Thomas Ligotti è uno degli autori più originali del panorama letterario degli ultimi anni. Grazie all’opera meritoria di un editore come Ugo Malaguti e di un traduttore/curatore come Armando Corridore, l’opera di questo autore è stata diffusa anche in Italia.
Ligotti inizia a pubblicare racconti (arte alla quale si dedicherà in massima parte) agli inizi degli anni ’80 su riviste amatoriali, rimanendo un autore di nicchia fino a pochi anni fa.
Armando Corridore, nel saggio postfazione a I canti di un sognatore morto, scrive delle considerazioni importantissime per entrare nell’universo di questo scrittore di Detroit, refrattario e isolato. Nella sua prosa è possibile rinvenire tracce culturali molto varie, da Poe, Lovecraft, Chambers, fino a Leopardi, le dottrine esoteriche, alchemiche, i poeti simbolisti miscelati in racconti ancora (parlo dei Canti di un sognatore morto) abbastanza classici con personaggi e intrecci che via via divengono lacerti narrativi di un’introspezione velata, un incubo personale che riverbera un incubo universale, una visione onirica orientata a svelare le trame d’incubo dell’esistenza umana.
Ligotti è un autore travagliato, afflitto fin da giovanissimo da disturbi di ansia e panico, gravi depressioni e problematiche allo stomaco; questa carriera clinica si traduce in una prosa oscura e letteraria, verbosa, che mescola arte e vita, letteratura e horror gotico, giocando sulle debolezze e fragilità di personaggi sempre più vaghi e indefiniti, asciugati in senso onirico su una pagina frammentaria e indiretta, lontana dalle rifiniture dell’editoria attuale, preoccupata di plot e personaggi psicologicamente definiti. In Ligotti di definito c’è poco. L’occultismo è descritto non come pratica, ma come consapevolezza che la natura umana è una finzione di maschere inautentiche, manichini senza emozione, burattini del quotidiano abitati da una noia interiore che finge di allontanare il dolore quotidiano dell’esistenza. Per Ligotti l’universo è un grande carnevale di finzioni, dietro alle quali traspare, a intermittenza, un’altra realtà grottesca, macabra, dominata dal segno unificante della morte. Da questa irrealtà macabra scaturisce un io narrante che nel tempo perderà sempre più il senso classico dell’intreccio e della caratterizzazione dei personaggi, a favore di una dissociazione interiore parallela a quella operata da Samuel Beckett o alternativa a certe prose ostinate e simboliche di un Chambers.
Nella seconda raccolta di Ligotti edita in italiano, Lo scriba Macabro (Elara, 2015) coesistono ancora racconti di mutazioni della carne e nuove prose sfilacciate e soprannaturali, tentativi superbi di catturare sulla pagina la presenza spettrale dell’inconscio, popolato di cinema notturni, spaventapasseri sotto la luna, vecchie signore, asceti ossuti, mistici baracconi e presenze malefiche senza nome che si aggirano nelle ore del crepuscolo liberando un drappo funebre di bara sopra il mondo. In questi racconti nulla acquista una concretezza tangibile e la voce narrante rimane sempre in una desolazione evocativa, atmosferica simile alle cuspidi spigolose di vecchie case desolate. La prosa obliqua di Ligotti sembra andare incontro ai fantasmi della mente, allontanandosi dalla realtà fisica e addentrandosi in un labirinto letterario che si accomuna alle proiezioni dell’inconscio del cinema espressionista tedesco, fucina di altre irrealtà macabre, espressioni referenziali e artificiali delle ipotesi freudiane, surrealiste. Come nel cinema espressionista, Ligotti lavora essenzialmente su una voce interiore che dissolve la luce e strappa l’individuo alla verosimiglianza, deformando le parole in un contenuto emozionale e spettrale, una lunga allucinazione delle ore del tramonto e notturne, un viatico del rimosso verso l’artifizio, la simulazione diffusa, la sostituzione della marionetta all’umanità, allusione novecentesca (Pirandello, Svevo, Nietzsche) a un mondo senza centro, ambiguo e drammatico dominato da pulsioni distruttive dell’Io.
Così anche i racconti di Ligotti si riempiono di ombre, doppi, segni, riflessi della mente, tracce fantasmatiche di una grammatica iper-simbolizzata e perturbante, riempita dalle insicurezze, le paure e le ossessività di un’esistenza illusoria e fittizia. E’ questo l’approccio al problema della maschera: in un quadro narrativo di precarietà e angoscia (perfettamente connesse con un presente in cui ciascuno di noi vive immerso in questi tempi di eterna post-crisi economica), l’inatteso sboccia nel quotidiano, rovesciando le ultime sicurezze dell’identità collettiva, sbriciolando il conosciuto nell’inatteso e incerto. Nel paradosso. Questa crisi identitaria trova una sua formulazione nella filosofia concettuale di Nietzsche, sebbene Ligotti acuisca la sofferenza dei suoi personaggi, portatori di maschere sulla decadenza che li avvolge.
In Ligotti la maschera diviene un sintomo evidente d’una perdita di identità, di verità, di umanità, a favore di un inorganico disarticolato come quello dei burattini, delle marionette, delle fiere o dei baracconi nichilistici dell’espressionismo tedesco (o del cinema odierno di James Wan, su tutti l’autore più spettrale, capace di lavorare sui sillogismo del volto maschera dei suoi burattini di carne).
Thomas Ligotti porta avanti questo suo percorso all’interno della raccolta Teatro Grottesco, pubblicata da noi per Il Saggiatore nel 2015 e poi nel recente Nottuario (2017). L’evoluzione narrativa dell’autore americano assomiglia sempre più a una involuzione, a un deragliamento verso l’incertezza e l’indeterminato. A differenza di Beckett e delle sue pagine bianche, Ligotti ama perdere gli esili fili delle sue trame, continuando comunque il cicaleggio di una voce senza occhi, di una voce interiore che s’è perduta nei labirinti del suo continuum. La radice del reale viene stravolta da un’immaginazione umbratile e misteriosa che colora la messinscena come un palcoscenico di pagliacci. Ligotti pare attingere da un percorso culturale sempre identico (Lovecraft per l’indeterminatezza dell’orrore e per una geografia barocca; Poe per il radicale pessimismo e la carica demoniaca; Nietzsche per il nichilismo), a cui aggiunge delle coloriture fantascientifiche alla Burroughs o somiglianze col cinema perturbante di James Wan. Tuttavia i racconti più riusciti oscillano tra la narrazione e il discorso saggistico, perdendosi in lunghe sequenze introspettive, viaggi psicanalitici all’interno del concetto di maschera, sinonimo di doppio dell’autore e di ciascuno di noi; il tema del doppio è presentissimo in Ligotti e spesso affidato a presenze sfumate o a manichini, segni di un perturbante ottocentesco/novecentesco che trova le sue ragioni nei vari Hoffmann, Maupassant, Poe, Wilde e praticamente tutto il cinema espressionista tedesco della Repubblica di Weimar; attraverso i suoi baracconi horror, le sue american horror story, l’autore cerca di liberarsi dei suoi doppi allegorici, inalienabili emanazioni del suo passato psicologico ed emblemi di un presente alienato e massificato.
A posteriori, i nebulosi anfratti della vita nevrotica di Ligotti trovano materiale analogico nelle sue pagine, squisitamente filosofiche e inesorabili, alla ricerca di una fine eterna d’ogni pensiero e dolore. La ricerca di Ligotti, rispetto ai primi volumi, sembra radicalizzarsi e alleggerirsi allo stesso tempo, negandosi un fine preciso o dei messaggi che potrebbero appesantire o banalizzare il tutto e rischiando persino di scadere nel ripetitivo. I suoi ultimi racconti sono lenti e svagati, illuminati da impercettibili accadimenti strani e inquietanti, ipotesi di morte mai veramente svelate. La strada intrapresa in Teatro Grottesco sembra a una solo corsia, senza ritorno, una lost highway.
Prima di questo lavoro fondamentale, Ligotti aveva licenziato uno strano libro, un saggio filosofico intitolato La cospirazione contro la razza umana (Il Saggiatore, 2016), dove ripercorre le teorie antinatiste di alcuni filosofi, in particolare di un oscuro filosofo, Peter Wessel Zapffe; purtuttavia il libro, a mio avviso meno innovativo rispetto ai racconti, pare rivelarsi una sorta di making of sul lavoro narrativo di Ligotti e sul racconto dell’orrore soprannaturale nel XXI secolo. Infatti le pagine più belle sono quelle in cui il nostro abbandona le teorie oscure dei suoi noiosi filosofi e si concentra sul lavoro di Lovecraft, Poe e la psicologia del perturbante. Nel capitolo finale, Autopsia su una marionetta: anatomia del soprannaturale, Ligotti spiega la sua idea di narrativa dell’orrore, riprendendo le parole di Lovecraft (da una lettera del 1935) sull’atmosfera e la cristallizzazione simbolica dell’animo umano come paradigmi del racconto weird. Il segreto dell’atmosfera è la semplicità, un alludere a qualcosa di sinistro che si trova al di là di ciò che è percepito dai sensi e da ciò che qualunque mente possa comprendere. Sempre nell’Autopsia l’autore scrive delle pagine memorabili comparando Uno nessuno centomila di Pirandello con L’inquilino del terzo piano di Topor, entrambi incentrati sul disorientamento dell’identità, la dissoluzione trasformativa del concetto di sé nell’uomo; Pirandello risolve il suo libro con il protagonista che trascende se stesso e diventa nessuno, nel romanzo di Topor il personaggio principale inizia una discesa nell’incubo fatta di reincarnazioni e paradossi dell’identità. Altre righe memorabili sono quelle in cui vengono paragonati L’esorcista di Blatty con Il caso di Charles Dexter Ward di Lovecraft, visto come un racconto radicale che, a differenza del primo (ossequioso verso dogmi e tradizioni), contempla un universo senza forma e senso, in linea con le formulazioni della fisica novecentesca.
Personalmente trovo Ligotti un ottimo punto di partenza per una nuova narrativa dell’orrore in questo XXI secolo. Una involuzione. Voci sfibrate. Come i raccontini che scrivo, spersi nel magma della rete. Tra zone morte e soglie oscure.