Abbiamo già affrontato l’argomento vastissimo dei libri che riguardano il caso criminale del mostro di Firenze, concentrandoci in particolare sui saggi dedicati all’argomento (Il mostro di Firenze, percorsi bibliografici); ora vorrei dare un seguito a quello studio, concentrandomi sui romanzi liberamente ispirati da questo controverso “mistero italiano”, capace di suggestionare e ossessionare ancora oggi, a tanti anni di distanza dall’ultimo omicidio. Seguiamo un ordine cronologico e proviamo a vedere chi e come si è confrontato con questo coacervo di contraddizioni e follie.
La giallista e traduttrice Laura Grimaldi, tra le autrici più importanti del nostro panorama, dedicò una parte della sua splendida trilogia gialla al caso del mostro. Mi riferisco a Il sospetto, uscito per Mondadori (editore attento da sempre alla vicenda fiorentina) nel lontano 1988. Lo lessi da ragazzino eppure ne conservo un’impressione nitida, pulita. La Grimaldi costruisce un romanzo perfetto, classico nel suo impianto. Una madre, una donna dell’alta società, immagina, sospetta appunto, che il figlio possa essere il mostro. Da questo semplice spunto, la Grimaldi dipana un intreccio psicologico sorretto da pochi personaggi. Figure che rimangono nella mente, tanto sono ben delineate e che non hanno bisogno di quel fiume di pagine (inutili) di tanti narratori americani, gonfiati con gli steroidi degli editor. Alla classe della Grimaldi bastano 200 pagine per tratteggiare le figure senza tempo di Enea, Matilde, Nanda e George, tutti accomunati dalla solitudine e dall’infelicità malcelata delle loro esistenze, bisognosi di trovare, anche brevemente, un’ancora esistenziale al vuoto affettivo del mondo moderno. Inoltre la Grimaldi, da fine giornalista, alterna i capitoli dedicati ai suoi sparuti caratteri, disegnando le gesta criminali del maniaco, seguendo spunti d’indagine che ritroviamo in altri libri, come ad esempio la presunta questione dell’acromegalia del mostro, dibattuta con finezza da Nino Filastò nel suo Pacciani innocente.
Del 1990 è un piccolo libretto, oggi scomparso completamente, edito da Lalli Editore e scritto dal partigiano apuano Eriberto Storti: La Traslazione. Appassionato di scienza e psicologia, Storti si ispira ai primi libri sul mostro, ossia Identikit di un mostro di Riccardo Catola e ai reportage usciti su “Panorama” e firmati da Laura Grimaldi e Marco Tropea.
Storti inizia la sua storia nel 1968.
Il suo mostro assomiglia moltissimo a quello disegnato dall’immaginario di quegli anni (e infatti l’importanza del suo libro risiede proprio in questo, nell’essere un documento quasi contemporaneo al panico sociale scatenato da quell’emergenza): è un medico, colto, impotente, che vive in una grande villa isolata nei boschi, solo con la sua spettrale governante. Senza troppi giri di parole, Storti si immerge nella sua narrazione, ricordando per semplicità e inverosimiglianza tanti Racconti di Dracula. Il medico professore lavora come primario in una clinica privata piena di suore infermiere. Il professore sente un male oscuro che lo perseguita, incapace di ricordare il proprio passato e i traumi familiari legati alle figure morte del padre e della madre. Il nostro ritrova una vecchia fotografia in bianco e nero che ritrae i suoi compagni di liceo; da questo semplice avvenimento si dipana la vicenda, col medico che consulta una maga col pendolino pur di ritrovare la vecchia classe. Una sera, dopo aver fatto visita al primo compagno, l’uomo sente l’impellente bisogno di andare in un cinema di periferia e assistere a un film di guerra sulle gesta di un medico impotente. La cosa risveglia dentro di lui antichi demoni. Seduti nella fila davanti un uomo, una donna e un bambino. Li seguirà fino a un cimitero di campagna, li spierà fare l’amore e ucciderà per la prima volta con la Beretta ereditata dal padre. La mattina successiva leggerà le cronache sul delitto e non ricorderà nulla. Su questo canovaccio, le visite ai vecchi compagni di classe, si snoderanno anche gli altri omicidi, poi rimossi, traslati dalla mente di questo dottor Jekyll fiorentino. Storti ha il pregio di alternare le vicende, minimali, del suo medico, a lunghi stralci in cui riporta i crudi avvenimenti di allora, con le carrellate dei vari personaggi della cronaca. Inoltre si dilunga spesso in riassunti di vari libri di psicologia che dovrebbero servire a rendere meno campato per aria il suo mostro. Nell’85 il medico accetta, sotto le insistenze di un collega della clinica, di farsi massone, introducendo così nel libro un pizzico di quel misticismo laico, di quei riti esoterici che da sempre sono intrecciati con le cronache del mostro (e che, erroneamente, sono quasi sempre imputati a un altro romanzo, molto discusso e poco letto: Coniglio il martedì). Inoltre si riavvicina alla religione cattolica, ma neanche questo serve e la traslazione da angelo a demone avviene nuovamente, ai danni della coppietta francese. A questo punto la psicosi del mostro si diffonde a macchia d’olio; Oscar Luigi Scalfaro emana addirittura una taglia per catturarlo. Improvvisamente la smemoratezza del medico cessa e lui si ricorda tutto. Prova a uccidersi, non ci riesce, allora si immerge nel Loch Ness del suo inconscio, in attesa che altre nefandezze risalgano dai labirinti della mente. La chimera, Cerbero, l’Idra, la sfinge, le sirene sussurrano ai suoi orecchi simboli della madre, del pube e le mammelle femminili conservate in una camera segreta, la stanza della genitrice, adibita a oscuro laboratorio gotico impregnato da barattoli di formalina riempiti con dei feti aberranti. Il professore riemerge da questo maelstrom con sé stesso e assolve il trauma originario (mai veramente spiegato). Si libera di tutto il suo passato di carnefice, fa sparire ogni prova, getta la famigerata pistola nell’Arno, guarendo incredibilmente e consegnando l’ombra del mostro al mito! Libro bellissimo!
Nel 1993 esce Coniglio il martedì, altro importante romanzo incentrato sul mostro. Lascio la parola a Daniele Vacchino, che il libro lo ha letto: “Aurelio Mattei, psicologo del SISDE, scrive nel 1993 il suo romanzo sul Mostro. Francesco Bruno, il criminologo a cui era stata affidata la compilazione di un dossier sul caso del maniaco delle coppiette, affermerà che Mattei gli aveva chiesto di poter consultare il suo dossier. Il testo di Mattei è diventata oggi una rarità bibliografica, in quanto difficilmente reperibile. Si può però agevolmente scaricare una copia del testo da internet. Sui forum si è dibattuto a lungo circa eventuali messaggi in codice in chiave massonica e settaria contenuti nel testo. Inoltre, il libro pare anticipare diverse piste seguite in seguito dagli inquirenti (come, d’altronde, è capitato anche a Francesco Bruno, il quale ha, per stessa ammissione di Giuttari, messo sulla strada della pista esoterica la polizia). Su questi punti e sulle ombre di complotto non mi soffermo, in quanto basta cercare un forum qualunque che tratti il tema e si può leggere di tutto.
Veniamo al libro. La storia è bicefala: da una parte c’è il tempo del mostro, il suo passato e le morti recenti. Dall’altra troviamo la squadra della Mobile, della polizia e dei carabinieri intenta a trovare il serial killer delle coppiette. Il mostro è un uomo comune, che lavora in un ufficio come impiegato e che ha una vita sessuale senza eccessi, ma dai tratti normali. Perché uccide il mostro? Qui viene la parte comica: una notte, durante un incidente accorso alla sua auto, il futuro mostro si ferma nei paraggi di un’auto parcheggiata sul bordo di una strada; dall’auto scende un uomo che comincia a pestare il malcapitato mostro, reo di essere un guardone, ledendogli per sempre un testicolo. La perdita del testicolo lo porterà a cercare vendetta sulle coppiette appartate di notte. Lascio ogni considerazione a voi lettori. La parte poliziesca è invece ben congegnata, da parte di uno scrittore che ben conosce gli ambienti. La scrittura è molto piacevole e non è il solo pregio del libro: la parte della contaminazione delle prove, mi riferisco al modo con cui si crea il “ponte” tra i delitti in corso e quello del 1968, è interessante e ingegnosa. Le due parti di cui è composto il libro si ricongiungeranno mai? Ovviamente no, in quanto Mattei è un buon prosatore, ma non ha una vera esperienza narrativa. L’epilogo, però, va lodato per coraggio e iniziativa.”
Del 1997 è il romanzo di Alda Teodorani Labbra di sangue, edito da Datanews. Di questo libro non si sente quasi mai parlare nelle recensioni sui romanzi dedicati al mostro. E’ un peccato. La Teodorani rielabora la vicenda in modo personale attingendo ai tantissimi frammenti del giallo fiorentino e riadattandoli a una Roma notturna, sommersa dai rifiuti, accerchiata da una periferia immensa e degradata fatta di quartieri dormitorio e parchi della droga in cui si aggirano puttane malinconiche e uomini soli. La scrittura è come sempre efficace, contratta e affilata come una lama, capace di scavare nelle anime tormentate (incendiate, direbbe Tentori) dei personaggi. I capitoli sono brevi, asciugati e attratti attorno a un vuoto, a un buco nero, rappresentato dal mostro, figura sempre sfuocata, indistinguibile, che si balocca coi suoi fantasmi mentali e i feticci nel frigorifero. Ne esce un racconto inquieto e a suo modo romantico, il cui il feroce seriale killer assurge a mito moderno, favola crudele per bambini che non vogliono addormentarsi la notte. Da recuperare.
Distrattamente, nel bel romanzo Hannibal, Thomas Harris si occupa del mostro e ambienta una parte della trama proprio a Firenze. Harris riprende fedelmente il segmento investigativo che ha visto protagonista Ruggero Perugini, il capo della Squadra Anti Mostro. Perugini fa da modello per il personaggio del romanzo, l’ispettore capo Rinaldo Pazzi, salito sugli allori dopo aver chiuso il caso del maniaco delle coppiette. Pazzi, copiando le intuizioni di Perugini, arriva alla soluzione attraverso alcuni dettagli della Primavera di Botticelli, individuando il killer in un certo Girolamo Tocca, losca figura ricalcata su quella di Pacciani. Tocca, come Pacciani, è uno stupratore delle proprie figlie, condannato in gioventù per aver ammazzato brutalmente un rivale in amore. Pazzi inchioderà il colpevole con una maxi perquisizione, trovando nel giardinetto dello svitato una cartuccia compatibile con quelle usate dal mostro. Purtroppo però, durante il processo d’appello, Tocca-Pacciani verrà assolto, facendo crollare il castello di carte del Pazzi e arrestando la sua fulminante carriera. Così il nostro dovrà trovarsi altri maniaci da acciuffare, come ad esempio lo strano professor Fell, identità fasulla del fuggiasco Hannibal Lecter. Harris usa la vicenda del mostro solo per colorare un romanzo lungo e articolato, capitolo conclusivo della sua trilogia dedicata alle gesta dello psichiatra cannibale.
Nel 2000 esce un altro romanzo stupendo, opera di uno scrittore originale e controcorrente come Umberto Cecchi (di cui avevo ammirato La Luna di Harar, sul morire di Rimbaud in Africa): Fegato, coraggiosamente edito dalla meritoria Stampa Alternativa. Fegato, così come spiega nella premessa lo stesso autore (giornalista di lungo corso presso La Nazione di Firenze), nasce dall’incontro in carcere nel ’95 con Pacciani, il quale suggerisce allo scrittore il soggetto del romanzo, ossia che i mostri sono due e si danno la caccia l’un altro. Da qui nasce un testo affilato e raffinato come l’autore, sorretto da una scrittura coltissima e affascinante, impreziosita da una struttura intarsiata da lunghi flashback sul passato del mostro, uomo intelligente e padrone di sé, molto vicino all’immagine disegnata dai primi profili criminali degli anni Ottanta (e per nulla affetto da quei blackout della memoria di cui soffriva il medico protagonista de La Traslazione). Il mostro di Cecchi non è un guardone satireggiante e nemmeno un povero impotente. La sua violenza non nasce da una mancanza: all’uomo, affermato giornalista e scrittore, non manca nulla. La violenza di questo mostro è la violenza del mondo stesso, prima contadino e rituale, terzomondista, poi televisivo e superficiale. In Cecchi vi è la rara capacità di disegnare in filigrana lo sfondo sociale dei suoi personaggi, calati in una dimensione di solitudine metropolitana prossima alla visione sterile di Argento in Tenebre. Forse il thriller più bello, insieme a quello di Cugia, di tutti gli anni Zero.
Nel 2003, per Hobby & Work, esce il thriller di Mario Spezi, Il passo dell’orco. Spezi è il giornalista che più di tutti si è occupato (bene) del caso del mostro, rimettendoci pure. Il nostro è convinto, senza troppi giri di parole, che il mostro vada cercato nel cerchio di sardi coinvolti nel delitto del 1968. Spezi ha un nome e un cognome per il mostro e di questo ne parla diffusamente nel libro dedicato ai delitti fiorentini. Qui ne riprende molti spunti, mescolando la vicenda del mostro (ormai conclusa, perduta nel tempo) con quella del mostro di Foligno. Ne esce un thriller niente male, scorrevole e cinematografico, in cui la sagoma del maniaco di Firenze si incarna in un uomo giovane e bello, apparentemente guarito dai suoi traumi sessuali. Ne Il passo dell’orco, Spezi non fa altro che mettere in forma narrativa le sue indagini e conclusioni maturate nella cronaca, cercando di scrivere la sua verità processuale. Una lettura interessante e gradevole, purtuttavia priva del fascino di un Cecchi.
Del 2004 è un romanzo di cui quasi nessuno parla, L’indagine di Giorgio De Rienzo, edito per i tipi della Marsilio. Il romanzo rielabora in modo originale la vicenda di cronaca nera, ambientandola in Piemonte, tra la provincia di Torino e quella di Vercelli. Un mostro, molto simile a quello fiorentino, uccide a colpi di Beretta delle ragazze e poi le ricompone in modo artistico accanto a dei vecchi castelli piemontese. L’autore, docente di letteratura a Torino, frulla nel plot tanti riferimenti al caso del killer delle coppiette, mescolandolo con interessanti riferimenti all’Italia degli anni ’70. La vicenda è ambientata nel 1973, in un paese in bilico tra rivolte studentesche, servizi deviati e terrorismo rosso. Il protagonista è un ex Questore in pensione, tirato dentro le vecchie indagini del mostro da un misterioso mittente che gli invia i faldoni del caso. Il Questore ha fatto parte di un gruppo speciale, l’Ufficio R, costituito per fermare l’avanzata comunista nel paese. De Rienzo amalgama la storia dei delitti con le piste eversive e golpiste degli anni ’60 e ’70, anticipando le conclusioni provvisorie a cui sembrano essere arrivati gli inquirenti durante queste vacanze. Ne esce il ritratto di un maniaco affascinante e furbesco, che conosce le sue vittime prima di ucciderle, attirandole in una casetta torinese con la scusa di un colloquio di lavoro. Il killer è animato da traumi legati al tema dell’aborto (dibattuto in quel decennio e convalidato da un importante referendum popolare) e da un senso di rivalsa e sfida nei confronti delle forze di polizia, incapaci di arginare il caos che minaccia la tenuta democratica del paese. Un romanzo nel complesso molto originale, che si discosta da quasi tutti gli altri.
Diego Cugia pubblica per Mondadori Strade Blu Un amore all’inferno (2005), affascinante romanzo di semi-fiction incentrato sui delitti del mostro e soprattutto sul caso del medico perugino Francesco Narducci, sospettato di essere il mostro o uno dei mostri. Cugia scrive col bulino, costruendo un testo paranoico e inquietante, sorretto da una finezza stilistica che non conosce cadute. La trama, originalissima, vede lo stesso Cugia, senza bisogno di personaggi inventati, incontrarsi con Francesca Spagnoli, la moglie di Narducci. L’incontro da cui si dipana l’intervista-confessione della donna, avviene tutto di notte, da qualche parte nel Mugello, sotto un diluvio universale che sembra presagire nuove sventure. Cugia è abilissimo a incuneare sotto le palpebre del lettore un’angoscia sottile che raggiunge il culmine nelle scene tanatologiche, quelle in cui si dibatte del doppio cadavere (squisito) del gastroenterologo perugino, forse ucciso per fermarne la follia omicida. Un romanzo magistrale, giocato sugli stessi binari di Gomorra di Saviano, alternando stralci narrativi a parti più giornalistiche e di cronaca, comunque sempre trasfigurate da una scrittura incalzante e meditata, a suo modo lenta ed ecolalica, un grumo d’inchiostro, un maelstrom italiano in cui la sagoma del mostro rimane per sempre indefinita, alimentata da chiacchiere giornalistiche, fole, stralci d’indagine e buio di morte. Bellissimo, davvero.
Ivo Scanner (alias il noto saggista Fabio Giovannini) ha dedicato al mostro un gustoso raccontino, reperibile oggi nell’antologia personale Pedofobo, edita da Cut-up nel 2010. Il racconto si intitola Non criticate Thomas Harris e ha un incipit folgorante: “Caro Thomas Harris, permetta innanzitutto che mi presenti: sono il mostro di Firenze.” L’idea, intrigante, è quella del mostro che intrattiene una corrispondenza con lo scrittore statunitense, coinvolto a Miami in un incontro di scrittori neo-noir a cui partecipa pure il bravo Ivo Scanner. Naturalmente Harris non presta fede alle missive del maniaco fiorentino, disegnato da Giovannini con gusto e ironia, capace di alcuni affondi al vetriolo contro alcuni paludati critici e giallisti nostrani.
Sempre del 2010 dovrebbe essere un gustoso divertissement letterario di Nino Filastò, intitolato Maniac, reperibile in giro su internet. Il protagonista è un criminologo in pensione che trascorre le estati e l’autunno su un’isola della Bretagna, recuperando le suggestioni scenografiche del bellissimo L’alfabeto di Eden. L’uomo, in gioventù, per via della sua professione, s’è occupato del caso del mostro, elucubrandoci sopra. Ora riceve uno strano invito, partecipare a una rassegna culturale in cui vengono proiettati alcuni horror di serie b americani e italiani: L’aldilà, Maniac, Le notti di Salem, Cannibal Ferox. Un pugno di pellicole che hanno dei sinistri legami con la vicenda del mostro, siccome venivano proiettate negli anni in cui il folle ammazzava le coppiette, arrivando persino a ispirarlo nel modus operandi. Il criminologo, incuriosito, si reca nel multisala in periferia. Qui, durante le proiezioni, viene importunato da un vecchio signore, il quale commenta compiaciuto le scene, paragonandole ai vecchi omicidi. Il vecchio è chiaramente il mostro e ha mandato lui l’invito al criminologo, l’unico ad essersi avvicinato alla verità, chiamato ora a testimoniare ciò che rimane di un vecchio e distinto assassino, superato dagli orrori economici di un mondo senza alcun freno e condannato ad assistere ai film specchio della sua antica follia. Come sempre in Filastò un lavoro prezioso e di altissimo livello, gioco narrativo che riprende alcuni degli spunti più interessanti del suo capolavoro Storia delle merende infami.
Nel 2010 esce per un editore importante come Rizzoli il nuovo thriller di Michele Giuttari, il capo della mobile che ha diretto negli anni ’90 le indagini sul mostro: Le rose nere di Firenze (a cui seguirà I sogni cattivi di Firenze nel 2012). Giuttari è l’uomo che ha tirato fuori dal cappello i compagni di merende e, insieme a Canessa e Vigna, ha teorizzato la setta satanica che commissionava i delitti a dei poveri mentecatti. Giuttari è evidentemente pieno di sé, al punto da trasfigurarsi, senza troppi sotterfugi, nel suo personaggio principale, Michele Ferrara, superpoliziotto che non sbaglia un colpo. Nella finzione romanzesca Giuttari rimette in piedi il castello di carte della setta e può sbizzarrirsi, immaginando una loggia occulta (la Rosa Nera) che pare presa di peso dai deliri verbali della Pasquali Carlizzi e dal suo Gli affari riservati del mostro di Firenze. In Le rose nere di Firenze il mostro è una presenza esplosa, frammentata in miriadi di pezzi. Dietro la sua ombra non c’è nulla e anzi Giuttari si diverte a prendere in giro quanti ancora credono nei profili tracciati negli anni ’80. Il mostro non esiste, non è mai esistito, al suo posto una combriccola di lobbisti inglesi che vivono in un castello e non fanno altro che sorseggiare aperitivi, organizzare cacce alla volpe e progettare nuovi coreografici delitti con tanto di escissioni. Il romanzo scorre abbastanza veloce, ma è impregnato dalle procedure poliziesche (peraltro pedanti) che piacciono tanto all’ex capo della mobile. Nell’insieme le 400 e rotte pagine si sommano nella mente, senza lasciare traccia, senza gusto. Personalmente detesto questi romanzi fabbricati a tavolino e mi piacerebbe vedere il brogliaccio originale di Giuttari: sospetto che i potenti editor della Rizzoli lo abbiano rimaneggiato a lungo per poi tirarci fuori qualcosa, un testo quasi senza stile, un romanzo ipertesto che si somma e confonde con quello di altri scrittori analoghi. A mio avviso, oggi, la letteratura soffre d’un complesso d’inferiorità nei confronti degli altri media, per questo cerca d’inseguirli fabbricando un italiano medio, con periodi non più lunghi di mezza riga, sintatticamente elementari. Quando si finisce il libro non rimane nulla.
Nel 2012 esce postumo il “romanzo”: Meredith Kercher, un delitto imperfetto, edito da Mond&editori. L’autrice è la famigerata Gabriella Pasquali Carlizzi. In questo saggio, erroneamente definito dall’autrice stessa “romanzo”, troviamo di tutto. Già a pagina 2 capiamo che non parleremo granché del delitto di Perugia, bensì del mostro di Firenze. Per la Carlizzi, qui all’ultimo giro di volta nelle sue stupende follie, il delitto di Meredith è maturato in una chiave esoterica studiata a tavolino per coinvolgere e screditare il pm Giuliano Mignini, titolare dell’inchiesta su Francesco Narducci, il gastroenterologo accusato di essere un membro della famigerata setta alchemica che si nasconde dietro ogni delitto, anzi dietro a ogni cosa. La Rosa Nera, nelle mani della Carlizzi, diviene quel che per David Lynch è la Loggia Nera di Twin Peaks, una realtà parallela e rituale capace di infiltrarsi in ogni ipotesi, in ogni avvenimento del quotidiano. Per la Carlizzi, il delitto della povera Meredith (Laura Palmer della situazione) nasconde sempre i barattoli essiccati, gli altari, i compari di merende, i pezzi grossi di un potentato internazionale che sfrutta dei poveri ragazzi innocenti, un po’ come avviene ne Il bosco, lo sceneggiato di Eros Puglielli di qualche anno fa. Il sacrificio rituale della studentessa è in stretta relazione con il caso Narducci e col mostro di Firenze. La setta della Rosa Nera, o della Loggia Nera?, adora la grande madre oscura delle tenebre, facendo man bassa nell’immaginario collettivo dell’horror più cialtrone. Foxy Konxy, Gabriele Sollecito, Lumumba, Mario Spezi e la schola esoterica fiorentina diventano una cosa sola: quella dannata notte di Halloween i ragazzi perugini si sono offerti – forse a loro insaputa, traviati dall’alcool e dalle droghe loro offerte – per un rito orgiastico di morte, un vero copione esoterico scritto per loro da non si sa chi, e poi attuato da una misteriosa figura, un’ombra, un’alchimista che si è introdotto in quella casa, quella notte, e che ha compiuto l’omicidio di cui verrà accusato Rudy Guede. Naturalmente per la Carlizzi la setta ha delle coperture potentissime e Mario Spezi non è altro che un gregario, collegamento con altre sette americane e il potentissimo Tom Cruise (sì proprio l’attore!), colpevole di voler portare sullo schermo le gloriose imprese del mostro, con l’unico intento di depistare e screditare Giuliano Mignini e Giuttari. Questo il plot immaginifico della Carlizzi, scrittrice confusionaria, comunque dotata di una follia creativa che non conosce sosta e le meriterebbe un posto nel libro di André Blavier, Le fous littéraires.
Del 2013 è Il mostro di Firenze, una verità oltre la Cassazione, di Mario Catania, edito da Albatros. Si tratta di un romanzo che rilegge l’intera vicenda processuale del mostro, immaginando che due amici ossessionati dal caso riaprano le indagini. Uno è un ex poliziotto della mobile che aveva fatto parte della squadra anti mostro, l’altro è un medico legale in pensione, a sua volta coinvolto nelle indagini, anche in modo personale (conosceva la vittima del ’74). Il finale si discosta dalla pedestre ricostruzione di cronaca della vicenda, immaginando una soluzione abbastanza curiosa e trash, col mostro che compie il delitto del ’68, irretito dalla puttanaggine di Barbara Locci, poi inizia a ricevere delle telefonate anonime da parte di una donna misteriosa che dice di sapere quello che ha fatto e lo ricatta, costringendolo a continuare a uccidere. Il killer così diventa un maniaco su commissione, ricevendo indicazioni e modalità impartite per lettera sulle coppiette da uccidere. Sempre per lettera arrivano anche cospicue cifre economiche. Il mostro si reca nei luoghi indicati, nelle ore indicate e trova, oltre alle vittime sacrificali, anche una banda di incappucciati! Delirio! Comunque il libro è noioso, simile alla voce monocorde di quei prof. che ti facevano addormentare dopo i primi minuti di lezione.
Andrea Gammanossi, scrittore prolifico di noir e thriller, ha dedicato un romanzo alle gesta del pazzo fiorentino. Il romanzo si intitola E’ tornato l’uomo nero, edito da Mauro Pagliai Editore nel 2015, con in copertina un bel dipinto di Roberto Dragoni. E’ tornato l’uomo nero rielabora la vicenda originale, inscenando le gesta di un nuovo mostro che torna a infestare la provincia fiorentina. Gammanossi pare ispirarsi ai delitti delle coppiette in egual misura che al cinema di Dario Argento, infittendo il romanzo di citazioni e richiami al giallo degli anni ’70 e ’80. La scrittura è veloce e tiene bene, forse un pochino appesantita dai due personaggi principali dell’autore, affetti da un buonismo da farti venire il latte ai coglioni. A parte questo la figura del mostro è interessante, anche se si tratta di un emulatore e non del maniaco originale. Altra nota di colore riguarda un personaggio misterioso, un vecchio che sembra sapere molte cose e si aggira sui fondali del romanzo spandendo un alone irreale e metafisico che ricorda molto certi passaggi iniziali di Assassinio al cimitero etrusco di Sergio Martino.
Nel complesso una lettura piacevole.
Sempre il buon Gammanossi torna con un’antologia di racconti incentrati sulla figura del mostro: Nelle fauci del Mostro, Felici Editore 2016. Non entrerò nei singoli racconti, quel che mi preme è sottolineare l’alta qualità degli scritti, accomunati da un’introduzione dello stesso Gammanossi che ha il merito di spostare l’attenzione dai processi, dalle condanne e dalle sentenze. E qui mi preme sottolineare come una buona parte di questi romanzi incentrati sul Mostro di Firenze sia sempre un modo da parte degli scrittori (spesso investigatori, avvocati, giornalisti, psicologi dei servizi segreti) di rintracciare il colpevole, di portare avanti le proprie teorie investigative. Ciò che manca nei romanzi sul mostro (non in tutti, Cugia, Cecchi e la Grimaldi sono un’altra cosa, sono scrittori con la A maiuscola, inventori capaci di astrarsi dalla mera cronaca) è la disponibilità a lasciarsi avvolgere dalla cortina di mistero di questo allucinante caso di cronaca a cui nessuno potrà più dare risposte certe. Le condanne costruite dai vari Giuttari & C. sono delle cazzate micidiali, inutile starci a girare intorno! Oggi il mostro è un caleidoscopio di paure, fobie, leggende cristallizzate nel tempo. Una sorta di cropsey italiano, di mostro metafisico che aleggia nei nostri sogni. Questo, a mio avviso, è il grandissimo merito della truppa di scrittori raccolti da Gammanossi: la capacità di essere riusciti a smetterla di fingersi indagatori e di provare a immaginare l’inimmaginabile. Il Mostro, al pari di un Jack lo squartatore o del dottor Jekyll è ormai un mito contemporaneo, una cronaca giudiziaria sfumata nelle regioni del terrore puro.