Sulla scia del fortunatissimo Emmanuelle (J. Jaeckin, 1973), nel 1975 Bitto Albertini girò Emanuelle nera: gli incassi lusinghieri, ben 804 milioni di lire in 862 giorni di programmazione, e il successo internazionale gli permisero di realizzarne due seguiti assai meno premiati dal pubblico, entrambi nel 1976: Emanuelle nera n. 2 e Il mondo dei sensi di Emy Wong; quest’ultimo venne girato in coproduzione con Hong Kong, dove il regista aveva già lavorato nella serie dei 3 Supermen.
Messi da parte i fallimenti, veniamo a dare conto analitico del primo EN ipotizzando che il successo di un film erotico dipenda dalla sua capacità di realizzare visivamente i fantasmi sessuali degli spettatori coniugando novità (una sorpresa capace di condurre i fruitori oltre le proprie attese: l’innovazione) e facilità (ciò che ci si aspetta di vedere: la tradizione). Un esempio immediato del produttivo funzionamento di questa coppia presa a prestito dall’estetica di Hume: le delicate fattezze di Laura Gemser, nonostante sia asiatica e di colore (novità), sono subito riconducibili a un modello di bellezza occidentale (facilità); per dirla in modo estremamente rozzo, in sostanza si tratta di una donna bianca dipinta di nero che non disturba gli schemi cosmetici di massa dell’Occidente, ma semmai li conferma e li lusinga: le nere, quando sono belle, lo sono nello stesso modo delle bianche, ovvero: “la Bellezza è universale” (1).
Di passata, è il caso di notare che EN, sulla scia di molti altri film italiani dello stesso genere e della medesima epoca (da La ragazza dalla pelle di luna a Il dio serpente), sceglie come sfondo alle proprie vicende l’Africa: l’esotico dista una sola lettera dall’erotico, anzi, nel primo si può già leggere in filigrana una tacita disponibilità al secondo (verso tutti gli occidentali, comunisti o fascisti che siano, come dimostra la cameriera nera Carla Brait).
La sceneggiatura di EN, scritta a quattro mani da Albertini e Palmambrogio Molteni, sotto il profilo della trama è assai poco pretenziosa: la celebre fotografa Emanuelle viene inviata in Kenya col duplice scopo di aiutare la viziata nipote del suo editore, Anne Danieli, nel reportage che sta scrivendo e di salvare il matrimonio di Anne; dopo una serie di tradimenti assortiti e passaggi obbligati da un letto a un altro, il rapporto in questione va del tutto a catafascio perché il marito si innamora proprio della fotografa, che dulcis in fundo lo lascia con un palmo di naso. I dialoghi, sullo stesso livello del plot, risultano piuttosto umoristici se si sa approfittare della finta profondità che traspare da frasi come le seguenti: “L’amore non è soltanto esplosione di sensi… ci sono anche i sentimenti che contano”; “Mi avevi già persa prima di incontrarmi”; e infine: “Anche a loro, se mi andrà, darò tutto e subito. Ma solo il mio corpo, come sempre”.
Il discorso cambia invece radicalmente qualora si analizzi EN tenendo conto della pura retorica dell’immagine, dove la coscienza dell’operare di Albertini e Molteni è sempre attenta e vivace: d’altra parte nel genere erotico è il vedere – o l’aver visioni mentali – quello che conta; inoltre, in precedenza il regista ebbe una lunga esperienza in qualità di direttore della fotografia e la cosa dovette comunque avere il suo peso fin dalla scelta delle protagoniste, scelta tanto fisica quanto di caratteri: pelle d’ambra tipica delle indonesiane, Laura Gemser è un’esile figura di modella dai lunghi e liscissimi capelli corvini scoperta in Belgio proprio da Albertini e da lui dirozzata nella recitazione, mentre Karin Schubert, per contrasto, è una bellezza teutonica florida e armoniosa, bionda naturale dalla zazzera assai corta (se non andiamo errati mai così corta come in questo film), attrice in quegli anni già discretamente nota in Italia: non si poteva pensare a qualcosa di più opposto sia sotto il profilo cromatico che sotto quello della figura. L’ossimoro trova la sua logica continuazione nella strutturazione dei personaggi, non priva di un certo interesse forse proprio perché il loro netto contrapporsi ha delle origini rigorosamente visive e non miseramente psicologistiche: Emanuelle fa dell’indipendenza economico-lavorativa associata alla bellezza una specie di corazza che la rende impermeabile a ogni esperienza sessuale e amorosa, è una sorta di dea sferica incapace di imparare qualcosa: la sua continua ricerca di trasgressioni sempre nuove dimostra appunto come tutte le scivolino addosso senza intaccarla mai. Anne, invece, è insoddisfatta perché non riesce a soddisfare (il marito) e quindi cerca una rivincita sessuale nei rapporti con uomini dalla pelle nera (che confessa di amare in modo speciale), mentre contemporaneamente tenta di esprimersi attraverso la scrittura; i risultati ottenuti in ognuno di questi campi, però, alla fine della vicenda vengono così riassunti da lei stessa: “Chiusura per fallimento. Come donna, come moglie, come amante. Come scrittrice, poi… tutto un bluff!”.
Per il buon esito erotico di EN, naturalmente, una tappa quasi obbligatoria era la congiunzione dei poli opposti: al cinema italiano non mancavano certo esempi precedenti di saffismo nero su bianco, anzi dopo Le salamandre Erna Schurer e Beryl Cunningham, in fondo, tutti se lo aspettavano. Come antipasto alla sessione saffica, Albertini sfrutta nel migliore dei modi la professione di Emanuelle: poiché fa la fotografa, infatti, risulta perfettamente logico che ritragga Anne e il regista ci proponga, dopo un brevissimo ralenty preparatorio, dei fermo-immagine della corsa nuda, panica, della donna in mezzo al paesaggio keniano (con lo schermo nero fra l’uno e l’altro a disegnare la chiusura del diaframma). Il dinamismo del movimento coniugato al fermo immagine ricorda l’episodio di Ultime grida dalla savana (anch’esso del 1975) nel quale viene ripresa al rallentatore (lentezza) una danza (rapidità) di indigeni nudi: in entrambi i casi, e non cambia molto che Climati/Morra facciano leva sull’omosessualità latente e Albertini sull’eterosessualità manifesta del pubblico maschile, i registi ci vogliono offrire uno spettacolo erotico completo capace di superare e correggere la realtà fornendo in contemporanea il desiderio di quanto è sfuggente e l’appagamento di quanto è bloccato.
Succulento contorno alle due protagoniste è Isabelle Marchall, una playboyette dalla bellezza facile facile destinata a mettere d’accordo tutti o quasi gli spettatori, soprattutto nella scena lesbo con Emanuelle, il che consente fra l’altro al regista di raddoppiare il rapporto omoerotico fra nera e bianca. Il bicromatismo, infine, viene declinato anche secondo i più consueti canoni dell’eterosessualità, per cui, tranne un’eccezione, i protagonisti maschili occidentali se la vedono con Emanuelle e le comparse di colore con Anne. Ossimori, com’è consueto, piuttosto prevedibili (2).
La censura del soft-core di quegli anni indusse gli autori di EN a scegliere di mimare banalmente quanto in ogni caso non era possibile mostrare in occasione di incontri sessuali dotati d’uno straccio di alibi amoroso (la solita noiosetta via dell’erotico, insomma), mentre in due degli episodi più pruriginosi – o almeno considerati tali all’epoca – la strada percorsa da Albertini fu quella del simbolismo sessuale. In queste occasioni il fumettone dà il meglio di sé: nel momento del coito fra Anne e il benzinaio keniano, l’azione grafica viene sostituita dalla pompa del carburante che entra nel serbatoio dell’auto; quando Emanuelle si trova sul treno alle prese con un’intera squadra di giocatori di hockey su prato, si allude alla gang bang – che indubbiamente pretende maggior forza e dinamismo rispetto all’episodio citato prima non foss’altro per il semplice numero dei partecipanti all’orgia – col dettaglio del pistone fumante e ben lubrificato in movimento rapido e violento: un ricordo deviato, volontario o meno, del celebre finale sessual-ferroviario di Intrigo internazionale (in cui il treno entrava semplicemente in una galleria). Solo un anno dopo il simbolo del pistone – sia pure di una nave – verrà ripreso da D’Amato in Emanuelle nera – Orient Reportage (1976). Nel cinema erotico la via simbolica è da sempre ben nota e utilizzata per aggirare i divieti sociali, ma di solito in maniera più marginale rispetto a quanto accade in EN, che la sfrutta invece in sequenze di grande importanza per la sua riuscita.
L’ultima delle figure retoriche sulla quale pare opportuno soffermarsi è il solecismo (3): nonostante la sua indubbia forza erotica, in campo artistico ha avuto meno fortuna rispetto a quelle fin qui analizzate forse perché richiede una forma di perversione creativa decisamente più raffinata rispetto alla media (quale fu quella di uno dei suoi massimi alfieri, Pierre Klossowski). Esso compare quando Emanuelle cerca di difendersi dall’assalto in massa dei giovani atleti: la sua reazione, il tentativo goffo e malriuscito di respingere a calci gli assalitori, la porta a sollevare le gambe e a svelare involontariamente le mutandine; ciò diventa subito ulteriore fonte di eccitazione per i ragazzi perché il gesto apre quel che dovrebbe chiudere, suggerendo nei fatti quale sia il desiderio segreto di una volontà non così casta come dichiara una difesa tanto furiosa quanto, in fin dei conti, ambigua. Allo stesso modo del simbolismo, anche il solecismo nasce come risposta, questa volta gestuale ma tutt’altro che irrazionale, al taglio operato da una censura interiorizzata nel profondo.
Per tornare in forma conclusiva alla questione facilità/novità posta in apertura, il vero elemento di novità di EN non è tanto ascrivibile a questa o a quella singola figura retorica utilizzata dagli autori, quanto piuttosto al fatto di averne utilizzate diverse, tutte insieme e con dinamismo, nella stessa opera: in altre parole, lo spettatore italiano passò dall’ossimoro al simbolismo al solecismo trovando in questa stessa metamorfosi un titillamento continuo e variato, mai noioso e prevedibile. Il rimbalzare senza soluzione di continuità da una figura retorica all’altra – e conseguentemente l’elemento di sorpresa erotica – è poi marcato in maniera evidente nel finale, quando dalla novità del solecismo di Emanuelle in lotta coi ragazzi si passa, in un evidente crescendo dal sapore quasi musicale, a una sorta di ossimoro quantitativo – una contro molti – rappresentato dalla gang bang e, infine, al simbolismo del pistone (elementi di facilità). Qqqueste, in sostanza, le possibili ragioni formali di un successo tanto plebiscitario e questi anche i meriti retorici di EN, almeno quelli direttamente riconducibili all’operato degli autori.
Ma occorre dire ancora dell’altro a proposito della rappresentazione del sesso nella pellicola.
Nonostante all’epoca fosse una pratica abbastanza consueta e consolidata quella di girare per l’estero sequenze aggiuntive hard o che comunque sarebbero state sicuramente censurate nel nostro Paese, Albertini ha sempre dichiarato di non aver mai diretto scene porno in EN e di essere un estimatore dell’eros immaginato e non di quello grafico: in questo senso gli artifici retorici analizzati in breve fin qui rientrano perfettamente nella sua visione della sessualità. Nel dvd dell’edizione da noi visionata (Stormovie, 2008), tuttavia, vi sono cinque frammenti a luci rosse collegati in maniera più o meno efficace col resto del girato (4).
Le sequenze aggiuntive sono state in gran parte, se non in toto, realizzate appositamente per la pellicola di Albertini e con l’apporto di controfigure: solo la prima di esse lascia diverse perplessità in questo senso, perplessità delle quali daremo conto più avanti. In ogni caso, eccole in ordine di apparizione: la “Schubert” (virgolette d’obbligo) va a letto col benzinaio keniano; “Emanuelle” ha un rapporto orale con il “marito” della Schubert sotto la doccia; gli stessi si masturbano reciprocamente e quindi, dopo una fellatio, s’accoppiano; la “Schubert” ed “Emanuelle” s’intrattengono in un rapporto lesbico; “Emanuelle”, attorniata dai danzatori d’una tribù, pratica una fellatio a uno di essi, col quale poco dopo è impegnata in un accenno di coito forse simulato. Sgombriamo subito il campo dall’eventualità che la Gemser abbia potuto essere la protagonista di qualche inserto porno: la sua controfigura ha i capelli mossi (se non addirittura una messa in piega per l’occasione) e soprattutto il suo ventre è rigato da alcune smagliature tipiche del parto che magari possono suggerire mille perversioni, ma non certo che lei e Laura siano la stessa persona; l’addome di quest’ultima, infatti, è una tavola liscissima (5).
Mentre quattro dei frammenti, data la loro evidente rozzezza, non presentano problemi particolari dal punto di vista analitico, il primo, decisamente più articolato e raffinato, necessita di una disamina puntuale. Albertini aveva scientemente voluto far venire l’acquolina in bocca allo spettatore fin dall’inizio del film quanto al rapporto nero/bianca, mostrando il benzinaio che guardava gli slip di Anne mentre le puliva il parabrezza dell’auto; la cosa, peraltro, aveva indotto la compiaciuta matrona a ripromettersi di non lasciar senza seguito il fatto. E ora veniamo a una descrizione dettagliata della resa dei conti fra i due, non senza precisare che durante l’incontro amoroso il set pare rimanere quello originale, l’illuminazione non varia e la colonna audio non presenta stacchi. La Schubert nella toilette col benzinaio (entrambi sono vestiti) – lei inginocchiata davanti a lui – in esterno, l’altro benzinaio apre il serbatoio dell’auto – la Schubert mette le mani sulla patta del benzinaio – una mano femminile bianca estrae il membro dalla tuta – l’altro benzinaio va verso l’erogatore di carburante – dettaglio di quest’ultimo – la Schubert, aiutata dal benzinaio, si toglie la maglietta – l’altro benzinaio mette la pompa nel serbatoio – la vagina inghiotte il membro da sopra, i pantaloni della tuta in evidenza – la Schubert a cavalcioni del benzinaio secondo gli stilemi del soft – l’erogatore gira – inquadratura della Schubert e del benzinaio come nella precedente, poi la camera si allarga a mostrare le gambe dell’uomo che indossa ancora la tuta – dettaglio dell’amplesso come sopra – pompa nel serbatoio. In seguito vengono ripresi l’altro benzinaio ed Emanuelle. Nuovi momenti hard e soft. Emanuelle scende dall’auto e, avvicinatasi a una finestrella socchiusa, vede i momenti finali dell’accoppiamento in versione simulata. Gli inserti, tecnicamente logici e del tutto lineari rispetto al resto della scena, sono stati girati con una meticolosa cura del dettaglio (se si eccettua un particolare di cui diremo più oltre) – e con la medesima accuratezza sono stato innestati al resto di EN – come nessuno di quelli che verranno dopo: il campo soft (la Schubert e il benzinaio) e il controcampo hard (i dettagli di membro e vagina) sono stati collegati insieme con grande precisione e fluidità di montaggio; come se questo non bastasse, è stato valorizzato al massimo il cromatismo (il blu della tuta e il nero del personaggio maschile + il bianco e il biondo di quello femminile) e c’è stato un totale rispetto delle posizioni dei corpi per l’intero coito. Tutto ciò fornisce allo spettatore la sensazione di trovarsi di fronte a una realtà non manipolata, che fluisce inevitabilmente e liberamente, senza aiuto da parte di nessuno, si tratti del regista come del montatore (che qui, data la perizia delle riprese e dei tagli, sembrerebbero essere invece proprio Albertini e Tomassi, o comunque persone dell’entourage del film tecnicamente assai preparate). D’altra parte, sapendo che la Schubert era assai disinibita quanto a sesso simulato sul set (al punto da venire tranquillamente accompagnata dal marito anche in tali occasioni), che proprio in quel periodo le era stato richiesto da parte di alcuni produttori di lasciarsi andare a interpretare qualche sequenza un po’ più spinta per i mercati stranieri, che quantomeno il porno su carta le era ben noto fin dall’epoca dei suoi esordi svedesi sulla rivista Private, che nella versione hard de Il pavone nero (1974) intitolata Woodo Sexy Erotico, scovata e scientificamente notomizzata da Luca Rea, c’è un momento in cui si può pensare sia Karin a praticare una fellatio (6) e che, finalmente, negli anni ’80 sarebbe divenuta una delle dive del cinema porno italiano, si potrebbe essere tentati di asserire senza troppi complimenti che nel segmento analizzato non sono state necessarie controfigure di sorta.… E però la mano stretta intorno al membro non ha nessun monile al polso, mentre la Schubert ne porta tanto all’uno quanto all’altro braccio fin dal suo ingresso nella toilette e per l’intera durata della sua cavalcata sul benzinaio: l’errore può apparire strano se si pensa alla perizia con cui sono stati girati gli inserti hard, ma risulta impercettibile a una visione in sala quale quella del 1975, momento storico in cui ancora non si poteva pensare all’avvento di massa del videoregistratore col suo corollario di rallentatore e fermo immagine; inoltre non vi sono mai totali comprovanti in maniera decisiva la partecipazione in prima persona di Karin. Una comparazione della sua mano destra e di quella che s’avvinghia al pene, poi, non risulta decisiva: se è vero infatti che, bracciali a parte, le due estremità non sono fra loro incompatibili – come direbbero quelli del RIS –, lo è altrettanto che prodursi in un accenno di masturbazione non comporta necessariamente anche la disponibilità a prestarsi a un coito; neppure seguendo questa via, quindi, si ottiene un risultato certo. Infine, nell’inserto lesbo – di realizzazione assai meno invasiva e compromettente sotto molti aspetti – sicuramente vi è una controfigura tanto per la Gemser quanto per lei…e dunque? Illusione. Perfetta nel1975. A un passo dalla perfezione, oggi. (A proposito: cosa ci sembra perfetto nel 2017 e non ci parrà tale nel 2030?)
Per quanto ci riguarda, piuttosto, vogliamo aggiungere qualche considerazione finale a proposito di questa sequenza: Schubert o non Schubert, il pubblico d’oltreconfine poteva vedere una scena in cui il simbolismo della pompa nel serbatoio veniva doppiato da un inserto hard; l’insieme produceva una sorta di geniale ironia involontaria, come se la censura simbolica fosse stata un’aggiunta tardiva rispetto al pezzo porno – e non il contrario – che mancasse clamorosamente il proprio bersaglio. In questo caso, lo spettatore si trovava di fronte a uno spettacolo erotico-pornografico completo: simbolismo (allusione titillante) associato a semidocumentarismo (soddisfazione diretta).
Gemser e Schubert: due carriere e due donne
Più di quarant’anni dalla realizzazione di EN non sono passati invano per le sue protagoniste.
La Gemser, da allora, si sposò felicemente con un altro interprete del film conosciuto proprio sul set, Gabriele Tinti (e per questo conserva ancor oggi un ricordo particolarmente bello di EN) e fino all’anno della morte di questi (1991) interpretò – perlopiù alla corte di Aristide Massaccesi/Joe D’Amato – un buon numero di pellicole (Massaccesi a parte, nel 1977 ebbe addirittura l’occasione di ottenere una particina accanto a Orson Welles ne La nave dei dannati di Stuart Rosenberg) che le diedero una discreta notorietà come icona del cinema bis italiano e soprattutto le consentirono di lavorare anche nel momento della grave crisi produttiva degli anni ’80. Sfiorò il porno (in almeno tre occasioni: Emanuelle in America, Porno Esotic Love e Le notti erotiche dei morti viventi) senza mai cadervi; Massaccesi diceva perché era troppo intelligente (ma allora cosa avrebbe dovuto dire di sé stesso, lui che gli hard li girava?). Dopo aver lavorato saltuariamente come costumista e comparsa sempre nella scuderia di D’Amato, si ritirò dall’ambiente e oggi è un’anziana e tranquilla pensionata del cinema.
Karin Schubert, pur partecipando prima di EN anche a produzioni decisamente rilevanti come Barbablù (1972) di Edward Dmytrik accanto a un attore del calibro di Richard Burton o Mio Dio, come sono caduta in basso (1975) di Luigi Comencini (realizzazioni che sfruttate con una maggiore accortezza le avrebbero forse consentito di sfondare), nella seconda parte degli anni ’70 dedicò gran parte delle sue energie professionali al genere erotico, commedia o dramma che fosse. Interrotta la carriera a causa della crisi produttiva a cui ci riferivamo più sopra, nonché alla mancanza di un pigmalione come Massaccesi, negli anni ’80 cominciò una discesa psicofisica che ne appesantì l’immagine minandone alla base la carriera di starlet. Giunta ai quarant’anni, i vizi e gli eccessi le aprirono la strada al mondo del porno, innanzitutto con una serie di servizi fotografici su Le Ore, che la appetì ormai sfiancata da un banale divorzio e da un ancor più banale abuso di stupefacenti. Girò otto film hard come protagonista e in un ultimo cameo, ormai invecchiata (aveva 52 anni), interpretò la parte di una nonna di Cappuccetto Rosso ancora ingorda di cetrioli. Dulcis in fundo, per un certo periodo allargò la propria esperienza a luci rosse prestando la propria voce ancora gradevolmente crautizzata persino al 144 erotico, vuoi per scarsità di lavoro anche nell’hard, vuoi per sfamare i cani (che ammontavano ad una ventina) coi quali viveva. Nel 1994 lanciò diversi appelli televisivi di aiuto caduti nel vuoto, appelli che ne testimoniarono anzitutto la perdita di controllo sulla propria esistenza, e nel 1995 dichiarò a Michele Giordano e Andrea Di Quarto, autori di Moana e le altre, vent’anni di cinema porno in Italia: “Gente che vuole sfruttarmi ancora ce n’è. […] Anche adesso, a 54 anni, tentano di usarmi come un pezzo di carne e basta. […] La dimostrazione del mio fallimento siete anche voi. Venite a cercarmi per accontentare la morbosità dei lettori. Faccio notizia: – Signori e signore, guardate com’è caduta in basso la star Karin Schubert. –”. Dal 1997, dopo due falliti tentativi di suicidio intervallati dal costante timore per la sorte del figlio tossicodipendente, una benefica coltre di silenzio copre finalmente l’ex attrice cancellandone le tracce e chiudendone un ciclo esistenziale fin troppo lungo e duro.
A oltre quarant’anni dalla sua realizzazione, EN può anche essere rivisto così, come un ossimoro di celluloide che la vita quotidiana successiva alla partecipazione al film delle sue protagoniste si è incaricata di trasformare progressivamente in pura realtà fatta di carne ed ossa.
Gianfranco Galliano
NOTE
1.Per analogia, da qui a “esiste un unico Dio” il passo è breve. Se il ragionamento è esatto, più in generale possiamo trarne che il pensiero religioso della nostra società può trovare nell’eros alla moda (nel senso dittatoriale del termine) un alleato segreto e insospettabile, individuato all’apparenza come avversario ma invece di vitale importanza per recuperare alle proprie modalità ideologiche anche chi sotto altri aspetti – e fossero pure tutti gli altri – vi si opponga.
2.In effetti l’ossimoro si può inscrivere a pieno titolo fra gli elementi di facilità dell’eros; al di là della pellicola di cui ci stiamo occupando, esso risulta da sempre tanto abituale quanto efficace: quindi non soltanto bianco/nero, ma anche umano/animale come ne La bestia, giovane/vecchio come in Lolita, vittima/carnefice come ne Il portiere di notte, aristocrazia/proletariato come ne L’amante di Lady Chatterley e via contrapponendo.
3.Nella norma, col termine “solecismo” si intende una formula linguistica errata dal punto di vista morfologico o sintattico; “altro genere di solecismo – afferma Quintiliano, ed è questo in sostanza che sta all’origine del nostro caso – si verifica quando nel gesto una cosa si esprime con la voce, tutt’altro col cenno della mano.” In un certo senso, lo si potrebbe paragonare a una forma particolare di lapsus, a metà strada tra quello verbale e quello d’azione. E’ opportuno rilevare che se in EN esso ha soltanto l’ovvia – ma non per questo meno ideologicamente censurabile – funzione di rinforzare l’idea secondo la quale le donne sono tutte puttane, il suo statuto resta vero anche con un contenuto opposto: per fare un esempio, un artista sadico e maestro del solecismo come Peter Sotos, è talmente zelante e abile nell’immedesimarsi nelle proprie vittime da svelarsi come latente difensore di chi, almeno all’apparenza, vorrebbe soltanto torturare.
4.Come la quasi totalità degli inserti porno dell’epoca, durano soltanto qualche manciata di secondi ciascuno e ciò li rende interessanti a prescindere dal loro contenuto, più o meno eccitante a seconda dei gusti individuali: proprio perché non insistiti, infatti, per riprendere un’immagine di James Havoc, ci lasciano a delle “impressioni di un viscoso periodo fra cane” (il soft) “e lupo” ( l’hard). Impressioni da un lato di completezza: l’unione dell’eros immaginato e di quello grafico produce l’immediata sensazione, ingenua fin che si vuole eppure constatabile nei fatti, di un ristabilimento verosimile e accettabile della realtà sessuale così com’è nella vita – e dall’altro di incompletezza: la fugacità della visione, infatti, appare sì in grado di produrre un desiderio, ma non di esaudirlo nei modi abituali del porno odierno.
5.L’imperfezione latente di queste scene dimostra anche quanto sia valida per l’uomo – lo spettatore – qualunque la legge dell’accontentarsi nel campo del desiderio: volevo Emanuelle, ma mi faccio bastare una donna che non le rassomiglia neanche troppo. In altre parole, accontentandomi, sono disposto a disconoscere il mio desiderio originario e a lasciare così che venga degradato.
6.Premettiamo di non aver visto la videocassetta a cui si riferisce Rea, bensì una versione comunque comprensiva di tutte le scene porno (da lui citate) de Il pavone nero su internet; francamente, almeno in essa, non ci sembra proprio che la bionda fellatrice possa identificarsi con la Schubert: la camera, infatti, allargando il dettaglio del viso fino quasi al primo piano (cosa che non accadeva nella versione visionata da Rea, nella quale “l’inquadratura aggiunta” è “molto stretta”), mostra un’attrice dai tratti diversi e decisamente più paffuta, mentre è senz’altro Karin – in un totale quasi frontale, viso incluso – a offrirsi allo spettatore nuda e a gambe larghe mentre si masturba (forse erano proprio queste le sequenze “più spinte” che le venivano richieste per il mercato estero). A quanto ne sappiamo, prima del passaggio della Schubert al porno, esiste almeno un altro film, Emanuelle: perché tanta violenza alle donne? (1977) di D’Amato, che nella versione hard presentata nel 2011 da Quadrifoglio mostra una breve sequenza in cui l’attrice, complice un montaggio fatto di inquadrature rapidissime (un po’ come accadeva nella scena fatta passare per snuff in Emanuelle in America, 1976), dà l’impressione di essere impegnata in un vero coito. Ma procediamo con ordine: sottoposta dapprima a un violentissimo pestaggio rappresentato alla maniera grafica dei poliziotteschi dell’epoca, in seguito Karin parrebbe stuprata da almeno uno dei suoi carnefici. Senza dubbio c’è continuità nei gesti dei suoi tormentatori quando le strappano con un unico, feroce gesto lo slip e le allargano le gambe sollevandola di peso; fin qui tutto scorre alla perfezione, la vagina generosamente mostrata allo spettatore è senza dubbio la sua, però dal momento in cui viene ripreso un membro eretto che in seguito sembra scomparire in essa (ma è questione di un’inquadratura quasi subliminale e in più il dettaglio laterale della scena non permette di capire se il sesso maschile entri dentro, scivoli sopra – quasi con uno sfioramento – o si appoggi soltanto a quello femminile) e un personaggio, estratto a sua volta il pene, le si affaccenda da dietro senza che si veda altro al di fuori dei glutei dell’attrice (prima della presunta sodomia), il gioco del regista si fa assai più complicato da seguire per l’occhio del pubblico, anche se lo scopo resta chiaro: con un simile gruppo laocoontico immerso in una scena assai convulsa, D’Amato vuole suggerirci l’idea di una doppia penetrazione laddove in realtà, molto probabilmente, non ce n’è mai stata neppure una.
FONTI
M. Gomarasca / D. Pulici, 99 donne, Milano, Media Word, 1999
“Nocturno Book Blaxploitation”, n. 1
“Nocturno Book Verso le luci rosse”, n. 5
“Nocturno Dossier Al tropico del sesso”, n. 35
“Nocturno Dossier Misteri d’Italia”, n. 47