LA LAPIDE SENZA FOTO

Il cimitero distava alcune miglia dal centro del paese: un gruppuscolo di cappelle appoggiate le une al fianco delle altre, con le schiene grigie e annerite dall’umido, assomigliavano a un manipolo di soldati arroccati attorno alla tavola, le giubbe stinte corrose dalla battaglia. Chiunque avesse deciso di porlo così lontano dal centro abitato, non lo aveva fatto senza accortezza: i luoghi dove dormono i morti vanno tenuti ben alla larga dalle case dove dimorano i vivi. Ne sapevano qualcosa gli africani, che posizionavano le lapidi sul fianco di qualche promontorio sul mare, ben lontano dai villaggi. In quei formicai sul baratro del nulla che sono i villaggi africani che si affacciano sul mare, bastava una notte con la luna e una seduta di voodoo terminata male, che le lapidi bianche sul fianco della collina avrebbero potuto emettere qualche sinistro scricchiolio.

Bisognava, insomma, andarci con i piedi di piombo, andando ad evitare che i due mondi si mettessero pericolosamente a parlare. Meglio, dunque, esiliare, recintare, rinchiudere tutto per bene, benedire ogni sepolcro con scrupolo. I morti e i vivi non devono trovarsi a comunicare troppo di frequente, non si sa mai!

Così, che si trattasse del cimitero africano o del nostro ossario, chiunque si recasse in visita alle tombe si trovava a dover fare un bel pezzo di strada.

Anche quella mattina fece il suo ingresso nel grigio cimitero un uomo con il cranio rasato e il bavero della camicia sollevato. Avrà avuto non più di sessant’anni e la sua andatura era solida e cerimoniosa. Portava la barba di qualche giorno, e la corta peluria non era ancora del tutto canuta. Dalle labbra pendeva uno sghembo sorriso, che mai abbandonava il suo volto, e il naso largo e sbilenco poteva far pensare a un veliero che si era andato ad accartocciare sul viso, come contro una scogliera. Nella mano portava un tulipano giallo e procedeva come chi ha gran dimestichezza con il luogo. Giunse ad una lapide a muro, sotto un porticato, e depose il fiore. Sulla tomba non vi era la fotografia del defunto, ma soltanto il nome, il cognome e la data di nascita e di morte, scritti con caratteri semplici. Stette qualche istante, in piedi e composto con le braccia dietro la schiena, davanti alla lapide, quindi si voltò e tornò da dove era venuto.

Il sole, nel frattanto, aveva preso a scintillare dalle nubi e la testa del nostro uomo rifletteva flebilmente quei luccichii.

- Salute, Boss – un ometto ricurvo con il giubbotto di jeans e gli occhiali con la montatura storta salutò dal fianco del cimitero.

L’uomo pelato e con il bavero alzato cambiò direzione e raggiunse l’ometto ricurvo.

- Stai bene, Giannotto? – gli domandò con una voce di cartavetro.

L’ometto, che doveva avere almeno ottant’anni, gli rispose qualcosa con voce flebile e flautata, che il nostro uomo non capii, né si diede cura di decifrare.

- Allora salutiamo e continuiamo il giro – disse il pelato con fare sbrigativo.

Si muoveva con energia e sicurezza, da uomo che si affaccia al mondo con confidenza, e il rispetto con cui l’ometto gli parlava lasciava intendere che ci trovavamo al cospetto di una persona importante.

- Aspetta un secondo, Boss – disse con quel poco di voce che gli rimaneva.

Scocciato, il pelato porse l’orecchio nella direzione del vecchietto.

- Hai bisogno di qualche favorino? – domandò brusco, con il sorriso sghembo che gli caratterizzava il viso.

- Avvicinati – gli faceva cenno con la mano ossuta e bianca.

Con aria contrita, il Boss si curvò verso la bocca del vecchio.

- Eh, io lo so perché tutti i giorni vieni qui a trovare quella tomba, lo so.

Il pelato arretrò: sotto il sole del mezzogiorno, guardò di sottecchi il vecchio, scuro in volto.

Il nostro uomo tornò al cimitero le mattine successive: portava sempre con sé un fiore tagliato di fresco, che andava a deporre alla tomba senza foto sotto il porticato.

Una mattina, con la calura dell’estate che saliva dalla ghiaia del camposanto, vi erano degli operai che cercavano rifugio all’ombra, durante la pausa del mezzodì (in paese c’era ancora qualcuno che temeva i demoni meridiani e non si fidava a lavorare con il sole a picco).

- Che lavoro state eseguendo? – chiese il pelato ad un giovane operaio senza degnarlo di uno sguardo.

- Stiamo rifacendo la cappella dei Prestigiacomo, laggiù in fondo. Vogliono ammodernarla, perché la nonnina è pronta per entrare nell’ombra.

Il Boss guardò nella direzione della cappella, poi, indifferente, riportò gli occhi a terra, le mani congiunte dietro la schiena.

Dopo poco, il giovane operaio gli si avvicinò. Era un giovanotto con sottili basette scure e labbra strette e violacee, come se fosse appena uscito da un lungo bagno freddo.

- Mi scusi se mi permetto…

- Dimmi pure – il pelato gli diede una rapida occhiata, muovendo appena il naso sproporzionato.

- Gira voce in paese che lei… – il ragazzo si interruppe.

- Che io? Su ragazzo, tempo ne ho pochino.

- … Sì, che lei abbia scampato diverse volte alla morte. Qualcuno giura che abbia stretto un patto con il Diavolo.

Il pelato corrugò la fronte in un’espressione severa, da giudice.

- Non ti pare di impicciarti un po’ troppo?

Il ragazzo, pallido in volto, si scansò; cercava, abbassando la fronte, di nascondere la vergogna che gli arrossava il volto. “Non volevo” ripeteva.

- Non fartela sotto, avvicinati!

Il giovane riprese coraggio e fece un passo nella direzione dell’uomo.

- Le voci che hai sentito sono tutte vere.

L’operaio sollevò la fronte e, stupito, perse di colpo il rossore.

- Sono stato io stesso a metterle in giro, per scoraggiare i miei nemici.

Con la mano afferrò il braccio del ragazzo e lo avvicinò a sé, in modo da non farsi sentire dagli altri operai.

- Mi ero accorto che, tra la gente del paese, i soli a non morire mai erano quelli che possiedono già, qui al camposanto, una tomba che reca il loro nome. Non è difficile, sai, in un paese piccolo come il nostro, avere un omonimo che dorme qua sotto, con i piedi freddi.

Con la mano indicava la terra del cimitero. Alcune delle lapidi erano sprofondate per metà nel terreno, inghiottite da improvvisi avvallamenti che si venivano a creare.

- Io non avevo questa fortuna. Per cui, ho dovuto provvedere.

Il ragazzo sollevò lo sguardo al viso del Boss, pallido e timoroso lo fissava con stupore.

- Pare una gran cosa, ma non è così difficile: si tratta di trovare, fuori dal paese, un tale che ti assomigli il più possibile; lo segui, te lo studi per benino e, quando è il momento gli tiri il collo. Poi prendi il cadavere, lo metti in casa tua e sparisci dalla circolazione. Dopo qualche anno, torni in paese.

- Così tutti penseranno che sei riuscito a venir su dalla tomba – disse il ragazzo senza respirare.

- Non è questo il punto. E’ la morte. La morte vede la lapide al cimitero? E allora non viene più a cercarti!

Il ragazzo accennò un sorriso, perplesso.

- Ragazzo, a chi credi che venga a portare i fiori, ogni santa mattina

Daniele Vacchino