IL CINEMA DI GENERE DI UMBERTO LENZI 04 – PARTE 03

Il cinema cannibalico di Umberto Lenzi – Parte 03

Umberto Lenzi aveva inventato il genere cannibalico con Il paese del sesso selvaggio, poi lo aveva lasciato prima nelle mani di Sergio Martino (La montagna del dio cannibale) e infine in quelle di Ruggero Deodato. Nel suo primo film, Lenzi non era stato in grado di oltrepassare i confini del proibito, cosa che invece ha fatto molto bene Ruggero Deodato con Cannibal Holocaust. Il regista maremmano torna al sottogenere nel 1980 con Mangiati vivi!, un film truculento come pochi, ma soprattutto a basso budget. Va da sé che la pellicola non è molto originale e Lenzi deve fare di necessità virtù prelevando numerose sequenze dai cannibal movies precedenti. Il regista si inventa lo pseudonimo di Humphrey Humbert e con quel nome anglofono firma anche soggetto e sceneggiatura. La fotografia è di Federico Zanni, il montaggio di Eugenio Alabiso, la scenografia di Antonello Geleng, la musica di Budy Maglione e gli effetti speciali sono di Paolo Ricci. Producono Luciano Martino e Mino Loy per Dania National Cinematografica. Il cast è composto da: Robert Kerman (l’italianissimo Roberto Bolla, lo stesso di Cannibal Holocaust), Janet Agren, Ivan Rassimov, Paola Senatore, Mel Ferrer, Me Me Lai e Franco Fantasia.

Il film non è certo tra i migliori di Lenzi, soprattutto perchè è costruito con ritagli di altre pellicole ed è girato in economia. Lenzi riutilizza se stesso inserendo nel film sequenze de Il paese del sesso selvaggio come una scena di cannibalismo spiata da Kerman e la Agren (si nota la diversa luminosità della pellicola), la preparazione di frecce avvelenate, l’uccisione di un alligatore, la morte di un serpente e infine la lotta tra la mangusta e un cobra. La scena del rapporto sessuale tra Me Me Lai e i fratelli del marito morto (il finto rito della vedova) è stata girata ex novo ed è soltanto una citazione ampliata del primo film. Alcune parti del banchetto cannibale che ha per protagonista Me Me Lai sono tratte da Ultimo mondo cannibale, ma sono poche immagini. La montagna del dio cannibale di Sergio Martino invece concede un’evirazione di un indigeno e una scena di attacco di un coccodrillo. “C’erano pochi soldi” confessa Ivan Rassimov in un’intervista. Lo spettatore è la prima cosa che nota.

I motivi di interesse per riscoprire Mangiati vivi! però ci sono tutti e non condividiamo il giudizio drastico di “pasticcione cannibalistico” che dà Marco Giusti su “Stracult”. Una buona fotografia esotica, alcune scene efferate, i nudi integrali e provocanti della Agren e della Senatore salvano una pellicola che è diventata un cult per gli appassionati del trash. Janet Agren è la presenza indimenticabile del film e il regista insiste molto su primissimi piani dei suoi stupendi occhi verdi. La trama non sarebbe neppure il caso di raccontarla, tanto lo sapete già che c’è la solita spedizione che parte per una foresta qualsiasi dove ci sono i cannibali (in questo caso la Nuova Guinea) alla ricerca di qualcuno che è scomparso. Qui abbiamo Robert Kerman, nei panni di un reduce dal Vietnam, che accompagna Janet Agren alla ricerca della sorella (Paola Senatore). Quest’ultima ha abbandonato agi e ricchezze del mondo materiale (possedeva una ricca piantagione) per unirsi alla setta del reverendo Jonas (Ivan Rassimov), una specie di santone della giungla che si è ritirato lontano dalle tentazioni del mondo. Kerman viene assoldato dalla bella Agren come guida tra i pericoli della giungla. Per raggiungere l’accampamento di Jonas i nostri eroi devono attraversare mille pericoli, torture e sevizie che lasciano sul campo gran parte dei personaggi (Paola Senatore e Me Me Lai incluse). Arrivati a destinazione, scoprono che Jonas è solo un imbroglione che tiene i suoi adepti prigionieri come schiavi dopo averli depredati di tutti i loro averi. Alla fine l’intervento delle autorità fa precipitare la situazione e la setta viene costretta a un suicidio di massa, mentre i due protagonisti vengono salvati all’ultimo momento dall’assalto di un branco di cannibali. Al ritorno a New York ci rendiamo conto che il santone Jonas non si è suicidato, ma è scomparso insieme a un conto in banca aperto in Svizzera. Su quel conto ci sono anche i soldi della eredità di Paola Senatore che aveva intestato tutti i suoi beni al santone. Il film termina con Janet Agren che non sa come pagare i servigi di Robert Kerman perché è rimasta senza una lira.

Lenzi vorrebbe agganciare la sua idea di film cannibalico – avventuroso al ricordo storico del massacro della Guayana con il suicidio collettivo di novecento persone per volontà di un folle santone. In parte ci riesce perchè Ivan Rassimov è credibile nei panni di Junes, guida spirituale affascinante che circuisce occidentali creduloni. Il piatto forte però sono le sequenze estreme. Immancabili per tutta la pellicola: violenze, massacri, stermini di massa, scene di stupro, banchetti antropofagi e animali uccisi nei modi peggiori. Nella parte introduttiva c’è una sequenza molto realistica stile mondo movies che vede alcune persone appese a dei ganci per praticare la purificazione delle anime attraverso la cura del dolore. I ganci vengono attaccati alla pelle della schiena e gli adepti della seta sono appesi al soffitto e lasciati spenzolare. Ottima anche la scena del cobra nascosto in una cesta che viene aperta da Janet Agren che rischia di fare una brutta fine. Il film però manca di mordente e non coinvolge più di tanto, anche perché le scene più efferate sono quasi tutte prese da altre pellicole e l’appassionato del genere le ha già viste. Tra le scene più crude dobbiamo citare un pitone che si mangia una scimmia, un cucciolo di coccodrillo squartato in diretta, un coccodrillo che aggredisce la piroga, un cobra ucciso con le mani, una lotta cobra-mangusta, un’evirazione, un iguana sventrato e mangiato dai selvaggi…. In definitiva salverei soltanto poche scene truculente, gli effetti speciali (notevoli), l’ambientazione curata e pittoresca. La parte cult del film resta quella con i cannibali che catturano Me Me Lai e Paola Senatore e se le mangiano vive facendole a fettine nei punti più prelibati (mammelle, orecchie, gambe…). Si vede abbastanza chiaramente che le gambe tagliate delle due vittime sono nascoste sotto la terra, ma il pasto cannibale è cruento e disturbante. Alla fine i selvaggi aprono la cassa toracica delle due donne e le mettono a cuocere sulla fiamma. Sono scene molto realistiche e valgono il prezzo della VHS. Se poi vogliamo parlare da appassionati del cinema di genere anche la bellezza sensuale della bionda Janet Agren e la mise della Paola Senatore in tenuta da selvaggia non sono da gettare. Paola Senatore e Me Me Lai sono protagoniste anche di due ottime sequenze erotiche che le mostrano senza veli e in pose molto disinibite. Soprattutto il rapporto esplicito di Paola Senatore, posseduta a pecorina dal suo carceriere prima di venire mangiata viva, è di quelli memorabili. Ricordiamo anche la sequenza che vede la penetrazione della Agren da parte del santone per mezzo di un grosso fallo di pietra intinto nel sangue di un serpente e anche la scena dove l’attrice svedese mette in mostra la sua bellezza completamente dipinta d’oro (forse un omaggio alla Ursula Andress de La montagna del dio cannibale). I dialoghi tra Kerman e la Agren sono artefatti e irreali, le avances dell’uomo poco credibili e certe situazioni quasi imbarazzanti. Sono molte le parti del film che mancano di patos e di tensione narrativa, come quando le due sorelle si ritrovano. La recitazione della Senatore e della Agren tocca livelli di insufficienza e lo spettatore resta indifferente ad ascoltare lunghi dialoghi mal costruiti. Singolare la rappresentazione della rottura dei vincoli familiari in occasione di un funerale, che vede la vedova Me Me Lai costretta a far l’amore con i fratelli del defunto marito. La scena non ha niente di erotico e sembra una ricostruzione inventata, ma il regista insiste molto sulla tripla penetrazione che avviene sopra le ceneri del defunto. Tra i momenti peggiori del film i pistolotti morali mal recitati da Robert Kerman (“È la legge del più forte”, dice mentre osserva gli animali che si sbranano tra loro) e Janet Agren che in un penoso finale conclude: “L’era spaziale è solo per pochi, ci sono ancora i cannibali”. Rimpiangiamo che non se la siano mangiata.

(4/3 – continua)

Gordiano Lupi