Karin Boye (1900-1941) è una poetessa e romanziera svedese, molto più nota in patria che nel resto del mondo. Negli anni ’20 entrò a far parte del movimento Clarté, fondato dallo scrittore francese Henri Barbusse. Il movimento era d’ispirazione comunista, e mostrava grande fiducia nella psicanalisi freudiana.
Nel 1928 un viaggio in Unione Sovietica la disilluse nei suoi ideali politici, ma restò comunque legata al movimento. In un’epoca in cui l’omosessualità era considerata una malattia (e in Svezia un reato), nel 1932 si trasferì a Berlino per “curarsi” tramite sedute psicanalitiche che invece ebbero l’effetto di spingerla ad accettare la propria condizione. Iniziò la convivenza con la tedesca Margit Hanel, sua compagna per il resto della sua vita. Con l’avvento del nazismo e l’inizio delle persecuzioni razziali (Margit era ebrea), le due si spostarono in Svezia, dove Karin, sempre più preda di manie depressive, si suicidò.
Kallocaina è il suo ultimo romanzo (il suo unico tradotto in italiano) e si apparenta con il filone distopico che diversi e importanti esempi ha avuto nella prima metà del 20° secolo.
Il romanzo è ambientato in un futuro e in un luogo imprecisati in cui vige un enorme stato detto Stato Mondiale. L’autrice è volutamente vaga in dettagli, ma sappiamo che lo Stato Mondiale è in perenne guerra con un nemico imprecisato, composto da esseri dei quali si dubita persino la natura umana, che la propaganda descrive come belve feroci e temibili. Il regime dello Stato Mondiale pervade ogni aspetto della vita pubblica e privata dei cittadini, ai quali viene imposto una specie di servizio militare permanente, che comincia nell’infanzia, con la separazione dai genitori per l’inizio dell’addestramento in campi militari. Ai cittadini viene imposto di sorvegliarsi a vicenda e di riferire qualunque comportamento sospetto da parte di parenti o amici, datori o colleghi di lavoro. Ovunque ci sono microfoni e telecamere di sorveglianza, anche nelle case private. Il protagonista è Leo Kall, un chimico che ha appena inventato una nuova droga, a cui dà il nome di “kallocaina”, che non solo impedisce ogni menzogna nei soggetti a cui viene iniettata, ma li costringe a rivelare le intenzioni e le emozioni più nascoste e profonde. Leo è un fedele servitore dello Stato Mondiale, e la sua scoperta è altamente apprezzata da un simile sistema poliziesco. Cominciano i test su cavie e dissidenti politici, ma lo stesso Leo non è immune dal clima di sospetti e delazioni che lo circonda, del quale finisce con l’essere vittima e responsabile allo stesso tempo. Ma i suoi problemi sono anche privati: il suo matrimonio con Linda è sempre più infelice e i rapporti con lei sempre più tesi, e Leo vede nella kallocaina una possibile soluzione anche ai suoi problemi privati.
Kallocaina è spesso stato considerato influenzato da Il mondo nuovo di Aldous Huxley e una delle influenze di 1984 di George Orwell, scritto 8 anni dopo. Se l’elenco delle analogie con i due più celebri romanzi sarebbe in effetti lungo, il romanzo di Karin Boye conserva comunque delle indubbie caratteristiche originali.
Dal punto di vista politico non c’è dubbio che le sue esperienze in Unione Sovietica e nel nascente Terzo Reich abbiano influenzato la visione di uno stato basato sull’invadenza e sul sospetto. Ma alcuni hanno anche visto una metafora, esasperata, di caratteristiche tipicamente scandinave, come quella per l’organizzazione e la freddezza nei rapporti sentimentali e familiari (sembrerà strano oggi, ma i matrimoni combinati erano ancora frequenti in Svezia all’epoca).
Il romanzo è raccontato in prima persona da Leo, che nel prologo racconta di essere rinchiuso in carcere da 20 anni, e scrive un memoriale in cui rievoca le vicende che ce lo hanno portato tanto tempo prima. Tutto il romanzo è in prima persona, e indubbiamente la psicanalisi influenza la costruzione e lo stile del romanzo, in cui gli episodi, più che essere semplicemente commentati dall’io narrante, si intersecano con i suoi monologhi interiori, che diventano parte integrante dello sviluppo dell’azione. E uno dei momenti più poetici e suggestivi del romanzo è quello del sogno che vive Leo nella notte che precede la confessione di Linda. Inizia come un incubo e finisce con un tono favolistico e idilliaco, e Leo vi condensa paure, delusioni, speranze e aspirazioni, e l’autrice dimostra una notevole capacità visionaria, ricca di immagini potenti e penetranti, oltre alla piena padronanza di tutti i registri narrativi ed emotivi.
Più in generale, si può dire che la singolarità e il grande merito di Kallocaina è proprio l’aver fuso, più che equilibrato, l’aspetto pubblico e privato nella descrizione di un regime pervasivo proprio della sfera più intima delle persone.
Il romanzo ha altri grandi momenti verso la fine, dove il mistero della prigionia di Leo viene svelato. Aldilà dei “trucchi” narrativi escogitati da Boye – non mancano colpi di scena e svelamenti sorprendenti – il finale è preceduto da un altro momento di grande intensità emotiva e finezza stilistica, in cui il protagonista, solo nella città, per la prima volta in vita la sente silenziosa, priva di quei rumori tipici di una vita frenetica. É quasi una materializzazione di un sogno, e il parallelo stilistico con la scena del sogno di prima è evidente, ma resta impressa nella memoria per la forza del senso di smarrimento e irrealtà che comunica, ed è un altro esempio della padronanza raggiunta dalla scrittrice.