1
«Giornata piovosa, maledetta perturbazione.»
«Tu sei perturbato in testa, Federico!»
Voleva fare la simpatica, e di solito ci riusciva, però in quel momento Federico era assillato da un pensiero ancora poco chiaro e quindi non rispose alla sua fidanzata che, per attirare la sua attenzione, gli sbuffò una nuvoletta grigia di fumo in faccia.
«Ci sei? Ti sei offeso?»
«Cosa? No, che dici? Per così poco? E poi lo sai che io sono matto, che vuoi farci?»
«Tu sei normale, è il mondo attorno a te che è matto.»
«Forse hai ragione, Manuela, eppure sento che non sono del tutto normale, forse per la mia spiccata fantasia, chissà.»
Manuela sorrise spegnendo la sigaretta nel posacenere tenuto in mano.
«Se tu fossi matto, lo sarebbe tutto il mondo.»
Federico non volle ribattere, si limitò a sorridere e la baciò teneramente sulla guancia.
«È ora di andare, abbiamo fatto tardi.»
«Non è ancora tardi», sottolineò lei.
«Ma lo sarà, con tutto il traffico che troveremo.»
Lei roteò gli occhi e si alzò dalla sedia.
«Mi trucco, metto le scarpe e scendiamo.»
Lasciò il suo fidanzato e convivente da solo nei suoi pensieri.
Federico stava attraversando uno strano momento; rimasto senza lavoro stabile e con una stretta visuale di vita dinanzi, aveva imparato a convivere con l’ansia che lo aveva caratterizzato per tutta una vita: adesso era il suo cavallo di battaglia e gli sembrava di lavorare meglio quando ce n’era in abbondanza. E di ansia ce n’era sempre.
Tornò alla sua postazione da lavoro, il computer, e corresse l’ultima bozza conclusa: lavorava come freelance per riviste specializzate in informatica e nel tempo libero, troppo, fantasticava e inventava lavorando su APP di sua creazione e scrivendo racconti brevi che puntualmente non gli fruttavano nulla.
Manuela era molto diversa da lui, era una donna in gamba, laureata, intelligente, lavoratrice. L’amava. Federico spesso si chiedeva come facesse lei ad amare un uomo con così poche carte in tavola come lui, ma poi scrollava le spalle e ringraziava tutti i santi in paradiso per la compagna che aveva.
«Inutile pensarci su», sussurrò, ma Manuela lo sentì.
«Ancora perso in quell’articolo, tesoro?»
«Eh, cosa? No pensavo tra me e me. L’articolo è pronto e corretto, ora lo invio e scendiamo.»
«Bravo», rispose lei, indossando l’orologio e controllando che in borsa ci fosse tutto il necessario. «Allora, a cosa non dovresti pensare?»
«A tutto: la mancanza di lavoro, la mia ostinazione a scrivere racconti che nessuno leggerà mai, i fantastici progetti che, senza soldi, non avvierò neppure…»
«Ho capito, sei in un momento di depressione. Adesso alza il culone che ti ritrovi e muoviamoci ad andare dai tuoi. Altrimenti dici che “io” ho fatto tardi.»
Detto ciò, Manuela lo baciò sulle labbra, lasciandogli il sapore del lucido sulla lingua, ma a Federico non dispiacque.
2
«Abbiamo fatto tardi», sbuffò Federico.
«Lo sapevo«, rispose Manuela, «adesso dici “abbiamo”?»
«Beh, in auto siamo in due, no?», rispose ironico lui.
«Giusto, vuoi che chiami i tuoi?»
«Lascia stare, si sblocca qualcosa e il garage è proprio qui.»
Detto fatto, Federico sterzò e si infilò nella discesa che lo condusse al box auto: un buco fetido e malato disinfestato dai topi, almeno così diceva il cartello, eppure alcuni esemplari facevano capolino di sera.
Parcheggiare al solito posto fu semplice, e quando Federico raggiunse Manuela, che l’aveva aspettato nella parte esterna del garage, la trovò che gli dava le spalle. Stava parlando con qualcuno. Bisbigliava e dalla posizione, giù alla discesa, dalla quale Federico la osservava, non riusciva a scorgere l’uomo, ma ne vedeva la giacca verde e l’ampia altezza. A Federico il cuore salì in gola quando vide la sua fidanzata abbassarsi un poco, sporgersi verso l’altro. “Che si stiano baciando?” pensò e si odiò per questo. Affannandosi, l’uomo si affrettò a coprire qualche altro metro, vide sempre più il corpo della sua fidanzata, in piedi accanto al cancello d’ingresso. Lei si era accesa una sigaretta e fumava sbuffando nuvolette grigie verso l’esterno del garage. Accanto a lei, nessuno. Il verde che Federico aveva visto e trasformato mentalmente in una giacca era in realtà il rivestimento del cancello.
“Sono un idiota, mi farò venire un infarto un giorno, per aver visto un mostro che non esiste. Che sia maledetta la mia immaginazione mortale!” Quando Federico concluse questo pensiero, era accanto alla sua fidanzata che, con aria assorta, osservava l’esterno.
«Qualche problema?», chiese lui, osservando il volto di lei, bello, candido e dagli occhi glaciali, anziché guardare fuori.
«Tempo da schifo. Tutto qui. Mi bagnerò i capelli, mannaggia!»
“Ah, giusto, i capelli, per Manuela sono importanti, nonostante io li trovi bellissimi sia quando sono ordinati e lisci che quando sono irti e selvaggi.”
«Ho preso l’ombrello, andiamo adesso, faremo tardi.»
«Sei da sposare», esplose lei, baciandolo e facendo suo l’ombrello.
«Lo so», rispose lui, sorridendo e grattandosi la nuca.
“Se solo tu sapessi cosa mi passa per la testa certe volte, mi odieresti” pensò, ma non disse nulla, ringraziando ancora una volta la splendida compagna dalla chioma dorata.
3
Il pranzo con la famiglia di lui fu soddisfacente e abbondante. Dopo pranzo, Federico e Manuela si accesero una sigaretta sul balcone della cucina. Dal basso, provenivano rumori stridenti e raccapriccianti.
«Ma cosa c’è qui sotto?» chiese Manuela, cercando di distinguere dall’odore e dai rumori stridenti e acuti l’attività svolta nel capannone sul quale affacciava la casa familiare di Federico.
«Una vecchia fabbrica.» Disse lui, tirando forte con la sigaretta.
«Fanno mobili di legno, li vendono per antichità ma valgono quattro soldi. Un commercio redditizio. Pagano il pizzo, ovvio, ma ci guadagnano abbastanza da comprarsi un palazzo.»
«Addirittura?»
«Certo. Non in questo quartiere malfamato, al centro l’hanno preso. Nelle zone migliori della città. Vedi quel capanno lì accanto?»
Indicò un punto del tetto dal colore argentato, un rivestimento in alluminio.
«Lì fanno le vernici, spruzzano il legno e poi in quell’altro posto…»
Federico indicò un appezzamento di terreno che in tempi migliori era stato un campo di calcetto. Era ancora presente la porta arrugginita, con tanto di rete bucata.
«Lì espongono i mobili, tutti accatastati uno sull’altro alle intemperie e quando c’è sole e fa caldo ci buttano su dell’olio di colza di prima mattina, e poi una bella secchiata di fango ogni due ore.»
«Perché tutto ciò?», chiese incuriosita lei.
«L’effetto antico è difficile da ricreare, ma in questo modo sono riusciti a truffare buona metà dei negozi che si forniscono da loro e l’altra metà invece è a conoscenza degli sporchi trucchi, ma ci guadagna troppo per denunciarli. Insomma un vero affare.»
«E ci guadagnano tutti?», chiese Manuela a metà tra l’affascinato e il disgustato.
«Ovviamente no. La pittura? Cancerogena. Non solo per chi ci lavora, ma anche la gente che abita negli edifici lì attorno. Le schifezze che buttano sui mobili, invece, avvelenano il terreno e già da anni non ci cresce più l’erba lì sotto. La fabbrica di mobili è il piatto forte: ufficialmente non esiste, quindi se qualcuno ha un brutto incidente sul lavoro, del tipo perde un braccio o un occhio, viene licenziato e se parla con le autorità, scompare.»
«Cazzo!»
«Già.»
«Nessuno li denuncia?» chiese Manuela ma subito scosse la testa, aggiungendo «Se nessuno li tocca, immagino siano ben protetti.»
«Brava, tesoro, vengono appoggiati da uno che al nord ha costruito una città intera e ora fa politica.» Federico spense la sigaretta sul cornicione del davanzale e gettò il mozzicone giù, centrando una pozza d’acqua.
«Il bello, di tutto ciò, è quell’altro edificio, per la precisione il muro qui alla nostra destra.»
Federico indicò il possente muro in mattoni di tufo, tutto bucherellato e abitato da uno stormo di piccioni.
«Vedi come finisce? Lì sotto c’è una sacrestia perché questo muro è della chiesa che si vede dalla strada, guarda…»
Indicò con il dito indice un punto preciso. «Lì c’è una vetrata a mosaico, da qui si vede alla rovescia, ma è Gesù sulla croce. Lo vedi?»
«Si…» Sussurrò lei, mordendosi un labbro: non le piaceva vedere la religione mischiarsi con gli affari sporchi del mondo. Le saliva sempre acidità allo stomaco quando questo accadeva.
«Segui la parete, fino in fondo, lì nell’angolo.»
«La casupola arancione! Ha una porta verso la fabbrica di vernice!», disse lei sorpresa.
«Esatto, ogni tanto qualcuno apre la porta, mette a terra un paniere coperto. Passa un individuo dalla fabbrica di vernice, infila qualcosa dentro il paniere, bussa e…»
Federico non finì la frase, fu distratto da qualcosa. Manuela stava pensando a tutto quello schifo e sussurrò, senza guardare un punto preciso: «È uno schifo, mi fa accapponare la pelle questa merda.»
Si accorse che il suo fidanzato era rimasto
con gli occhi fissi in un punto, la bocca aperta di poco, come se stesse calcolando qualcosa oppure parlando dentro di sé.
«Tutto bene, Fede?»
«Cosa vedi lì?» chiese a sua volta l’uomo, indicando l’edificio arancione di cui avevano parlato poc’anzi.
«Mmmh… immagino tu non voglia sapere nulla riguardo la casupola, vero?»
«Dico sopra, in quello spazio tra il tetto e la finestra dove adesso si sta infilando un piccione.»
Federico aveva alzato il tono della voce e Manuela non capiva cosa stesse succedendo.
«Non vedo niente, Fede! A stento vedo la casupola!»
«Dannazione! Guarda bene!» La esortò lui, facendosi rosso in volto e respirando affannosamente. Le gambe di Manuela si fecero molli e il cuore le salì in gola, ma ancora non riusciva a vedere niente.
«Sicuro non sia la tua dannata immaginazione? Certe volte mi spaventi.»
Senza attendere che lui rispondesse, aggiunse: «Aspetta, prendo gli occhiali e torno.»
Fu velocissima, prese gli occhiali dal tavolo della cucina e uscì nuovamente, ma qualcosa in Federico era cambiato nell’arco di quei sei secondi.
Si stava guardando attorno.
Manuela, dopo alcuni istanti, capì: erano osservati. Vicini e dirimpettai li fissavano, in attesa di qualcosa. In ascolto.
Federico serrò le labbra, cinse la mano attorno alla vita di Manuela, che osservò il punto che Federico aveva disperatamente indicato fino a poco prima. Poi tornarono dentro, chiudendo il balcone.
«Si può sapere cosa hai visto?»
«Un orologio, di sicuro.»
«E quindi? Non può essere caduto dal palazzo accanto, oppure essere stato portato da qualche uccello?»
«No. Il problema è che l’orologio era circondato da un nugolo di mosche, che banchettavano con un braccio, verde, gonfio e in putrescenza.»
«Sicuro?», chiese lei con un filo di voce e preoccupata.
«Sai che ti dico? Non mi interessa. Torniamocene a casa.»
4
Il cuore di Federico batteva selvaggiamente dentro il petto, come a scavarsi una via di fuga attraverso le ossa e le carni verso una libertà che sarebbe costata la vita. Aveva fatto un incubo, sognato di qualcuno o qualcosa che gli divorava i piedi. Ricordò, era il fuoco, divampante e famelico, ma scuro come l’anfratto sotto il tetto di quel maledetto capanno arancione.
«Non rispondi al telefono?»
Era Manuela. Si era appena svegliata. Era il cuore della notte e Federico non si era accorto di esser stato strappato via dall’incubo grazie alla suoneria del suo cellulare.
«Diamine! Ecco cos’era!» imprecò, afferrando il piccolo aggeggio e cercando di leggere il nome di chi chiamava con tanta insistenza. Quando lesse “mamma” si sentì perduto.
«Pronto?»
«Ciao Federico, qui stiamo tutti bene…»
Lui riconobbe, nella voce della madre, il pianto appena conclusosi. Inoltre, perché cominciare una discussione con quelle parole? Cosa era accaduto?
«Mamma? Cosa è successo?»
«Qui tutto bene, ci siamo affumicati. La chiesa è andata a fuoco. È bruciato tutto, ora ci sono i pompieri, ma noi siamo dovuti scendere da casa perché sopra non si poteva più stare. Non si respirava!»
Manuela sentiva le risposte affrante e tese di Federico. Quando lui salutò la madre, le spiegò l’accaduto. Lei lo rassicurò e lo fece calmare. I genitori stavano bene e la casa era soltanto affumicata, non bruciata. Sarebbe tornato tutto come prima. Quando Federico si fu calmato, si accese una sigaretta ai piedi del letto, sbuffando nuvolette azzurrastre verso la finestra.
Manuela gli si sedette accanto, abbracciandolo teneramente.
«Incredibile, proprio questo pomeriggio mi raccontavi della fabbrica e…», mentre pronunciava quelle parole, le venne un dubbio.
«Non crederai che c’entrasse con la storia dell’orologio?»
«Non posso saperlo. È stato tutto consumato dal fuoco. Rimarrà il dubbio, ma niente di più. Siamo fortunati.»
«Fortunati?», chiese lei, scuotendo la testa. «Perché dici ciò? Chiunque sia stato, non ha esitato un solo istante a mettere a repentaglio la vita di tutti i condomini dei palazzi limitrofi al capanno. Ti rendi conto di cosa potrebbe significare?»
«Che sono pazzo. E forse sto contagiando anche te. Non sappiamo nulla di certo. Forse ho visto qualcosa lì sotto, ma non lo sapremo mai. Sappiamo solamente che è un altro giorno di vita insieme, e quindi un altro giorno fortunato! Adesso vieni a dormire.»
In effetti Manuela aveva valutato questa ipotesi: la pazzia di Federico era un argomento da valutare seriamente. La sua immaginazione andava oltre i limiti del comune e sfociava nella follia. “Forse non è successo niente”, pensò lei, “oppure c’era realmente qualcosa, i vicini hanno sentito il baccano di Federico e…”
Il dubbio le rubò il sonno per tutta la notte; l’unica certezza che ebbe al mattino fu: “Federico deve farsi vedere per quella sua immaginazione mortale”.
Ma non lo disse mai a lui.
(1 – continua)