaccano è difesa da tre cowgirls: c’è stato quindi un incontro, o per meglio dire un vero e proprio scontro, fra epoche storiche che trovano nella violenza il loro unico – ma fondamentale – punto di contatto. Vignetta dopo vignetta, le donne cambiano nome a una velocità vorticosa: la bruna, che dapprima è Anne, diviene poi Simone; la bionda via via Claudine, Nicole, Viviane e infine Julie; la gaucha Florence, Claire, Annie (nome che resta immutato per ben due volte di fila!), Brigitte (forse), Lyne; a un certo punto, mentre le protagoniste sono fuori campo, la confusione diventa sovrana assoluta, per cui non si sa più a chi attribuire i nomi di Germaine, Adelaide, Anita, Mimi e Peg: paradossalmente, è proprio un dettaglio del genere a dimostrare lo scarso spazio concesso al disordine da O’Donoghue. Le caotiche eroine combattono i tedeschi o si dedicano alle loro pratiche omosessuali senza neppure accorgersene: non parlano mai, se non in maniera – forse – allusiva di quel che stanno facendo, ma sempre e con strenua assiduità di “amore”, ovvero citano frasi prese quasi a casaccio dalla narrativa rosa; la loro attenzione, in breve, è rivolta altrove: se si escludono le sequenze in cui c’è una parvenza di rapporto fra immagini e dialoghi, agli occhi del lettore le ragazze agiscono come sonnambule o folli.
Le didascalie, di solito, si collegano in maniera evidente a quanto accade al di fuori del trio lesbico, illustrando o anticipando, come nella norma, gli avvenimenti: “Da qualche parte in Francia, in una fattoria abbandonata…”, suona l’incipit; e poi: “Le ultime cartucce…”; “In guerra gli addii sono brevi…”; “La fine sembra imminente…”; “Il tuono di un cannone in lontananza”; “In lontananza, l’eco del cannone risuonava ancora”; alle didascalie è dunque riservata quasi per intero la parte bellica della storia, anche se in altri casi esse non fanno che aumentare l’ordinato caos con avverbi del tutto fuori luogo. Il “dialogo” (virgolette d’obbligo, in quanto perlopiù i personaggi monologano fingendo di dialogare), in genere a sé stante, come ho accennato dà talvolta l’impressione di una qualche convergenza col disegno, lasciando così spazio a una voluta ambiguità: “Com’è bella la luna, stasera!”, e in effetti dal muro sbrecciato fa capolino la luna; “Esco un attimo!”, dice una delle protagoniste dopo essersi vestita e aver imbracciato il fucile, e l’altra di rimando: “Ogni volta che oltrepassi quella porta temo di non rivederti mai più!” (ovviamente, pensa il lettore, dal momento che fuori la attendono i soldati, armi in pugno); “Se credi che verrò a cercarti, ti sbagli”, dice una cowgirl all’amica che sta per uscire sotto il fuoco nemico; “Sai dove stai andando?”, chiede alla compagna quella che resta al riparo; rientrando nella fattoria, una ragazza sentenzia: “L’hai lasciata partire: non tornerà mai più!”. Infine, dopo che le tre eroine hanno fatto strage dell’armata germanica, leggiamo: “Tu non mi conoscevi bene come credevi…” – “Altrettanto vale per me!”.
Come si può notare dagli esempi, O’ Donoghue ha scelto in più di un’occasione frasi che si adattassero bene tanto alla situazione bellica che a quella amorosa (Laclos fa scuola anche qui, sia pure in modo deviato); in ogni caso, le intermittenze dialogiche non permettono al lettore di attendersi alcunché di preciso: egli non sa se al quadro seguente troverà la continuazione di un dialogo cominciato in quello precedente, uno sproloquiante monologo o addirittura qualche salto improvviso e immotivato in sede didascalica (per esempio, una donna legata a una ruota, vestita da cameriera, nella vignetta successiva è imprigionata in maniera del tutto diversa, e indossa solo uno slip). Oltre al continuo blaterare a vuoto di sentimenti delle protagoniste mentre sterminano con noncuranza i tedeschi, due sequenze in particolare meritano comunque una menzione per la loro assoluta comicità: quella in cui una cowgirl vola addosso a un’altra strappandole di dosso le mutande mentre l’aggredita grida: “Un giorno capirai tutto!” e la scena nella quale il vaniloquio di una ragazza non si arresta neppure quando un bavaglio le tappa la bocca (ah, queste femmine!, non tacciono proprio mai…).
Cowgirls at war può esser legittimamente letto tanto come una parodia dei due generi più frequentati da Heath, il fumetto western (fra cui troviamo la serie Reno Browne, Hollywood’s Greatest Cowgirl ) e soprattutto quello bellico (addirittura utilizzato in alcune sue vignette da Roy Lichtenstein per i suoi dipinti pop), che come una nostalgica epitome della celebre Phoebe Zeit-Geist ideata e sceneggiata da O’Donoghue. Quest’ultima, eroina postmoderna quant’altre mai, viene infatti sbalzata senza soluzione di continuità nei mondi più straordinari, surreali e diversi sia per coordinate spaziali che temporali, così come le sue sorelline minori fanno implodere a modo loro i generi più disparati nel chiuso della loro fattoria, semidistrutta ma pur sempre da difendere. E chissà che l’incoscienza di cui dicevo prima non alluda al fatto che le donne in fondo agiscono come gli uomini (uccidono e amano di amore fisico), mentre parlano – le ipocrite – di tutt’altro; e forse, significato contemporaneo e complementare proprio in quanto opposto, non voglia suonare anche come un omaggio alla capacità tutta femminile di portare (quasi) il mondo intero sulle spalle senza farci troppo caso, continuando a sognare l’utopia di un universo fatto di puri sentimenti come unica contropartita: ben note ambiguità dell’arte, che trovano nell’operetta di O’Donoghue e Heath un’organica terra di coltura dove ogni concezione manichea e ogni visione immobile, ordinata una volta per tutte, dell’esistente sono destinate a mostrare i propri limiti di convincenti interpreti della realtà.
Gianfranco Galliano
NOTA
La traduzione italiana di Cowgirls at War è reperibile sulla rivista “Image” n.2, dicembre 1983