Scendendo da Vercelli nella direzione del fiume Po, si nota una dispersione del numero di nuclei abitativi. Risaie e corsi d’acqua che quest’anno, a causa delle piogge, sono colmi fino all’orlo. La pianura infinita, di terra e di acqua, poi paesi semi abbandonati. Saletta, Torrione, Due Sture, Fontanetto Po. Le alluvioni hanno spopolato quei luoghi, un senso di cupo abbandono tiranneggia l’aria, la campagna è un mesto sentore di declino. La Pianura Padana arresta il suo corso fatto di persone palazzi strade. Dentro la pancia di un mostro che assembra moltitudini di centri abitati si divarica un lembo di nulla, dominato dal fiume, dai suoi imprevedibili e ramificati meandri, che si fanno nel corso delle piene anse bizzose, i ghiareti che emergono come guance anziane, cambiando la fisionomia del territorio, disfacendo case e sbriciolando le porte di legno. E poi isole sabbiose che compaiono, su cui crescono salici e ontani, che scompariranno alla prossima piena, soccombendo all’irruenza dell’acqua. I terrapieni eretti ad argine non possono essere uno scudo invalicabile: ai prati erbosi si sostituirà l’acqua che repentina scivola sui sassi; i terreni svaniscono su una sponda per riapparire su un’altra. Il grande gioco delle finzioni e delle ricomparse sotto altre maschere ricompone i fili tenuti tra le dita delle Parche.
Paesi che possedevano una ragione d’essere in virtù della loro posizione sul fiume (Trino, Casale Monferrato) sono oggi gli ultimi avamposti del tempo del commercio che sopravvive all’erosione macilenta del silenzio. Casale Monferrato possiede tutta un’ala di città in cui piazze metafisiche di ore mute si affiancano ad alberghi con insegne degli anni settanta. D’inverno, nella nebbia, sono rumori di passi e l’angoscia di avvertire una mano che trascina nei vicoli. D’estate sono le lente sonnacchiose ore rubate al sonno: girare senza meta con un amico, una donna conosciuta da poco (fantasmi tra i fantasmi).
Presi a girare tra questi paesi distanti tra loro molti chilometri, dopo essermi imbattuto in un bizzarro giornalista. Stavo scrivendo un saggio sul caso del Mostro di Firenze e feci la conoscenza di un giornalista che viveva nella mia stessa città e che aveva lavorato per la cronaca nera di un quotidiano nazionale. Possedeva un archivio degli anni in cui il Mostro aveva imperversato nelle campagne fiorentine e mi aveva invitato a casa sua per consultarlo. Quando interrompevo il mio lavoro di studio, il vecchio giornalista mi preparava un caffè e mi invitava in cucina con lui. Tra le scartoffie di una casa invasa da antichi testi stinti, mi raccontava con un sorriso indecifrabile la sua teoria circa il maniaco di coppiette. Si era messo in testa che l’assassino agisse con uno scopo religioso. A suo dire, i duplici omicidi erano avvenuti tutti nei giorni dedicanti alla Madonna. I feticci che l’assassino strappava dal pube e dai seni delle vittime femminili diventavano reliquie da portare a edicole sperdute nella campagna. Il Mostro agiva per ripagare la Madonna della grazia ricevuta in seguito a un voto.
“Gli omicidi del Mostro spiegati con un ex voto?” mi domandavo perplesso. Ma non osavo porgli alcuna domanda che incrinasse le sue convinzioni: era un tipo irascibile, bianco di pelle e di pelo, con un pizzetto stretto e gli occhi piccoli sul naso adunco, e temevo che non mi avrebbe più permesso di accedere al suo prezioso archivio.
Un giorno, mi imbattei in un pezzo di carta conservato tra i ritagli di giornale, di riviste e di libri. Si trattava di un foglio sbiadito e stropicciato, su cui era scritta con ortografia bizzarra un appunto che ebbi cura di ricopiare di nascosto e che vi ripropongo qui: “Culti di morte nelle anse del fiume. I simboli del male si riproducono identici. Un’oscura congrega recita i suoi salmi, o un orrendo carnefice sta sorgendo dalla tomba?”.
Era del tutto evidente che mi trovassi a contatto con un estroso, forse anche un complottista che aveva perso gli agganci con la realtà. Era forse dell’idea che il Mostro di Firenze si fosse rincarnato nelle nostre zone? O accarezzava l’ipotesi di un contagio del male, capace di irradiare la mente di un nuovo assassino, sulla scia dei precedenti crimini?
Evitai di protrarre i nostri incontri: ero ormai sufficientemente rifornito di materiale e il contatto con quell’invasato non poteva che nuocermi. Mi misi al lavoro sul mio saggio, nelle ore libere dal lavoro. Nel frattempo era sopraggiunta l’estate, annunciata da flebili ma instancabili piogge tardo primaverili. Le giornate si fecero lunghe e difficili da sopportare: sulla città si era addensata un’aria umida e compatta. Giunsero anche le ferie e potei dedicare maggior tempo alla stesura del saggio. Non disponevo dei soldi necessari a una vacanza in riviera: lo stipendio di lavoratore precario evaporava ogni mese senza tante storie. Alternavo la documentazione e la scrittura durante la mattina, mentre nel pomeriggio mi regalavo qualche ora in piscine polverose lontane dal traffico cittadino, o passeggiate sulle coste dei fiumi, al riparo sotto le fronde della vegetazione a bordo del corso d’acqua.
Avevo del tutto dimenticato le singolari ricostruzioni del giornalista e persino il suo enigmatico foglietto, quando, risalendo la costa che fiancheggiava il fiume Sesia da Villata verso il nord, mi imbattei in un cimitero posto al fondo del terrapieno. Era una costruzione quadrata, grigia e spoglia, annerita dalla muffa e ingrigita dalla polvere. La solitudine del luogo e un vento che faceva fischiare i cardini del portone principale mossero il mio desiderio di entrarvi. Un odore salmastro ammorbava il terreno su cui posavano le lapidi; tristi occhi presero a fissarmi dalle lapidi grigie coperte di ragnatele. I fiori finti si accompagnavano ai fiori morti e alle piante arse dal sole, tenui fantasmi anneriti. Saranno state sepolte laggiù in fondo a quel campo a ridosso dell’argine al massimo cinquanta anime. Un senso di rovina rendeva a quell’abbandono un connotato di eroica sopraffazione. “Li hanno messi sottoterra quaggiù in fondo per non sentire i loro piagnistei di anime abbandonate” mi trovai a pensare.
Solo un fiore recava le sembianze colorate della vita: si trattava di un fiore di campo tagliato di fresco e poggiato senza fronzoli ai piedi di una lapide a muro. Sul marmo era il viso di una ragazza con i capelli raccolti dietro, scuri, e lo sguardo sospeso. Era morta da pochi mesi e il suo passaggio su queste sponde non era stato molto lungo: era deceduta che non aveva ancora compiuto trent’anni.
Mi avvicinai alla lapide, dato che un particolare aveva attirato la mia attenzione: il marmo aveva subito un danneggiamento, come se qualcuno avesse cercato di graffiarlo con un corpo appuntito. Percorsi con lo sguardo la superficie del marmo, ma non vidi nient’altro.
Mi allontanai dal cimitero con una strana sensazione di inquietudine addosso. I giorni seguenti li trascorsi all’archivio della biblioteca arcivescovile, alla ricerca di fatti di cronaca contemporanei agli episodi delittuosi di cui mi stavo occupando. Le sale dell’arcivescovato, bianche, aride e spoglie, recavano un’eco lontano di deserto: era come se una sabbia fosse colata dai soffitti polverosi, adagiandosi sulle piastrelle, quasi un tentativo di formare il fondale sabbioso di un oceano, ma l’assenza di acque ricordava da vicino l’ambiente chiuso di una clessidra. Di tanto in tanto, sollevavo gli occhi e lo portavo alle pareti: defunti prelati mi fissavano, come comparsi di colpo tra le fessure dei muri, apparizioni sbiadite, eppure incombenti, monito sotterraneo dell’esiguità del tempo, ma anche della contiguità del regno dei morti con quello dei vivi. Uno di quei pomeriggi mi ero convinto per qualche motivo che uno di quei preti non avesse nulla a che fare con la religione: nella mano teneva una carta da gioco e con l’occhio suggeriva forse strani vizi al tavolo verde. Ma doveva essere tutto un trucco d’artista, un modo per rendere l’insieme più interessante attraverso l’inusuale.
Tornai sull’argine sinistro del fiume e percorsi un tratto di riva più a nord rispetto alla volta scorsa. Era come se fosse mia intenzione mappare i territori circostanti (un tentativo di dare un senso a un’estate priva di gioie, oppure un’esigenza covata a lungo, in inverni nevrotici e di solitudine, nella speranza di rendere meno inospitali quei territori di monocoltura risicola e sparuti paesi sbriciolati sulle strade polverose di ghiaia.
Ben oltre una cava di ghiaia nel territorio di San Nazzaro Sesia, trovai immersa nei rovi una chiesa sprofondata nell’acqua, vittima di uno degli scherzi bizzosi del fiume. Sul muro laterale, cupo come il fianco di un soldato sul fronte, era stato inciso un simbolo quadriforme, con strani disegni all’interno di ognuno dei quattro quadrati di cui era composto. “Eppure, quel simbolo l’ho già incontrato…”. Una sensazione mi invase il petto: la vuota desolazione in cui era immersa la chiesa sprofondata nelle acque acquitrinose che erano state del fiume, e che ora scendevano verso le profondità della terra, ma incontrando altre acque, corsi sotterranei che le sostenevano e impedivano la discesa verso terra, mi comunicava un senso di abbandono che si contorceva e assumeva le fattezze di un languore che era al contempo paura di disperdermi in quei terreni di palude e cupo desiderio di scompormi nelle sembianze fangose della golena del fiume. L’estate rumorosa riecheggiava nelle sere profumate della riviera; a questi paesi stinti non era riservato altro che un sentore di rovina, un lamento costante di disfacimento dei corpi, delle pareti di cui erano costituiti i fabbricati scheletrici, della materia. Quell’angoscia di finire stritolato in una desolante scomparsa mi condusse dentro la chiesa allagata. Quando entrai vidi il tempo scivolare dietro i tendaggi scuri dei confessionali, poi scendere sotto le acque, come se neri serpenti stessero riproponendo il gioco scomposto del cosmo. Ebbi delle visioni, in quel luogo ammuffito del colore della fuliggine, ma nulla mi impedì di vedere quel che mi colpì nel profondo: tra le acque, ai piedi del pulpito, vidi in lontananza una stretta bara che galleggiava, vuota. Cercai un punto su cui arrampicarmi, di modo da poter vedere dall’alto il contenuto della bara. L’acqua non mi permetteva di raggiungere il fondo della chiesa e dovevo fermarmi all’ingresso, punto in cui vi era solo melma. Fui capace di ergermi sulla statua di un santo e potei guardare il fondo della cassa da morto. Sul legno divorato dall’umidità si trovava distesa una bambola. Al minuscolo fantoccio l’umidità aveva corroso i vestiti. Ma vi era qualcosa che non poteva che esser stato fatto dalla mano di una persona: il ventre della bambola recava i segni di un taglio, le gambe erano divaricate e la parte che rappresentava il pube era stata staccata dal corpo di pezza.
Trascorrevo le notti di quell’estate sul terrazzo di casa mia. Mio padre mi aveva lasciato un appartamento all’ultimo piano in una zona residenziale. Disponevo così di un alloggio che mai mi sarei potuto permettere con il mio lavoro di allora. Gli inquilini della zona si erano riparati al fresco della riviera e i numerosi black out causati dai temporali estivi acuivano la sensazione di spopolamento che il silenzio ricreava con tediosa ripetitività. Avevo messo un divano sul terrazzo e me ne restavo a leggere con una luce da campeggio, protetto dal buio e dal vuoto dei viali alberati, dei sottopassi dei garage, dei balconi senza tende, delle finestre dalle orbite prive di vita…
Da quando mi imbattei nella bara con la bambola a cui era stato asportato il pube, però, qualcosa cambiò nei miei comportamenti: smisi di sostare sul balcone nelle scure notti senza illuminazioni e mi trincerai in casa. Di colpo, il vuoto attorno che prima mi sembrava una placenta protettiva dai richiami sincopati del mondo mi si disvelò per quello che era: un contenitore di sguardi, un luogo schermato da cui poteva provenire un’insidia. “Se dietro quegli alberi, nel fondo di quei grovigli dietro lo spiazzo si celasse qualcuno che mi ha seguito, durante il giorno alla chiesa allagata?”.
Stetti lontano alcuni giorni dal fiume. Il guaio, però, era che interrompendo le camminate la mia vena nello scrivere subì una brusca interruzione. Le due ricerche, quella mattutina tra gli articoli di giornale sulle tracce di improbabili piste sul caso del Mostro di Firenze, e quella pomeridiana sulle impronte sbiadite di qualcosa che si era mosso prima di me lungo il tracciato del fiume, avevano finito con il collimare.
Una spinta mi forzava a proseguire il cammino verso le origini del corso del fiume, attraverso le anse polverose che avevano spopolato villaggi, allagato costruzioni, cancellato spiagge e divorato appezzamenti di terreno. Qualcosa mi suggeriva che in quel percorso sulla orme di segnali sospesi si trovava un messaggio da decifrare, una verità da resuscitare dalla ghiaia.
Così, nella speranza di ottenere con il ripristino dell’indagine pomeridiana anche il ritorno dell’entusiasmo nel lavoro del mattino, un giorno mi rimisi sulla costa del fiume, partendo dalla chiesa allagata. Percorsi il tracciato e mi imbattei in un paese completamente abbandonato. Il cartello d’ingresso era stato corroso dalla ruggine e non potrei riferire il nome del nucleo abitativo. Era stato costruito in una curva del corso d’acqua e un’alluvione aveva cancellato ogni rimasuglio di vita. Le case parevano essere state abbandonate con foga, come se una disperazione improvvisa avesse costretto gli abitanti alla fuga. Le case recavano tutte, davvero nessuna esclusa, il segno quadripartito che avevo già visto tante volte nel corso delle mie camminate. Ebbi l’impressione di essere all’interno di una scena in cui tutto era stato allestito da una mano esterna. Mi trovavo solo in quel luogo disabitato, eppure avvertivo i risultati dell’opera di qualcuno che mi aveva preceduto. “Sono giunto all’epicentro di qualcosa”.
Mosso da un desiderio seducente di conoscenza, perlustrai le vie e le case che componevano il piccolo paese. Gli alberi avevano trovato difficoltà ad attecchire e i rovi e le piante rampicanti salivano dai giardini attorno alle case, soffocandole in un abbraccio.
Arrivai all’altezza di una villa, probabilmente l’abitazione del notabile del posto. Qui pareva che il processo di abbandono che aveva coinvolto il paese subisse un’attenuazione. Vi entrai e perlustrai le stanze. Al piano superiore, mi imbattei in una stanza che nulla aveva a che fare con ciò che la circondava. Era una stanza perfettamente ammobiliata e spolverata di fresco, abbellita di sgargianti colori. Due letti erano affiancati e alle pareti vi erano disegni infantili. Mi avvicinai al comodino che separava i due letti. Le fotografie di due ragazzine erano racchiuse dentro una cornice a forma angolare. Le due ragazzine erano praticamente identiche, ma un differente sguardo permetteva di distinguerle tra loro. Avvertii mancarmi l’aria e dovetti scendere rapidamente le scale.
Mentre mi allontanavo dalla villa, un’immagine si sovrappose a quella appena carpita delle due ragazzine. “La ragazza morta a cui era stato portato il fiore era così somigliante alle due gemelle!”. Accelerai il passo. “In quale groviglio malefico sono finito? Chi mi sta giocando questo tiro mancino?”. Cercavo di lasciare il paese e, nel frattempo, la mia mente intesseva una tela di supposizioni che mi nascevano dentro senza controllo. “Le gemelle devono essere morte durante l’alluvione. Qualcuno ha tenuto in vita la loro stanza, curato il ricordo della loro esistenza”.
“Eppure, quella ragazza sepolta nella lapide a muro non può essere una delle due gemelle. Il paese dev’essere stato certamente abbandonato almeno cinquant’anni fa, mentre la lapide al cimitero è una cosa recente…”.
L’allontanarmi dal paese era diventata una fuga; i pensieri, però, mi impedirono di ragionare e, così, mi ritrovai a scappare in una direzione diversa rispetto a quella da cui ero provenuto. Al posto di risalire la costa, mi inoltrai nella campagna, arsa dal sole ancora severo del tardo pomeriggio.
Quasi mi fosse comparso di colpo sotto gli occhi, emerso dalla terra grumosa, mi ritrovai di fronte un tempietto ottagonale, che era certamente stato un luogo di culto, ma era ormai sconsacrato. Gli infissi erano divelti e l’incuria suggeriva la dipartita del culto religioso da quel luogo. Entrai senza esitazioni: dall’alto soffitto cadeva la luce che penetrava dai finestroni alla sommità. L’altare era stato divelto e la calce era sgretolata negli angoli della struttura. In alto sopra l’arco d’ingresso, vi era un dipinto che per la vividezza dei colori non aveva nulla a che spartire con il grigio edificio. Il dipinto raffigurava le canne di un organo, sotto le quali si trovava un leggio, che reggeva le pagine su cui era stato scritto uno spartito. La stranezza era che lo spartito presentava una struttura del tutto inusuale: le prime due righe erano vuote e solo dalla terza cominciava la partitura. “È come se il pittore avesse voluto suggerire l’esigenza di interpretare il dipinto. Forse, è necessario decifrare i simboli inseriti sotto le immagini…”. Più fissavo quel dipinto, di colore rosso sullo sfondo e dalle tenue tonalità per quanto riguardava il libro sul leggio e le canne dell’organo, e più mi convincevo che l’immagine intendesse comunicare un messaggio ben più diretto. “E se si trattasse di suonare le note al contrario, interpretando lo spartito a rovescio, partendo dalle note in fondo a risalire?”. Quale sinistro intento celava quel bizzarro spartito manchevole delle prime battiture? Avevo sentito di alcune cappelle votive perdute nella campagna, che conservavano delle strane incisioni. Ero convinto fossero state tutte abbattute, nel corso del tempo. Pareva che rappresentassero per Roma la sopravvivenza dei culti pagani e agricoli al trionfo del cattolicesimo. Come se certi centri periferici tentassero una autonoma riconversione al culto ancestrale, capace di aderire maggiormente al rituale della terra, al ritmo delle stagioni, alle fiere, alle cerimonie campestri… Dentro santuari, templi ed edicole sarebbero stati scritti messaggi cifrati, che utilizzavano il linguaggio cristiano per comunicare al di sotto, attraverso dei simboli, contenuti del tutto differenti. Qualche studioso aveva parlato dei cosiddetti “Spartiti del diavolo”, vale a dire diciture musicali che contenevano una chiave di lettura ben diversa da quella apparente e che andavano decifrati. Il loro compito era quello di racchiudere, attraverso un meccanismo cerimoniale, azioni malvagie e di confinarle in un territorio remoto, al fine di proteggere il quotidiano del lavoro nei campi. Suonare quelle spartiture in un verso o nell’altro poteva essere un metodo per attivare o disattivare i meccanismi segreti. Ma potevano esisterne altri.
Conservavo un’infarinatura di musica e improvvisai una lettura dello spartito. Dapprima, intonai le note nel senso corretto e mi parve ne uscisse una musica vuota, senza anima alcuna. Indeciso, tentai allora a seguire l’intuizione e, girando la testa, sussurrai la musica che usciva dalla lettura a rovescio dello spartito.
Le pareti del tempio nella campagna si squarciarono come una tela. Dentro una casa alla periferia del paese, umile e con il tetto bucato, si trovava una ragazza morente, con in grembo un bambino. Al suo fianco vi era la vecchia madre, Agata, una donna nota per la sua religiosità cieca e superstiziosa, che aiutava il parroco del paese negli uffici religiosi. Dopo ore di sofferenza la ragazza morì. In pochi giorni, la vecchia Agata, sfiancata dal lutto, abbandonò la sua casa e si perse nella polvere sul sentiero per Casale Monferrato. Ai compaesani che seppero della notizia della sua partenza, restò uno strano dipinto sul muro interno di un tempio di campagna. Forse era il lascito di Agata ai compaesani. Dato che Agata era solita invitare i compaesani a non cedere alle lusinghe del demonio, la gente chiamò il dipinto lo Spartito del Diavolo e ritenne che la musica che era incisa sullo spartito disegnato sul muro potesse servire a rinchiudere il maligno nelle profondità della terra.
Trascorsero vent’anni e sulla riva opposta del fiume, dove si trovava una struttura che un tempo fu un manicomio, venne ricavato un collegio per orfani. Da quando il collegio prese forma, nel paese sulla sponda opposta cominciarono ad accadere strani fatti. Sui muri delle case, al mattino, venivano rinvenuti bizzarri segni quadriformi. Il cimitero fu teatro di altri avvertimenti sinistri: le fotografie delle lapidi appartenenti a ragazze morte giovani vennero danneggiate e sottratte.
Al paese ci fu chi giurò di aver visto una processione notturna lungo la riva opposta del fiume. Qualcuno al collegio officiava riti arcaici sulla costa del fiume? Le voci tacquero per un po’, ma ripresero poco dopo: furono in molti a giurare di aver sentito di notte propagarsi tra le vie il suono di un carillon. Una persona disse di esser scesa per strada e aver seguito quella musica. Non vedeva la sagoma di persona alcuna, ma la musica si spandeva e si muoveva, come se qualcuno stesse facendo suonare il carillon e si muovesse velocemente per le vie. Fu capace di seguire il tracciato della musica e fu guidato fino alla casa che era stata della vecchia Agata e che ora era abbandonata. Il giorno successivo, con un gruppo di amici entrò dentro la casa abbandonata. Sul muro in fondo alla casa, dietro un vecchio mobile sdrucito, trovarono un dipinto. Era una riproduzione in piccolo dello Spartito del Diavolo che si trovava al tempio nella campagna. Soltanto, lo spartito era stato raffigurato al contrario: le righe iniziali non erano più vuote.
Nelle notti successive, il paese organizzò in silenzio delle ronde, per cercare di chiarire l’origine dei fatti inquietanti. Durante una nottata, fu vista la sagoma di una donna correre sull’argine e scomparire tra la vegetazione. Passarono altre notti e, grazie a un’imboscata, fu catturata una donna che vagava per la campagna. Era proprio la donna che tutti pensavano di poter ritrovare: Agata. La vecchia, con le orbite incavate e il volto smunto, farneticava bizzarre formule. Ci fu chi disse che era una strega. La pietà umana, però, ebbe la meglio: le bizzarre azioni che aveva inscenato le furono perdonate, il dolore sofferto in seguito alla morte della figlia era un motivo più che valido per spiegare la sua follia. Fu aiutata a insediarsi nuovamente nella sua vecchia casa e per un po’ il paese ritrovò la pace.
Pochi mesi dopo, però, un’alluvione sconvolse l’esistenza degli abitanti. Il paese, collocato nell’ansa del fiume, fu divorato dal corso d’acqua. Le prime persone a morire furono due gemelle, figlie del principale proprietario agricolo della zona. Tanti furono i dispersi. Tra di loro, vi era Agata.
La gente abbandonò il paese e cercò riparo nei centri circostanti. In breve tempo l’abitato cadde in malora e nessuno ci mise più piede.
Nessuno sarebbe mai potuto essere testimone di quello che accadeva la notte, nel luogo spopolato. Quando la luce era avara e i campi erano un unico mantello scuro, dall’argine risaliva una figura proveniente dal fiume. Era una persona che ogni notte si allontanava dal collegio e attraversava il corso d’acqua in un punto in cui il fiume aveva creato un isolotto che rendeva agevole il passaggio. Quando si ritrovava per le vie del paese abbandonato, agitava la manovella di un carillon. Le note che uscivano (nessuno avrebbe potuto raccontarlo) seguivano la scansione indicata dallo spartito nel tempio nella campagna, lo Spartito del Diavolo. Solo che il corso della musica era inverso rispetto a quello indicato dallo spartito. La musica abbracciava le vie deserte e stendeva su tutto una piatta e tetra percezione.
Di colpo, la musica si interrompeva: veniva come inghiottita dalle pareti di una casa, l’abitazione di Agata. La figura, che apparteneva a un giovane uomo, penetrava nella casa e si recava al muro in fondo, dove il dipinto dello spartito era illuminato da alcune candele. La figura di uomo si chinava e chiudeva gli occhi. Di colpo li riapriva e con lo sguardo cercava qualcosa attorno. Poi, prima di andare, ripeteva sempre la stessa frase:
- Nonna, sono tornato.