PARLA COI MORTI 13

GITA NEL BOSCO

- E questo è Luigi, detto Giotu, vale a dire mio nonno. Ogni tanto, mentre il sole stava sorgendo, veniva a prendermi con un carro agricolo e una coppia di buoi. Prima di salire sul carro, mi fermavo davanti a quei due animali, col mantello bianco e gli occhi grandi, cerchiati di nero. Nel loro sguardo non c’era nulla di dimesso, di rassegnato alla servitù, come si conviene a bestie da soma o da traino. Mi guardavano dritto negli occhi e sembravano dirmi: “Visto che ci siamo alzati presto, non sarebbe male se tu prendessi posto; e non star lì a indicarci il percorso o il passo che dobbiamo tenere, che tutto questo lo sappiamo da noi”. Io mi avvicinavo all’orecchio di uno e gli soffiavo: “Visto che sai tutte queste cose, un giorno ti porto in un posto che neppure in sogno l’hai visto”. Poi mi giravo verso mio nonno e gli dicevo “Dal momento che non abbiamo una stalla, questi due da dove vengono?”

“Da gente che non conosci e, comunque, una coppia di buoi così è da una vita che avrei voluto averla.”

Il vecchio era convinto d’avermi dato una risposta esauriente e io salivo sul carro e mi sedevo accanto a lui. Mio nonno sorrideva “Ecco uno che stenta a capire l’antifona. Tu vorresti sederti qui, a gambe penzoloni, di modo che alla prima buca, al primo strattone, te ne vai giù a capofitto e una ruota ti porta via una gamba. Poi sarebbe un tantino imbarazzante per me spiegare la faccenda ai tuoi”.

Io scrollavo le spalle e mi dicevo “Ai tuoi! Ma se mia madre lavora tutto il giorno in fabbrica e mio padre è via in guerra e non so neppure chi sia!”

Dopodiché montavo sul carro, ma non mi sedevo contro le sponde, come avrebbe voluto il vecchio, perché di lì non avrei visto niente.

Me ne stavo in piedi dietro di lui e gli poggiavo le mani sulle spalle. Lui protestava per un po’, poi sapeva che di lì non mi sarei mosso e lasciava perdere.

Intanto i buoi, senza che nessuno glielo avesse detto, s’erano messi in marcia, con un passo cadenzato, solenne.

“Ehi, come se la tirano questi due!”

In tutti quei viaggi, non vidi mai mio nonno sferzare quegli animali, anche solo con un ramoscello di salice o di pioppo raccolto per strada. Quelli erano capaci d’offendersi e di riportarci a casa!

Ecco il ponte sulla roggia e a sinistra le piante di noci, solide, con le foglie lucenti sotto la pioggia e con dei frutti come gioielli dentro un forziere. A destra costeggiamo la piantagione di tabacco del Furlos, con le foglie enormi e rossicce.

Il Furlos, per quanto ne so, faceva sempre lavori strani: ora il tabacco e, dopo, un allevamento di tacchini.

“Cosa ci vedranno mai” mi dicevo “a fumare queste foglie e che gusto può venirci fuori? In fondo è solo fumo, non è come mangiare pane e salame.”

Ora costeggiamo l’altra roggia, quella che scorre vicino agli Stati Allegri; qui le sponde sono più larghe e l’acqua più calma.

Siamo giunti alla fontana, ai piedi di una collinetta. Qui, come per un sortilegio, tutti si fermano e bevono, anche quelli che non hanno sete, in questa conca coi sassolini sul fondo e l’acqua splendente.

Mio nonno con un secchio abbevera i buoi e io do un’occhiata alla riva, se mai mi riesce di vedere qualche anatra selvatica.

Qualche volta la fortuna mi veniva incontro e un’anatra con una dozzina di piccoli scivolava sull’acqua. M’incantavano i loro colori e le loro serene movenze.

Allora mi sporgevo dalla riva e dicevo: “Va bene, siete belle e nuotate anche meglio di tanti altri, ma mi date l’impressione di gente che va a merenda e, invece, questo non è il posto giusto per distrarsi. Qui circola la lontra e, se vi incontra, di tutte voi fa un boccone!”

Ma le anatre non sembravano tenere in gran conto i miei avvertimenti e se ne andavano giù con la corrente; allora io aguzzavo gli occhi se per caso mi veniva d’intravedere una lontra.

Ma quel giorno, evidentemente, doveva essere a caccia da qualche altra parte e, con lei nella roggia, non poteva star tranquillo nessuno, che fossero pesci, rane o anguille. A parte gli insensati.

L’avevo vista qualche volta e anche da vicino: sporgeva il muso scuro e baffuto dall’acqua, con degli occhi innocenti. Per questo forse andava perdonata: non dava per nulla l’impressione d’aver coscienza dei suoi crimini.

Intanto mio nonno già risaliva sul carro.

Ora costeggiamo dei campi coltivati a granoturco, con le piante in fila come soldati.

“Che ne dici se scendo e prendo due pannocchie, così stasera ce le arrostiamo sulla stufa?”

“L’idea è anche buona, ma se ci vede qualcuno, non facciamo gran bella figura. No, meglio aspettare d’incontrare il padrone d’uno di questi campi e non credo che vorrà negarci qualche pannocchia.”

Ma di padroni in giro non se ne vedono e così arriviamo al bosco.

In quei tempi, le due rive della Dora erano ricoperte d’enormi boschi e quello dell’altra sponda era ancor più selvaggio e privo di sentieri, tant’è che mio nonno non volle mai andarci.

I buoi hanno rallentato il passo e io sto ben attento con gli occhi.

Passano pochi minuti e già sono incantato da un nido che non ho mai visto. Non è nascosto nel fogliame e non poggia sui rami come gli altri; è sospeso in aria e pende dai rami d’un salice, come una nuvola scura. Da vicino si vede una piccola entrata e si sente un sommesso pigolio.

Mio nonno non mi fornisce grandi informazioni sugli abitanti; dice solo che fanno la spola tra il nido e il fiume, ma cosa vadano a cercare nell’acqua non è dato saperlo.

Mi vorrei fermare di più sotto quella pianta fatata, ma i buoi non sentono tutta quella magia e vanno avanti.

Ora dal fondo del bosco si sente uno strano richiamo, un misterioso rimbombo, come di qualcuno che voglia mandare un segnale, un avviso.

“È il cucu” dice il vecchio.

Io ormai ho deciso che non tornerò a casa, se prima non vedo chi canta in quel modo.

“E se noi scendessimo e, quatti quatti, senza fiatare, gli andassimo sotto e, magari, di già che ci siamo, diamo un’occhiata anche al suo nido?”

“Ma il fatto è che lui, per qualche motivo, non ci tiene a farsi vedere. Quello è più furbo d’una scimmia e, dopo che hai fatto un passo, già lo senti cantare da un’altra parte; oppure smette del tutto di cantare e si nasconde tra le foglie. Quanto a vedere il suo nido, potresti passare tutto il giorno a cercarlo, visto che non s’è mai degnato di farne uno.”

“Ma un nido lo devono fare tutti.”

“Tutti, ma non il nostro uomo. Lui non lo ritiene affatto necessario.”

“E come fa?”

“Dev’essere un fannullone, uno che di voglia di lavorare ne ha poca o niente. Le uova le deve fare per forza, perché lo costringe la natura, ma dopodiché si ferma lì e passa l’incarico a qualcun altro, un po’ più volonteroso di lui.”

“Sarebbe?”

“Sarebbe che lui le uova le va a depositare nel nido degli altri, quelli più piccoli di lui. Prima li spaventa e li costringe a volar via e, a quel punto, deposita il suo uovo. Così non s’affatica a covare e a cercare cibo per i piccoli e gli rimane tutto il tempo per bighellonare nel bosco.”

“Che stranezza, questa storia…”

“T’ho detto che è un fannullone, ma potrei aggiungere che è anche un poco di buono.”

“E perché?”

“Non te lo dico, altrimenti comincerebbe a piacerti di meno.”

Ci inoltriamo ancora e sentiamo degli strani rumori, come se qualcuno piantasse dei chiodi in un albero.

Stavolta convinco mio nonno a lasciare il carro e in silenzio cerchiamo di avvicinarci al luogo da cui proviene quel continuo martellare. Ed ecco che in una zona meno alberata, vediamo un grande uccello aggrappato al tronco d’una pianta. Il dorso è d’un verde metallico e il capo rosso.

“È il picchio.” sussurra il vecchio “Sta scavando il nido.”

“Andiamo ancora più vicino.”

Di uccelli ne ho visti tanti, ma questo sembra venire da un altro mondo.

Il picchio non sembra troppo disturbato dalla nostra presenza e penso di fare ancora qualche passo, quando di colpo l’uccello si gira, emette un suono simile a una risata e, come una saetta verde, sfreccia davanti ai nostri occhi.

Io lo guardo, incantato.

“Avere un uccello così, questo sarebbe vivere…”

Poi mi giro e dico:

“E se adesso che sappiamo dove fa il nido, al momento buono ci prendessimo un piccolo e lo allevassimo noi?”

“Beh, intanto salire fino a quel buco non è proprio una passeggiata. Ma anche se di piccoli ne prendessi cento, non potresti allevarne neppure uno. Mangiano le formiche e quel che trovano sotto la corteccia degli alberi, ma glielo devono offrire il padre o la madre; se glielo dai tu, muoiono tutti.”

Quel che dice il vecchio mi guasta un po’ la festa, comunque…

Ritorniamo al carro, ma le sorprese non erano finite perché, da poca distanza ci giunge un canto melodioso, mai sentito, che mi affascina. Anche questa volta, non posso resistere alla tentazione di vedere chi canti in quel modo e, dopo pochi passi, sul ramo d’una quercia, intravvedo un grande uccello giallo. Ma quello mi lascia appena il tempo di dargli un’occhiata, che mi vola sulla testa come una freccia.

Mi giro e grido a mio nonno “Che cos’è?” e seguo con lo sguardo l’uccello finché scompare alla vista.

Il vecchio ride.

“Ti avvicini troppo e quelli non amano la gente indiscreta. E poi hanno le orecchie sottili… Lo chiamano il Guliard, ma di lui non so nulla. L’ho visto solo qualche volta e sempre da lontano.”

Faccio fatica a riprendermi da quella visione improvvisa.

Intanto siamo giunti sulla sponda della Dora. Mio nonno stacca i buoi e cerca della legna da ardere; nella stagione buona, vede anche se trova qualche fungo pregiato, da mettere sott’olio e da mangiare d’inverno con un buon pane nero.

Io esploro la riva del fiume.

“Vedi di non mettere i piedi in acqua: le sabbie cedono e ti fanno affondare. Così la corrente ti porta via e ti ritroviamo domani sotto un ponte.”

Guardo il vecchio e penso “Per fortuna che in casa c’era poca legna, altrimenti non saremmo venuti fin qui”.

Solo più tardi mi resi conto che quei viaggi il vecchio li faceva solo per me e non certo per quei quattro rami secchi.

“Credo che sia l’ora di pranzo, ma può darsi che tu non abbia fame.” mi diceva sorridendo.

Intanto si avvicinava al carro e ne estraeva una bisaccia e sull’erba deponeva del pane nero, del formaggio di pecora e del salame. Per lui c’era del buon vino delle colline e per me dell’acqua presa alla sorgente. Così, seduti all’ombra, lasciavamo passare il mezzogiorno sulle nostre teste, mentre i buoi, liberi dal giogo, se ne andavano in giro, come gente che il bosco lo conosce bene.

Avevamo appena finito l’ultimo boccone, che alziamo gli occhi e vediamo i due buoi accanto a noi, che ci guardavano in silenzio.

Così riprendiamo la via del ritorno.

I buoi vanno di buon passo e sembrano aver l’aria soddisfatta, come di persone che sappiano d’aver compiuto un buon lavoro.

Arrivati vicino alla nostra casa, si fermano. Io scendo dal carro e, prima di entrare nel cortile, mi fermo davanti a loro e pongo le mani sulle loro corna; poi, lentamente appoggio la testa sulla loro fronte e sento scorrere in me una grande forza.

Loro mi guardano con l’occhio serio e sembrano dirmi “Forse ci rivedremo”.

(13 – continua)

Bruno Vacchino