“L’assassino che è in me” di Jim Thompson (224 pagine; 7,90 euro; Fanucci Editore) è un altro di quei libri che sicuramente non può mancare nella vostra biblioteca personale. Vediamo perché!
SIDE A: Lou Ford fa lo sceriffo in una piccola e anonima contea del Texas. Lou Ford è nato e cresciuto in quella contea, è figlio di uno stimato medico di paese ed ha avuto occasione, negli anni, di dimostrare ai propri colleghi e concittadini di essere un uomo retto e gentile, comprensivo ma fermo nelle faccende che riguardano il proprio duro mestiere. Ancorché considerato una persona noiosissima, Lou Ford è amato da tutti e il suo lavoro è sempre molto apprezzato.
SIDE B: Lou Ford è un maniaco depresso e segretamente schizoide che si nasconde dietro un’abulica facciata di perbenismo e di ostentata onestà per commettere colossali ingiustizie e omicidi sanguinari. Lou Ford gira armato della sua dotazione d’ordinanza per le polverose strade di campagna a bordo della sua motocicletta della Polizia e, fra una multa per eccesso di velocità e una sosta alla locale scuola elementare per far scendere dall’albero l’occasionale gattino, spende il proprio tempo libero infierendo su prostitute e messicani, uccidendo le proprie occasionali compagne che sperano di sposarlo (il sesso femminile sembra proprio essere il suo debole) e in generale togliendo di mezzo chiunque cerchi di intralciare il suo cammino verso…..
Verso cosa? In effetti nemmeno Lou Ford sa – neanche per sommi capi – verso cosa lo condurrà la strada che ha ormai da anni intrapreso. E’ cosciente di essere in qualche modo “malato”, di covare dentro di sé un’ansia invisibile e un’indicibile voglia di libertà assoluta che, come una tagliola nello stomaco, lo consumano segretamente. Pulsioni che riescono a venire fuori (per fortuna degli altri) solo a sprazzi, concretizzandosi in uno sconfinato desiderio di schiacciare, umiliare e annientare il prossimo. Meglio se indifeso e emarginato dalla società. Ma Lou non può farci proprio niente. E nemmeno ha tanta voglia di porsi il problema. E’ la sua natura dopo tutto: come egli stesso afferma a un certo punto: “Un’erbaccia è una pianta fuori del proprio elemento”. Niente più di questo si sente di essere Lou Ford. Come un’edera rampicante (e velenosa) che cresce spontanea fra i bassi arbusti di un piccolo bosco, avvinghiandosi ai tronchi, graffiandoli e soffocandoli nelle proprie spire mentre si protende verso l’alto il più possibile, nel disperato tentativo di vedere cosa c’è più su, di incontrare finalmente la luce del sole. Senza rendersi però conto che è già notte fonda e che il sole (probabilmente) non sorgerà più…
Nel 1952 Jim Thompson scrive questo noir, che sconvolgerà l’immaginazione di tanti proponendo IL PRIMO POLIZIOTTO-KILLER DELLA STORIA. E “L’assassino che è in me” (“The killer inside me”) è senza ombra di dubbio l’opera più famosa di Thompson, il quale fu anche co-sceneggiatore di “The Killing” (“Rapina a Mano Armata”) di Stanley Kubrick accanto allo stesso regista. Thompson è uno scrittore di genere e il noir è il suo elemento. Numerosi sono stati i film tratti dai suoi romanzi, fra questi “The Getaway” di Peckinpah (1972) e Rischiose Abitudini” (“The Grifters” -1990) di Stephen Frears. C’è però da dire che Thompson è sempre stato “intorno” al Cinema, avendo già prima partecipato alla stesura del copione di “Orizzonti di Gloria”, sempre di Kubrick. Nel ’75 è la volta della prima versione cinematografica di “L’assassino che è in me”. Trasposizione che però si rivela a detta di molti scialba e debole. In una parola: trascurabile. Ed è un peccato perchè Thompson ha sempre dimostrato grande attaccamento per Lou Ford, il personaggio che gli ha dato fama e la possibilità di continuare con successo sulla strada del noir, tanto da farlo “ritornare” in “Wild Town” (1957). Il prossimo 26 novembre invece uscirà nelle sale l’ultima versione cinematografica del romanzo di Thompson. Diretta da Michael Winterbottom, vedrà come protagonisti, fra gli altri, Casey Affleck e Jessica Alba.
Tornando al romanzo, molto interessante è comunque la caratteristica che Thompson conferisce a Lou di ammorbare tutti con discorsi banali e scontatissimi, lamentandosi sempre di tutto quello che gli viene in mente quando non proprio del tempo atmosferico che cambia senza preavviso (il classico “non ci sono più le mezze stagioni”!), dando prova di poter creare attorno a sé un impenetrabile alone di NOIA MORTALE, di fronte al quale molti semplicemente se la danno a gambe alla sola vista dell’avvicinarsi dell’uomo in divisa. Così facendo, però, essi perdono di vista il vero punto della situazione: Lou è sì mortale, ma non certo per la noia che infonde!! Efficacissimo scudo anti-curiosi o “cortina fumogena” sviante che gli consentirà di andare tranquillamente avanti nelle sue scorribande senza doversi preoccupare troppo degli scocciatori che mai si immaginerebbero che “quel musone di Lou” sia in verità un pericoloso psicopatico.
Il padre di Jim Thompson aveva cominciato la propria carriera in Oklahoma proprio come sceriffo. Non ci è dato però sapere se l’autore, nel pennellare l’inquietante figura di Lou Ford, abbia preso a modello suo padre solo per quanto riguarda la scelta del mestiere.
Certo, c’è da dire che ai tempi ci si “sconvolgeva” proprio con poco: posto accanto a tanti personaggi “deviati” proposti da scrittori più vicini al nostro tempo (anche non necessariamente di noir) come Bret Easton Ellis, Chuck Palahniuk e Ian McEwan, il Lou Ford di Thompson appare, non dico come un agnellino (pur sempre di un killer si tratta!), ma poco più cattivo di un cane pastore un po’ schizzato (alla “Cujo” per intenderci).
Motivo per cui ho trovato questo libro sin troppo lineare e “classico”, capace di donare al lettore moderno – già cinematograficamente vaccinato dal “siero Tarantino” e dagli anticorpi-noir donati da un certo Christopher Nolan (per citarne solo due) – qualche brivido vero e proprio solo a sprazzi e non in maniera quasi costante come avviene in altri (più fortunati) casi. Ma forse è il “mood” di “L’assassino che è in me” che è diverso da tanti altri e risulta quindi un po’ difficile da capire sino in fondo: l’orrore che Lou Ford è capace di ingenerare nel lettore, anziché alle scene truculente (di cui è comunque protagonista), è legato molto più all’intoccabilità del protagonista, a quell’astuta aura di umile servitore della legge al di sopra di ogni sospetto che comunque Lou si porta sempre dietro, ben consapevole che gli inquirenti che indagano sugli omicidi che ha commesso, tanto, NON HANNO UNO STRACCIO DI PROVA… e mai ce l’avranno. A meno che lo stesso Lou non glie le fornisca, le prove, con una confessione spontanea. Ma Lou ha nervi d’acciaio inossidabile e sa (pensa) benissimo che non potrà mai cedere alle loro strambe illazioni e che non potrà mai cadere nelle loro stupide trappole, sentendosi di fatto intoccabile. Una faccia di bronzo d’antologia.
Se comunque dovessimo ricercare il vero motivo d’essere alla base di questo romanzo, allora il mirino andrebbe sicuramente puntato sul finale, in cui (tra una beffarda risata dall’aldilà e l’altra) veniamo a sapere che tutta la storia è stata raccontata da una persona già morta: Lou Ford di fatto viene ucciso dai propri colleghi in una sparatoria e il libro non è altro che la CONFESSIONE DEL CADAVERE DI UN PAZZO. Il “racconto dall’Oltretomba” è un espediente peraltro non nuovo in letteratura (e nemmeno nel noir), ma comunque sempre d’effetto. Queste le sue ultime deliranti parole: “Già, penso sia tutto, a meno che la nostra razza non abbia un’altra chance in quell’Altro Posto. La nostra razza. Noi gente. Tutti noi che abbiamo cominciato la partita con una stecca storta, che volevamo così tanto e abbiamo avuto così poco, che avevamo intenzioni tanto buone e abbiamo fatto tanto male. Tutti quanti noi…… Tutti noi. Tutti noi.”.
Non epocale come poteva essere 50 anni fa, ma assolutamente non scritto “male”. In ogni caso privo di qualsivoglia sottinteso socio-politico e per niente sconvolgente. No, non con quello che passa la TV oggi, telegiornali compresi.