Rivedendo Tenebre di Dario Argento (1982) mi sono venute alla mente alcune considerazioni che proverò a esporre brevemente. Si tratta di sensazioni vaghe, acuite dall’andare a zonzo in alcuni estivi pezzetti d’Italia.
Tenebre è ambientato in un universo parallelo al nostro (e tutti i film lo sono), un mondo invaso da una luce fredda, televisiva, appiattente, da grande morgue del relax terminale.
In effetti, nel rivedere il capolavoro di Argento mi accorgo di quanto l’estetica mindfulness di quel film abbia influenzato tutto il giallo italiano (e non solo) degli anni ’80, a partire da quel gioiello tascabile che è La casa con le scale nel buio di Lamberto Bava.
Tralascerei però questo aspetto, peraltro già indagato qui sulla Zona: basta andare a rileggere l’articolo scritto con Daniele Vacchino, La Candida Morte.
Quel che mi preme è il cuore di Tenebre.
Non il maniaco o i maniaci con le loro solite patologie deviate; patologie sessuali, sozze quanto basta, tuttavia epurate dallo sguardo asettico della macchina da presa, puntato con particolare utopia scientifica sui luoghi della città, sulle case e lo stesso corpo umano.
In Tenebre, come in quasi tutti i gialli italiani, non vi è mai una emergenza sociale, un panico derivato dai delitti del mostro. Nei gialli italiani non avviene quel che avveniva in contemporanea con certe pellicole, quando il mostro di Firenze uccideva sul serio e spingeva il ministro dell’interno di allora, Scalfaro, a emettere una taglia cospicua o a mobilitare l’esercito.
L’Italia, nell’universo immaginario dei gialli, è un paese sullo sfondo, sfuocato, indefinibile, toccato da un benessere simbolico fatto di stemmi, lucentezza dei marchi. Nel mondo di Tenebre, e qui arrivo a bomba al nodo, tutti sembrano stare bene. Argento si concentra su personaggi di un certo ambiente sociale (scrittori, agenti letterari, gente della tv, giornalisti), un po’ come farà anche Zampaglione nel seguito ideale di Tenebre, ossia Tulpa.
A parte questi caratteri, le comparse, quelli sullo sfondo, nelle rade scene all’aperto, passeggiano tranquilli, ordinati e rarefatti, come delle controfigure imbeccate da qualche Truman Show. Le piazze di Tenebre sono vuote o piene, comunque nullificate da un brulichio indistinto di facce, pedoni, corpi asciugati da qualunque forma di differenza sociale. In Tenebre, a parte il folkloristico barbone all’inizio – più resilienza d’un guardone satireggiante che un homeless – tutto e tutti sembrano marciare verso un’unica direzione al silicone. Quello era il mondo della televisione, dell’apparenza, di certi stili di vita emanati dalle tv private di Berlusconi. Appena trent’anni dopo l’universo di Tenebre sarebbe stato invaso dalle app rivoluzionarie della Silicon Valley. Quel mondo all’apparenza perbene, tranquillo, rarefatto su un individualismo trasparente uniformato da medesime esigenze di mercato, avrebbe raggiunto il suo zenith consumistico con l’avvento della smaterializzazione di massa. E già in Tenebre si annusa questo svanire negli arredi minimali e inconsistenti delle case, tanto che la taccheggiatrice Ania Pieroni ha una casa solare imbevuta di spazi vuoti e luce, unità abitativa futuribile e inservibile, adatta a soddisfare i desideri interiori di un consumatore fidelizzato. I luoghi vuoti, senza un’identità precisa, fanno da contraltare, da sepolcro alle varie figure sfuocate che si muovono sullo schermo. Le funzioni corporali, le esigenze primarie (mangiare, curarsi) in Tenebre sembrano assolte, raggiunte da quasi tutti. Anzi proprio da tutti. Probabilmente a parte i delitti trascurabili del maniaco non vi è alcuna emergenza sociale, politica o culturale. La tenuta sociale del paese irreale sta tutta nell’apparenza di concordia e benessere diffuso, superficiale, che emana dagli ambienti. Tenebre pare la materializzazione di certi incubi sociali di George Orwell e Aldous Huxley, dove, dopo la fine del lavoro e le lotte di classe del XX secolo si è passati a una fabulazione morbida, senza contrasti o terrorismi (se non quelli esotici e 2.0 dei tagliagole dell’Isis), una fabulazione che ci fa sentire tutti appagati e grati di abitare nel migliore dei mondi possibili. La Silicon Valley ci culla con promesse tecnologiche di meraviglia, spingendoci a dimenticare le disuguaglianze senza precedenti di quei pochi monopolisti che accumulano ricchezze incalcolabili sulle spalle di tutti noi. Razze che dominano su alte razze. Classi che dominano su altre classi. L’ideologia che sorregge l’universo sociale di Tenebre appare caratterizzata da una certa uguaglianza di status, forse perché non è possibile fare altrimenti, essere altrimenti. Probabilmente in Tenebre certe ideologie biologiche hanno avuto il sopravvento, convincendo la gente che la società in cui vive è buona e giusta e che le rivoluzioni borghesi d’Inghilterra, Francia e America sono state superate, archiviate, in favore di una selezione naturale in cui i geni del nostro DNA caratterizzano in modo innato ogni aspetto della nostra vita. Vi sono geni per la religiosità, per essere un manager di successo, per l’affermazione sociale, o geni difettosi, piccoli dettagli molecolari che potrebbero avvisarci in anticipo su qualche fisiologia anormale da isolare, eliminare (un po’ come avveniva ne Il gatto a nove code). In Tenebre la grande selezione sociobiologica è già avvenuta. Gli individui particolari, i tossicodipendenti, gli alcolisti, i malati di gioco, sono svaniti, forse epurati in qualche fast-food da lager. Al loro posto individui che hanno superato le selezioni, che hanno portato a compimento un programma evoluzionistico fatto di xenofobia, paure, misoginia e ignoranza assoluta. Nella società della felicità di Tenebre non si parla (come farà con grande originalità Zampaglione in Tulpa) di lavoro o lavoratori. Da questo punto di vista il lavoro è semplicemente una forma di utilità negativa, qualcosa di opposto alla felicità facile dell’uomo di successo Peter Neal, ancora praticata (in Tulpa) per guadagnare più soldi da spendere in esperienze piacevoli e futili.
E dal 1982 a questo 2017?
Oggi le economie occidentali sono molto più povere di quanto la tendenza precedente al crollo dei mercati lasciasse prevedere. La crisi e le sue conseguenze hanno lasciato i giovani, in particolare, con poche speranze e opportunità. Nonostante questo, e nonostante i ritmi alienanti impressi alla manovalanza lavorativa odierna, se camminiamo in giro per una qualunque cittadina balneare italiana, a parte qualche profugo sbarcato e parcheggiato su una panchina con ciabatte e cellulare, non distingueremmo differenze di classe particolari. La gente camminerà tranquilla, persino sorridente, in bermuda, magliette, reggiseno, camicie aperte fino all’ombelico, cappellini e cellulari di ultima generazione tra le mani. Da qualche parte avranno una bella auto, persino una bella casa, in un quartiere periferico appena ristrutturato, circondato da villette identiche, gemelle. E non importa se su tutto questo pesano mutui, prestiti, Ape o altro. Quel che importa è partecipare a questa apparenza e rivendicare un individualismo di facciata, che nasconde una omologazione impressionante, senza più differenze, contrasti, ribellioni. Ognuno di noi poi, nonostante le mille difficoltà per arrivare a fine mese, continuerà a marciare in questa direzione, magari ricorrerà a un aiuto chimico, visto che il manicomio farmaceutico sorregge chiunque ai minimi segni di tristezza, rabbia, disattenzione. Il farmaco si usa sul lavoro, in camera da letto, a scuola, ovunque. Il maniaco di un giallo italiano è trascurabile. Le macchie solari, le vampe, i cambiamenti climatici possono giustificare il pazzo di turno e il suo empio operato. E Zampaglione aveva ben capito tutto questo, quando ha ripreso l’universo di Tenebre, sporcandolo appena un pochino e rendendolo un po’ più notturno, affidando la scena a un manipolo di manager dopati dall’urgenza imperante della ristrutturazione aziendale e il taglio del personale.
Quanta solitudine (architettonica, spaziale, culturale) si respira in questi film. Premonizioni di un sanitarium globale, di un’azienda totale dello sfruttamento dell’animo umano (e su questo bisognerebbe rivedere uno sceneggiato molto bello come Il Bosco, diretto da Eros Puglielli nel 2013), dove le persone sono automi da programmare per il proseguimento della tarda modernità. Tarda modernità caratterizzata da un’accelerazione totalitaria che produce gravi forme di alienazione in coloro che non riescono a stare al passo.
Ed eccoci alla fine: quel che mi interessa maggiormente in Tenebre di Dario Argento è proprio quello che non c’è, ossia cos’è capitato, cosa capita, cosa capiterà a chi non riesce a stare al passo con questa dromologia, con questa vigente vita buona offerta a ognuno di noi. L’idea di fondo è che i ritmi già accelerati di Tenebre siano cambiati, irrisolti in una contrazione del presente per risparmiare tempo e risultare sempre più competitivi. E nessuno può più alzare la mano e chiamarsi fuori o invocare l’infermità mentale, sicuro che prima o poi una qualche forma novecentesca di welfare possa parcheggiarlo da qualche parte, magari in mutande a timbrare un cartellino. Ora l’ideologia della competitività e della prestazione va ormai ben oltre la sfera economica e invade la biologia del corpo, trasformandoci in avatar del consumo eterno costretti a rincorrere un duro lavoro che può garantirci soltanto una sopravvivenza fittizia, una povertà reale, un’assenza d’identità e una depressione magari curabile in qualche campo di addestramento alla felicità di Amazon.