Curiosamente, e contrariamente a quanto successo ad altri generi quali l’horror o il western o la fantascienza, non vi sono molte pellicole propriamente fantasy nel periodo del muto, a parte forse qualche brevissimo – pochissimi minuti – film di George Méliès e dei suoi epigoni nel periodo pioneristico della cinematografia e sui quali non vale la pena di soffermarsi.
Possiamo quindi cominciare con il primo kolossal della cinematografia italiana, quel Cabiria del 1914 diretto da Giovanni Pastrone e sceneggiato (curò le didascalie) da Gabriele D’Annunzio, al quale sembra si debba l’invenzione del personaggio di Maciste (dal greco mekistos, “il più forte”), prototipo dell’eroe forte e solitario ma buono e in definitiva modello dei successivi supereroi. Il film non è fantastico ma pseudo storico, e Maciste vi compare in poche sequenze, ma una di queste è fantasy: quando a Cartagine salva la bimba Cabiria dall’essere sacrificata al dio fenicio Moloch, sconfiggendo i nemici a suon di pugni e fuggendo da un passaggio segreto. Il successo del personaggio fu tale che nei successivi dodici anni uscirono altri sedici film su di lui, sempre interpretato dal camallo Bartolomeo Pagano, ma di questi solo Maciste all’inferno di Guido Brignone (1926) attiene al fantastico con sfumature horror. Le invenzioni registiche e gli ottimi trucchi, unite a una rappresentazione dell’Inferno basata sulla Commedia dantesca e all’esposizione di qualche nudità femminile (che causò problemi con la censura), ne fecero un successo al di là dell’esiguità della trama, che vede Maciste essere spedito all’Inferno dal diavolo Barbariccia e colà lottare in favore del re Pluto contro una rivoluzione, ottenendo così di poter tornare sulla Terra.
Va invece certamente considerato Atlantide di Jacques Feyder del 1921, che il regista trasse da un romanzo coevo di Pierre Benoît che aveva avuto grande successo; i produttori chiesero al direttore belga di provare a emulare il successo dei peplum che si giravano a Roma e che erano seguitissimi e lui ci riuscì talmente bene che Atlantide è ancora considerato il più riuscito tra i 48 film da lui girati. Non era certo un romanziere di avventure bensì un intellettuale e un raffinato esteta Pierre Benoît, tuttavia il suo secondo romanzo ebbe un successo inaspettato proprio per il gradiente di avventura, il fascino delle descrizioni e l’ambientazione esotica della vicenda, tanto che l’edizione italiana arrivò solo un anno dopo (1920) rispetto a quella francese e ancora oggi il libro viene ripubblicato. Ed è comprensibile, perché la trama è certamente originale e ricca di spunti, a partire dal fatto che il mitico “continente perduto” non viene situato nell’oceano Atlantico ma invece nel bel mezzo del deserto del Sahara, nel massiccio montuoso dell’Ahaggar, dove arrivano per caso due militari della Legione Straniera dispersi. Costoro conosceranno la crudele regina e sacerdotessa di quel popolo sopravvissuto al declino della loro civiltà, la bellissima Antinea dal fascino ipnotico, che ha il potere di fare innamorare di sé gli uomini che desidera, per poi ridurli a statue di pietra quando se n’è stancata (le statue vengono sistemate in una cava dotata di 120 nicchie, delle quali 53 sono già occupate). Inevitabilmente i due cadono preda della seduzione di Antinea, perdendo il sentimento cameratesco militare al punto che il tenente Saint-Avit uccide il capitano Morhange e dopo, sconvolto da quello che ha fatto, fugge. Ma è inutile: vittima dell’incanto di Antinea si rende conto di non poter restare senza di lei e dopo pochi anni ritorna. Il film punta molto sulla scenografia che sottolinea l’aspetto decadente della società atlantidea con uno stile tra il neoclassico e il lusso barbarico, ma era inevitabile che il fulcro centrale dovesse essere la protagonista femminile, non a caso affidata all’attrice ricca di fascino Stacia Napierkowska. Il gradimento della pellicola fu tale che – attenuatosi il clamore destato dal romanzo, che comunque si è continuato a ristampare fino ai nostri giorni – ne furono fatte diverse altre versioni.
Da una leggenda tipicamente mediterranea, per l’esattezza greca visto che il primo a parlarne fu Platone nei dialoghi Crizia e Timeo, ci spostiamo più a nord con La morte di Sigfrido di Fritz Lang (1924), prima parte dell’opera conosciuta come I Nibelunghi, il cui secondo episodio La vendetta di Crimilde è un dramma psicologico in costume che non rientra nel nostro tema. Il Sigfrido, tratto non da un testo particolare ma dall’insieme delle leggende nordiche (tra cui la Saga dei Völsungar e il Canto dei Nibelunghi) che ispirarono anche Wagner, invece contiene tutti gli elementi per poterlo classificare come fantasy (e non solo un precursore): c’è l’eroe solitario, il viaggio in terre pericolose abitate da creature fantastiche (i nani che difendono segreti tesori, il drago), metamorfosi e altre manifestazioni magiche, pericoli e lotte. Il tutto in una sapiente miscela che coniuga i canoni dell’espressionismo, a partire dai giochi di luce e ombre, con l’immaginario fantastico ed esotico che già Lang aveva sperimentato nel precedente Destino (1921). Dopo aver ucciso il drago Fafnir ed essersi reso invulnerabile bagnandosi del suo sangue, il biondo eroe sottrae al nano Alberico la spada magica Balmung grazie alla quale si impadronisce di numerosi regni e ottiene di poter sposare Crimilde sorella del re dei Nibelunghi Gunther, diventato suo amico. Quest’ultimo è innamorato della regina islandese Brunilde, che grazie al mantello dell’invisibilità di Sigfrido viene da lui sconfitta in battaglia e catturata per divenire sua sposa, ma prima di poter celebrare le doppie nozze l’eroe viene ucciso dal geloso Hagen, il quale ha scoperto il suo punto debole: tra le spalle, dove una foglia caduta ha impedito l’afflusso del sangue del drago. Il film è un assoluto capolavoro, tanto che qualcuno lo giudica più importante di quello considerato comunemente il migliore di Fritz Lang, ossia il Metropolis del 1926; con quest’ultimo divide il rilievo dato all’ambiente a alla scenografia, soprattutto nei particolari architettonici, che in tutto il cinema di Lang sovrastano tutto il resto, persino la psicologia dei personaggi, perché sottolineano il prevalere del destino contro i tentativi umani di ribellarsi a esso.
Nello stesso 1924 torniamo in ambiente mediterraneo, ma spostandoci più a Est verso il Medio Oriente, con Il ladro di Bagdad di Raoul Walsh, anche questo basato non su una singola opera ma su alcune delle storie che formano il corpus de Le mille e una notte, diffuse attraverso la Francia dal 1704 con l’edizione curata (e riscritta e aumentata) da Antoine Galland. La storia è quella ben conosciuta di Aladino ma qui il protagonista è chiamato Ahmed, un ladruncolo che, essendo riuscito a rubare una corda magica che gli permette di salire dove vuole, ha l’ardire di intromettersi nel palazzo del sultano dove si innamora della principessa Badr al-budūr. Decide pertanto di travestirsi da principe per poterla chiedere in sposa ma viene scoperto e, sebbene riamato, costretto a fuggire; durante la sua assenza un altro pretendente alla mano della principessa, il potente ma freddo Khan, principe mongolo, conquista Bagdad. Ahmed, che nel frattempo ha trovato un mantello dell’invisibilità e un cofanetto che esaudisce i desideri, crea con l’aiuto di questo un grande esercito e riconquista la città, sconfigge Khan e con Badr al-budūr festeggia le imminenti nozze levandosi in volo su un tappeto volante che era appartenuto a un altro pretendente della principessa, il principe di Persia (tanto per non farsi mancare nulla in fatto di oggetti magici, anche Khan aveva una mela in grado di curare le malattie e far resuscitare i morti, mentre un terzo pretendente, il principe delle Indie, era possessore di una sfera di cristallo che permetteva di vedere ciò che accadeva altrove). Il film, altro capolavoro del muto, fu interpretato da un divo dell’epoca, Douglas Fairbanks, che ne fu anche sceneggiatore sotto pseudonimo (pare che l’idea gli sia venuta dalla visione del citato Destino di Lang), ma deve molto anche alla scenografia di William Cameron Menzies e alla bontà degli effetti speciali che furono molto ben realizzati. Se si considera la regia ricca di immaginazione di Walsh si capisce il successo straordinario del film, che divenne presto un prodotto da imitare (e nel 2010 ne fu fatta una versione in DVD accompagnata da una colonna sonora degli Avion Travel). Un rifacimento con lo stesso titolo si avrà nel 1940.
La storia di Aladino aveva già avuto una versione animata nel 1926 con Le avventure del principe Achmed di Lotte Reiniger, abbastanza diversa come svolgimento sebbene il nucleo della trama sia quello noto, ma interessante per la tecnica particolare di silhouette snodabili. Le successive versioni sono innumerevoli.