Intro
Mi chiamo Federico e credevo di essere un ragazzo normale. Adesso non so più cosa sono, se pazzo o molto fortunato. Ho cominciato a fare sogni strani dopo questo episodio che mi accingo a raccontare. Prima di allora avevo una vita normale, un lavoro d’ufficio, convivevo con Manuela e sporadicamente tornavo a trovare i miei genitori a Roma. Questa è la storia di quell’ultima volta che sono tornato a casa loro. Ero recentemente stato assunto da una società e mi ero trasferito in Puglia. Nonostante il mio sogno fosse lavorare con creatività e l’enorme mia immaginazione, mi ritrovai a fare il contabile. La coincidenza che l’assunzione fosse sopraggiunta il giorno dopo l’incendio nel palazzo dei miei non mi aveva impressionato più di tanto e il lavoro non mi dispiaceva, seppur lontano dai miei progetti. Procediamo con ordine: tutto cominciò quando la giornata lavorativa finì.
Celebrazione di un idolo di metallo
Giornata impegnativa a lavoro. Tutto il dì con la testa china sul monitor in quel noioso lavoro di pratiche e burocrazia: un noiosissimo lavoro d’ufficio a Triluzzano, paesello di provincia, arroccato sulla montagna che ha avuto l’ardire di affacciare sul mare e di contare cinquemila abitanti, dove mi ero trasferito con Manuela, la mia compagna, salvo poi tornare sporadicamente a Roma, la mia metropoli preferita, a trovare i miei genitori.
Era un giorno come tanti, salvo il fatto che era venerdì e il tardo pomeriggio mi avrebbe visto protagonista del ritorno alla mia amata Metropoli romana. Finito di lavorare avevo rimesso a posto tutte le cartacce, chiuso il PC e mi ero preparato psicologicamente al viaggio verso casa: mi attendevano duecentottantasette chilometri, spalmati tra quaranta chilometri di strada montana, dodici di tunnel mal tenuti, settanta di strada statale irta di fosse e centosettantacinque di autostrada costantemente in manutenzione straordinaria. Tutto normale, nulla che non facessi almeno una volta al mese.
Uscii dall’ufficio e mi fiondai attraverso l’aria gelida dell’inverno in quell’interessantissima figura nera e sportiva della mia auto: un’Alfa nuova di pacca, lucida e aggressiva. Nell’auto presi il cellulare e scrissi a Manuela: “Si parte, sperando di scansare i camion!”. Accesi il quadro, ammirai per un attimo i colori degli interni rossi e neri e misi in moto. Misi la freccia a sinistra, mi staccai dal marciapiede e imboccai la strada: il viaggio verso la fine della mia vecchia vita era cominciato come un venerdì sera qualsiasi! Partii verso casa.
La distrazione degli stolti rende saggi i saggi
Le prime curve, quelle nel paesello, fatte di stradine irte di sensi unici alternati e divieti di accesso, erano la cosa più naturale potessi vedere a quell’ora, nonostante piovesse a dirotto, come se Dio stesse morendo disidratato a furia di piangere di risate per le cazzate degli uomini. Per il corso principale c’era ciò che a Triluzzano chiamano “traffico”: sette auto una dietro l’altra, ferme perché nella prima l’autista parlava col cugino di una cugina che non era suo cugino.
Avevo fatto le prime stradine, attraversato in ben quindici secondi netti il corso principale con l’ufficio delle poste e il municipio, e già mi sentivo felice per starmi allontanando sempre più dal luogo ove lavoravo. Mi diressi al distributore di GPL, serpeggiando per una stradina secondaria piena di fossi, ad un chilometro circa dal centro, dove c’erano ancora un sacco di abitazioni. Sfrecciavo con la mia macchina quando sul lato opposto della strada, appena superata una curva, un camion con tanto di rimorchio oscillò a causa di una grossa buca e deviò nella mia carreggiata. Io subito rallentai. Scansai l’altro veicolo gettandomi a capofitto nella piazzola di sosta della pompa. Il camion uscì di strada, bloccandosi in un fosso. Nessun ferito. Se non mi fossi spostato sarei rimasto schiacciato, ma ebbi fortuna.
Mi fermai, posizionando l’auto accuratamente accanto al distributore di gas, e notai che il benzinaio era già fuori… ma non per servire me. Infatti stava andando a soccorrere il camionista che nel frattempo stava uscendo sbraitando dal camion impantanato, imprecando in modo molto scurrile in dialetto. L’uomo si rivolse a me in modi orribili e indicibili. Ignorai le offese con una scrollata di spalle e attesi che il benzinaio venisse a servirmi. Arrivò in un batter d’occhio, sconvolto per quello che era successo e con tanta voglia di parlare.
Io accennai un debole sorriso e indicai con una certa disinvoltura l’adattatore del serbatoio. Il benzinaio ancora scosso cominciò ad agire in modo meccanico mentre parlava con i suoi colleghi o proprietari della pompa che stavano chiamando i soccorsi e qualcuno cercava di tranquillizzare il camionista che avrebbe voluto darmele di santa ragione. Che autentico bifolco.
Ho già detto cosa trasportasse il camion impantanato? Era un camion pieno di carburante, fermatosi proprio a pochi metri dalla sua destinazione.
Mentre il benzinaio faceva il pieno alla mia auto, approfittai della sua distrazione verso la strada per scattare una foto alla sua persona. Con il cellulare immortalai l’uomo alle prese con la pompa, mentre stringeva la sigaretta tra i denti e guardava l’altro lato della strada. Subito condivisi la foto, commentandola “qui ci – scoppia – una risata? Accade adesso, a Triluzzano”.
Pagai il pieno, avviai l’auto dopo aver pagato e mi immisi nello stradone mentre una Audi bianca prendeva il mio posto alla pompa di gas. Il camion pieno zeppo di carburante gassoso in forma liquida era ancora impantanato, ma il carroattrezzi stava dando una mano. Presto sarebbe uscito dal fosso e la storia sarebbe terminata. Ma non fu così. Fu come un sogno.
Sentii, da oltre trenta metri di distanza, mentre il mio stereo sputava fuori le prime note di “Fuel” dei Metallica, il rumore di una pietra focaia strofinare contro il metallo e una scintillante stella mattutina grande quanto la testa di uno spillo scaturire da questo incontro. Subito fu giorno.
Il ruggito che proruppe fu come un drago che si calasse sulla strada distruggendo ed incendiando tutto ciò che incontrava. Un secondo ruggito e poi un terzo. Il mio cuore accelerava mentre decine e decine di altri cuori fermavano per sempre i loro battiti. Dallo specchietto retrovisore vidi colonne di fuoco divorare l’orizzonte. Una ecatombe.
Quel povero disgraziato del benzinaio doveva essersi distratto quel tanto in più che gli era bastato per dimenticarsi completamente della pompa eroga-gas al suo fianco e aver provato ad accendersi la sigaretta. Un botto coi fiocchi. Seguito dal camion pieno zeppo di GPL.
Altre esplosioni seguirono. Le tubature della città coinvolgevano le case accanto al benzinaio e per tre isolati ci furono esplosioni di auto e finestre distrutte.
Capitemi, può darsi che non fossi del tutto insensibile alla sofferenza del momento, ma lo shock causato dall’esplosione, unito ad un forte istinto di sopravvivenza, mi permisero di accelerare quel tanto che bastava per non essere raggiunto dai draghi fiammeggianti e urlanti che mi rombavano alle spalle, mentre la sorridente, ma neppur tanto, cittadina che lasciavo bruciava nell’inferno e nel caos più completo. Continuai verso casa.
Il buio aveva i miei occhi
Strada costiera fu. Lasciatomi finalmente alle spalle il disastro accaduto nella triste cittadina di cinquemila anime, scivolavo velocemente sull’asfalto aggredito, ai bordi, dalla natura che corrodeva millimetro dopo millimetro la stradale sicurezza umana, scambiandola con radici ed erbacce, crepe e dossi. Il tutto rendeva pericolosa quella strada sinuosa, arrampicata sul monte e a strapiombo sul mare, abitata in ogni angolo da quadrupedi e volatili sempre pronti a balzar fuori dal nulla, appena la notte diventava meno fitta grazie ai fari delle auto che avrebbero rischiato di buttarli sotto.
Ancora sconvolto dall’accaduto, mi fermai dopo la terza curva, lì dove un breve rettilineo permetteva un momentaneo ristoro. Uscii dall’auto e asciugai la fronte madida di sudore. Accesi una sigaretta e ne trassi grandi boccate, attendendo di calmarmi. Presi il cellulare e, in preda a un delirio, scrissi quanto segue: “Triluzzano in fiamme. L’inferno è sceso sulla terra. Mi spiace per tutte quelle povere anime, sono scampato per miracolo.”
Rilessi il post e vidi qualcosa nella mia mente: era domenica mattina, eravamo in campeggio io e una decina di amici, sotto il sole cocente ci abbronzavamo e aspettavamo il tramonto per mettere la carne sul fuoco. Aprii una birra e ne bevvi un sorso, mentre gli altri mettevano la carne su enormi griglie per poi stendersi anch’essi sui ferri roventi. Io ridevo.
Alla fine del post aggiunsi “E’ tempo di grigliata, che Dio mi perdoni se rido.” La mia fantasia mi stava avvisando di qualcosa, ma una parte di me cercava disperatamente di non crederci. Fumai una seconda sigaretta e mi rimisi in auto.
Tornai sulla serpeggiante strada tortuosa e spaccata che mi allontanava da Triluzzano.
L’aria era umida e bagnava l’asfalto, rallentai il passo per non perdere aderenza. Seguivo attentamente la strada, sporadicamente intravedevo occhi traslucidi puntati verso me. Animali di piccole e medie dimensioni osservavano nel buio. E io osservavo il buio, scrutando attraverso di esso, ferendolo con i fari della mia Alfa. Il buio aveva i miei occhi.
Superata la prima metà del tragitto, mi arrampicai sull’irta salita del monte di Triluzzano. Superato il punto più alto, cominciai la discesa. Fu allora che il buio venne ferito. Non furono i fari della mia Alfa a farlo, ma qualcosa di molto più luminoso e aggressivo. Sperso nell’orizzonte, dal basso rispetto alla mia posizione, poco distante dal mare, una folgore aveva illuminato un ettaro di mare.
Ero distratto. Mi resi conto della mia distrazione un attimo prima di schiantarmi contro il bordo strada. Sterzai con vigore e tornai in carreggiata concentrandomi nuovamente sulla strada. Due curve e in lontananza rividi la luce. Cominciai a sospettare che qualcosa di sinistro fosse accaduto. Una terza curva mi rivelò maggiori dettagli della mia precedente visione: qualcosa era fermo e sprigionava una forte luce, ma era molto più distante e molto più luminoso di quanto non avessi pensato la prima volta, scorgendola al di là di due tornanti. Era grande. Mi ricordava una cosa che avevo letto da ragazzo su un libro fantasy dove una popolazione morente si riuniva in angoli dimenticati dell’universo e, quando erano riuniti, emanavano una luminosità arcana, fredda e misteriosa che faceva fuggir via gli abitanti del luogo terrorizzati. Dovevano chiamarsi abitanti di Antra ed erano delle creature longilinee e potentissime nonostante il loro mondo fosse stato distrutto da qualche oscura divinità dello spazio profondo. Ma questa era la realtà. O, perlomeno, una visione di essa.
Dopo altre due curve mi fu chiaro con ineluttabile certezza che l’enorme luce splendente nella notte altro non era che tante fiamme ardenti. Rallentai per timore di rimanere coinvolto in un incidente. Lo feci appena in tempo. Soltanto una curva più tardi, vidi una candida e torreggiante mucca puntare il muso verso di me. Era a bordo strada e la evitai per miracolo. Accanto a questa ce ne erano altre tre che si spostavano con noncuranza sulla strada verso la direzione dalla quale venivo. Le evitai per un soffio, grazie all’andatura rallentata.
I segni di terriccio, sparsi in tutta la carreggiata, mi fecero intuire la provenienza di quegli animali: un pascolo situato sulla collina sopra la strada. Dovevano aver oltrepassato il filo elettrificato ed erano finite giù, rotolando per una decina di metri fino alla strada sottostante. Per fortuna, in quel punto, la parete della collina era scoscesa. Più avanti, invece, l’inclinazione era ad angolo retto.
Altre due curve e finalmente giunsi alla fonte di luce, dove una cascata di fuoco aggrediva le piante sui bordi della strada. C’erano sangue e pezzi di carne ovunque. Altre mucche dovevano essere cadute qui, precipitando nel vuoto. Si erano schiantate su due veicoli in transito. Per gli automobilisti coinvolti non c’era stato niente da fare. Due auto erano state schiacciate e sperare in superstiti era inutile.
Il calore sprigionato dalle fiamme dei veicoli era elevato, potevo sentire lo sfrigolio della carne. Una cacofonia di odori insopportabili penetrava i filtri dell’auto avvolgendomi come un sudario nella notte prima dell’ultimo buio.
Mi lasciai alle spalle le carcasse di metallo fuse per sempre alle carcasse organiche mentre la nausea mi avrebbe presto costretto a un’altra pausa. Ripresi il viaggio verso casa.
…e la strada, e tutte quelle altre cose che ci portiamo dietro nei ricordi
Finalmente mi ero lasciato alle spalle gli orrori indicibili della piccola provincia. Ero nella civiltà. Circondato da una sfilza di cartelloni verdi e scritte bianche indicanti paesi e distanze, segno dell’ormai cominciata autostrada, sentii il bisogno impellente di fermarmi nel primo Autogrill.
Presi la prima uscita utile, fermai l’auto sotto la scritta luminosa della piazzola ristorazione e corsi in bagno, trovandolo vuoto. Mi tenni alle pareti in plastica del box bagno mentre ero chino sulla tazza. Riversai uno, due, tre conati furiosi e abbondanti, mentre lo sciacquone automatico impazziva nel tentativo di pulire il tutto. Uscii dal bagno stravolto, mi trascinai fino al lavello e sciacquai viso, collo, mani e polsi. Solo allora mi accorsi che c’era un’altra persona adesso, mi osservava e scuoteva la testa. Era un ragazzo indiano sulla ventina e si portava appresso gli strumenti per le pulizie. Mi parlò in un buon italiano, nonostante si sentisse l’accento straniero.
«Mangiato cibo avariato? Denunciali.»
Scossi il capo e sorrisi mio malgrado. «Sarebbe stata una fortuna. Ho visto qualcosa che mi ha spaventato e disgustato.»
«Qui, sull’Autogrill?» mi chiese, cominciando le pulizie con la pezza.
«No. Sulla strada.» Un attimo dopo aggiunsi qualcosa, vedendolo chiaramente nella mia mente e godendone inconsciamente. «La strada cerca di non farmi tornare a casa. Vuole inglobarmi, divorarmi e dimenticarsi di me.»
Il ragazzo scosse nuovamente il capo, con maggior vigore di prima, e tentò di rassicurarmi a modo suo. «E tu denunciala! Così non lo fa più.»
Qualcosa stava succedendo al volto del ragazzo, mentre mi parlava la sua testa cominciò a sanguinare. Dapprima la fronte perse una goccia di sangue che gli rigò il volto, poi questo si deformò in un ghigno impossibile, deformato e spaccato, come se fosse stato schiacciato a metà. Stessa cosa cominciò ad accadere al suo corpo. Il braccio sinistro si spezzò in due, il torace venne perforato da parte a parte, le gambe tranciate di netto.
«…solo così ci possiamo difendere. Al mio paese studiavo legge, ma guardami dove lavoro ora. Ehi amico, mi stai ascoltando?»
Tornai a osservare il ragazzo indiano e mi accorsi che nulla di quanto visto era accaduto. Era in perfetta forma. Mi guardai attorno in cerca di una spiegazione alla visione, ma non ne trovai.
«Sembri fuori di testa, sicuro di non aver fumato qualcosa che ti ha fatto male?»
«Solo sigarette e quelle di sicuro mi fanno male. Come ti chiami?» Posi la domanda sentendo che “qualcosa” stava per arrivare. L’ansia cresceva in me, ma non volevo ancora andarmene.
«Daruka, qui mi chiamano Dario»
«Ascolta Daruka devi andartene subito di qui. Sta per accadere qualcosa e non posso impedirlo. Scappa, assentati dall’Autogrill per una manciata di minuti.»
Daruka mi guardò come se fossi matto e forse aveva ragione lui. Scosse la testa e si scrollò di dosso le mie mani, tornando a lavorare.
«Lasciami lavorare! Ubriacone.»
Non potevo più aspettare. Il senso di ansia era cresciuto esponenzialmente. Dovevo andarmene. Lo pregai un’ultima volta di allontanarsi e, senza aspettare la sua reazione, uscii di corsa dal bagno e tornai in auto. Accesi l’auto e partii con gran fretta, in radio cominciò “Il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano. Sorrisi mio malgrado mentre acceleravano i miei battiti, le mani mi tremavano e la vista si faceva offuscata a causa del sudore freddo sceso dalla fronte.
Una nota strascicata, nuova e fuori dal comune, una specie di rollio unito ad uno scricchiolio, echeggiava nell’aria. Cercando di capirne la natura, spensi lo stereo. L’inquietudine stava per impadronirsi di me: non riuscivo a mantenere un’andatura retta. Rapidamente mi accorsi che anche gli altri automobilisti non riuscivano a tenere la strada. Mi ero appena immesso nella corsia, su un lungo ponteggio quando la strada ondeggiò e si spaccò. Un terremoto nel momento peggiore. L’Autogrill alle mie spalle stava crollando, soverchiato da un’immane potenza devastante. Davanti a me i pilastri dell’autostrada avevano ceduto e una falla alla mia immediata destra aveva inghiottito una vettura affiancata alla mia. La strada tentava di inghiottirmi.
L’autostrada si era spaccata e il ponte che stavo attraversando stava roteando rispetto alla parte ancora fissa al suolo. Accelerai con tutta la potenza della mia Alfa e pregai che i suoi cavalli mi aiutassero in questa impresa. Il contachilometri schizzò in alto come mai aveva fatto prima d’ora e il rombo del motore copriva le urla degli automobilisti più sfortunati di me.
Del mio ponte era rimasta una sola corsia, la mia; puntava verso l’alto, riuscivo a vedere soltanto il cielo notturno oltre la strada. Poteva essere la fine. Decisi di provare comunque. Continuai ad accelerare. Il ponte stava piegandosi ed alzandosi, scosso dagli ultimi spasimi della sua esistenza. Un attimo solo e fui sbalzato con violenza sull’altro lato del ponte. Ero salvo.
Senza neppure un graffio. Eppure, ancora una volta, dovevo ripartire verso casa.
Fu la domanda più difficile della mia vita,
per questo diedi la risposta più semplice
Impiegai ore per tornare a casa, a causa di diversi incidenti avvenuti durante il terremoto. Stanco e sfatto fino al midollo, avevo parcheggiato la mia Alfa nel garage di famiglia ed ero rientrato in casa coi vestiti sudati e lo sguardo tesissimo, come potete immaginare.
In quel momento i miei erano a tavola, con la TV spenta. Stavano litigando, come sempre, ma questa cosa non mi tangeva.
Mi sedetti a tavola e bevvi quattro bicchieri d’acqua senza sentirmi dissetato e neppure soddisfatto.
Stavo fissando lo schermo spento della TV quando mia madre mi pose la domanda che mi mandò in crisi. Lo fece senza pensarci, perché era il suo modo di darmi una semplice attenzione senza essere invadente. Lo aveva sempre fatto quando tornavo a casa, quindi non aveva nessun motivo per non farmi quella dannata domanda. Eppure, quella volta fu troppo per me.
Con la voce dolce e allo stesso tempo carica di risentimento verso suo marito, mi chiese semplicemente: «Come è andato il viaggio?»
Scoppiai a ridere, senza gioia o dolore. Risi solamente. E poi, calmandomi, mi girai verso di lei, che mi guardava con sguardo interrogativo, e risposi: «Bene, mamma, come sempre.» Andai a dormire senza spogliarmi e senza aggiungere altro.
Ancora non ho capito come succeda ma è tutta colpa della mia immaginazione mortale. Mi fa vedere delle “cose”, è come vedere dei puntini, unirli con una linea e scoprire che c’è un disegno più grande tutto attorno a me. Adesso sono in terapia e spero possa aiutarmi ad andare avanti.
Non sono più tornato a Triluzzano. Non avrei retto nuovamente quella strada. Manuela non l’ho più vista, ma soltanto sentita per telefono; mi ha chiamato “pazzo” e sarei propenso a crederle, anche se ciò che vedevo è risultato in parte vero.
Ovviamente mi hanno licenziato, ma questa volta ho trovato subito un altro lavoro. Finalmente nel campo informatico. Cerchiamo di produrre router wi-fi con un nuovo protocollo di instradamento dati, ma la strada è lunga per giungere all’obiettivo.
Ma questa è un’altra strada, non è quella verso casa.
(2 – fine)