L’ALBERO DI TOTO’ CHE DICEVA SEMPRE LA VERITA’

1.

Quando i due ragazzi entrarono nella sua proprietà passando attraverso un buco nascosto della rete, Totò, fortunatamente per loro, non era nei paraggi.

Il terreno del vecchio Totò era un piccolo appezzamento appena fuori del paese. Coltivato per lo più a cavoli e patate, con qualche sporadica giovane pianta di albicocche ai lati, non presentava davvero alcunché di speciale. E non era nemmeno l’unico appezzamento di terreno coltivato della zona.     

L’unica cosa che davvero lo distingueva dagli altri era la presenza di un alto e solitario melo, là, nella parte più lontana dalla strada. Ed era proprio sotto quei rami ricchi di foglie che i due giovani amavano trascorrere in pace il loro tempo insieme, lontano dal frastuono e dagli occhi della gente. Era Settembre, e l’ombra di quell’albero costituiva l’unico riparo in quella pianura altrimenti ben spoglia e desolata.

I ragazzi si avvicinarono al fusto del melo, le cui fronde offrivano un’ottima protezione dai raggi del sole. Lei stese un plaid proprio sopra le radici. Lui si accovacciò e le porse una mano, invitandola a stargli accanto. Poco dopo, lui si alzò, estrasse un temperino e iniziò ad armeggiare sul tronco: “G + C per sempre” diceva la scritta che aveva appena inciso sul legno, circondata da un gran cuore, trafitto da una freccia. I due rimasero ancora un po’ lì, si baciarono, poi andarono via.

Il mattino seguente, ansimante e sudato, arrivò il vecchio Totò. Aveva tirato dal paese fin lì un carretto. Aprì il lucchetto del cancello della sua proprietà, vi introdusse il carretto e lo trascinò fin sotto all’albero. Poi, dopo essersi deterso il collo con un fazzoletto, cominciò a cogliere le mele.

Quelle che si trovavano sui rami bassi non erano difficili da raggiungere. Più complicato era arrivare ai frutti dei rami superiori, distanti dal suolo qualche metro. Totò dovette quindi salire sul carretto e continuare a sbattere con la lunga canna finché anche quelle mele non fossero cadute.

Solamente quando Totò ridiscese dal carretto si rese conto dell’iscrizione. Allora fece una smorfia di disgusto che esprimeva tutta la sua indignazione. Poi iniziò a raccogliere le mele da terra, facendo bene attenzione a lasciar stare quelle marce o troppo malridotte. Quindi si tirò a fatica il carretto fuori dal cancello. Lo chiuse. Richiuse il lucchetto. E si incamminò lentamente verso il paese, trascinandosi dietro il suo carico di frutti.

Cercò di non pensare più a quella scritta, a quello sfregio che aveva deturpato per sempre la sua pianta più bella. Ma non ce la faceva. Tentò in tutti i modi di pensare a chi potesse averlo fatto: dei giovani – certo – e anche il loro perché lo conosceva… Quel bisogno cronico, quasi fisico, che hanno i giovani oggi di apparire e di essere, capiti, compresi, forse amati… Niente di male in questo.

E lungi da Totò l’essere una persona contro i giovani per partito preso, o vendicativa. Ma, lo stesso, continuava a non capire… Il perché vero di tutta quella faccenda gli sfuggiva… Che attinenza ha, infatti, l’amore fra due persone con una scritta? Prova forse qualche cosa? Era una promessa che due persone si scambiavano, va bene, ma… che bisogno c’era di metterla per iscritto… E soprattutto in quel modo… Era magari il sintomo di un bisogno, di una mancanza, di un desiderio? Era un simbolo importante, quel cuore con quelle iniziali, per colui (o colei) che l’aveva tracciato? Poteva darsi… Ma si era forse reso conto, il misterioso “incisore”, che quella freccia da lui incisa aveva trafitto, oltre al suo cuore, anche un albero? Uno splendido albero che dava mele da primo premio alla fiera di San Damiano? Probabilmente no. O forse sì e non gliene fregava niente.   

Ma dimostra poi qualcosa una scritta tracciata su un essere vivente? Accidenti, perché quel vandalo, se aveva così tanta voglia di imbrattare per sempre qualcosa di vivo, non aveva scelto la propria carne, facendosi un bel tatuaggio, invece di deturpare il suo bell’albero?

Tutti questi pensieri (e molti altri) affollavano la mente del povero Totò mentre era sulla via di casa. Lui, da modesto e umile contadino quale era, non poteva dare certo a ciascuna una risposta. “Perché?” continuava a ripetersi mentalmente a ogni passo.

Era appena a metà strada fra il podere e le prime case del paese quando si mise in testa che era perfettamente inutile rimuginarci ancora sopra. Trascorsero così dieci minuti buoni di “niente”, all’interno dei quali Totò non provò alcun dolore. Arrivato, però, in vista della sua vecchia casa e del cipresso che le faceva da stampella, l’agricoltore ricadde maggiormente in quel tranello mentale, e, avvicinatosi alle scale, contro ogni suo precedente proposito di non belligeranza, un’altra lunga smorfia gli si disegnò sul volto. Accompagnandolo fino all’ultimo gradino.

2.

Il giorno seguente la signora Lia tornò dal mercato con un chilo di mele luccicanti.

Rovesciò il contenuto del sacchetto, cinque bei pomi rossi, nella zuppiera a centrotavola. Suo figlio Giacomo subito ne agguantò una e gli diede un morso: “Mmmm… Buone queste!” Sua madre lo guardò con disapprovazione: “Prima lavala, almeno” E poi lo sai che non mi piace che le mangi così…” “Uff! Va bene.” Fece Giacomo. Si avvicinò al lavello e mise il frutto mangiucchiato sotto un’abbondante doccia d’acqua fredda. “Così va bene?” Disse senza attendere risposta, poi  prese un coltello e tagliò la mela in due. Rimase come congelato: guardava quelle due metà a bocca aperta, neanche fossero state le reliquie di un santo. “Che c’è?” Domando la signora Lia. “E’ marcia?” Giacomo si riscosse: “No, no! E’ buonissima.” E corse nel bagno, chiudendosi la porta alle spalle. Ora era finalmente libero di osservare quello che stringeva fra le mani: sulla polpa della mela, tutto intorno al torsolo, c’era una parte che risultava chiaramente più scura: alcune tracce marroncine – non marce ma di un colore che spiccava sul resto – tracciavano sul frutto delle linee e delle anse dal significato inconfutabile, dei simboli grafici che ogni uomo non può non interpretare come qualcosa che già conosce bene: al centro della mela c’era “scritto” un perentorio “No!” (sì, con tanto di punto esclamativo), sotto al quale Giacomo leggeva un’altra parola, stavolta fra parentesi: “(Perché?)”.

Giacomo era sbalordito. Eppure… non sapeva come mai, ma sentiva che quel prodigio (o qualsiasi cosa fosse) aveva un carattere personale, che in qualche modo riguardasse lui e lui soltanto. Ecco perché decise di non dire niente a nessuno della sua scoperta. Forse solo alla sua ragazza, ma questo l’avrebbe deciso in un secondo momento…

Anche rovesciate nello specchio del bagno, le parole erano visibili chiaramente. A riprova del fatto che non stava sognando, e quella non era (buffo a dirlo) frutto della sua immaginazione: va bene, al limite, credere di vedere scritte cose strane dove in realtà non c’è niente, avere un’allucinazione (la sera prima non ricordava quanti joint si erano fatti), ma addirittura vedere quelle scritte perfettamente rovesciate in uno specchio era troppo! Sarebbe stato un sogno a occhi aperti davvero troppo realistico e ben congeniato per poter essere solo il frutto dei suoi neuroni un po’ stanchi!

Uscì quindi dal bagno e chiese: “Ma, dove hai preso queste mele?” cercando di sembrare interessato all’argomento, ma non troppo. “Che domande…” Fece la madre. “…al mercato dal sor Michele!” Giacomo era già in strada. Duecento metri più in là c’era il mercato: “Sor Michè, sor Michè!” Chiese Giacomo, indicando una piramide di mele proprio identiche alla sua. “Da dove vengono quelle belle mele rosse?” “Sono quelle di Totò.” Rispose Michele. “Le più buone che ci sono. Ne vuoi un po’?” Ma Giacomo era già dietro l’angolo, diretto alla casa della sua ragazza,   Carolina. In quel momento squillò il cellulare: era proprio lei, Carolina! “Ciao, amò!” Disse Giacomo tutto entusiasta. “…Non sai che m’è successo! Stavo a casa…” Ma Carolina lo interruppe: “Senti, Giacomì, tu sei proprio un bravo ragazzo, ma… fra di noi non può funzionare. E poi… sono innamorata di un altro, ecco! Ti prego, perdonami.” E riattaccò.

Giacomo rimase come stordito. Intanto il cellulare andava avanti per i fatti suoi: Tut-Tut! Tut-Tut! faceva fra le sue mani, e lui sembrava incapace persino di chiudere la comunicazione.

Lasciato al telefono… Pensava Giacomo. Non era la prima volta che gli succedeva. Però con Carolina ci aveva sperato… E invece!

Di colpo il cervello di Giacomo si sbloccò e ingranò la quarta: finalmente riusciva a fare 2 + 2! Giacomo ci pensò su bene ancora un po’: la scritta dentro la mela (quel “No!” con tanto di esclamazione)… la mela era dell’albero del vecchio Totò, che l’aveva venduta, insieme alle altre mele, al sor Michè… L’albero si trovava nel campo dove, giorni prima, lui e Carolina erano andati per stare da soli… Cos’aveva scritto sul tronco di quell’albero col temperino? Ma certo! Le loro iniziali: G + C… E poi quel Per sempre… “Giacomo e Carolina per sempre”… Era ben triste pensarci su adesso! Ma… un attimo! No, non poteva essere uno scherzo! Giacomo estrasse le due parti della mela da una tasca. Le due parole, ben visibili e distinte, erano ancora lì, ben stampate su ciascuno dei due emisferi. E se… (era pazzesco) E se l’albero, in qualche modo, avesse risposto alla domanda che Giacomo, involontariamente, gli aveva fatto? Riflettendoci bene, quel “No!” poteva essere la “sentenza” dell’albero che riguardava quella scritta: era come se il melo di Totò avesse interpretato l’incisione di Giacomo e avesse voluto dargli una risposta… Domanda: Giacomo e Carolina (uniti) per sempre? Risposta: No!

La rivelazione parve subito sconvolgente al ragazzo. In effetti, era proprio così che era andata. E adesso capiva anche benissimo il perché di quel punto esclamativo dopo il “No”…

E quel “(Perché?)” messo fra parentesi? Che significato addizionale aveva mai? Giacomo ci avrebbe riflettuto con calma dopo…

Adesso, quello che importava era confermare la sua (assurda) tesi. Giacomo stavolta attese che venisse la notte per sgattaiolare di casa e andare al podere di Totò. Passò la recinzione, le zolle umide del campo, estrasse il temperino e cominciò a incidere sul tronco del melo. Di lì a una settimana ci sarebbero stati gli scrutini per l’ammissione al nuovo anno scolastico. Giacomo sapeva molto bene cosa chiedere.

3.

Qualche giorno dopo, Giacomo passò dal sor Michele e comprò una sola mela del vecchio Totò. Se la portò a casa di nascosto, custodendola gelosamente sotto il giacchetto. Giunto in camera sua, estrasse il temperino e la tagliò a metà.

Giacomo sperava con tutte le sue forze che il miracolo si ripetesse. Ciò non ostante, rimase quasi sconvolto quando schiuse le mani che racchiudevano le due parti della mela. Quando i due spicchi si aprirono nelle sue mani a coppa, Giacomo lesse l’oracolo: “Ammesso.” Diceva la mela. Senza nessun punto esclamativo, interrogativo, o parentesi tonda, quadra o graffa. “Ammesso.”… Gli bastava. Eccome se gli bastava! Giacomo saltò in piedi sul letto, molleggiandosi fino a sfiorare il soffitto e spalancò le braccia come a spiccare un volo silenzioso. Si sentiva come il Cristo redentore in cima al Corcovado. Poi si gettò sdraiato sul letto, coprendosi la faccia col cuscino, perché nessuno si accorgesse che stava gridando per la vittoria.

Nonostante i suoi propositi di riservatezza, Giacomo non riuscì a tenere per sé il segreto.

Dopotutto, che segreto è se non lo dici almeno a un paio di persone? Due, due soltanto… Che gusto c’è a tenersi tutto dentro, senza poter sentire gli “Ohhh!” e gli “Ahhh!” di stupore di qualcuno quando gli riveli quello che solo tu sai?

E fu quindi così che Giacomo lo disse in giro.

Solo un paio di suoi compagni di classe, all’inizio, lo sapevano. La notizia rimase per circa un mese circoscritta alle mura della scuola, dove circolava, ben conosciuta dai ragazzi, come una simpatica e attraente leggenda di campagna. Poi la storia dell’”albero rivelatore” di Totò si propagò ulteriormente. Questo avvenne in special modo quando alcuni ragazzi cominciarono a recarsi, nottetempo, al terreno del vecchio contadino per toccare con mano se quanto asserito dal loro compagno fossero fandonie oppure no.

I primi quesiti (le prime incisioni) toccarono, alquanto ingenuamente, solo il mondo della scuola: del tipo “Passerò o non passerò quel determinato esame? Il tal ragazzo o la tal ragazza ha qualche interesse per me? Fra Tizio e Caia c’è davvero una tresca? L’insegnante Y è lesbica? Eccetera, eccetera.

Le persone incidevano la loro domanda sul tronco, rimanevano lì giusto il tempo di scambiare ancora due “ma” e due “se” con gli amici e poi tornavano alle loro case. Il mattino dopo andavano subito dal sor Michele, il fruttivendolo, a comprare la loro bella mela di Totò per sapere il risultato.

Poi, con i primi riscontri positivi della gente che si accorgeva che l’albero davvero diceva sempre la verità, la leggenda del melo (non più tanto leggenda) si diffuse di paese in paese, a macchia d’olio, fino a essere conosciuta in quasi tutta la regione. L’albero era ormai così noto che era stato preso di mira da intere scolaresche in gita e dai torpedoni di famiglie provenienti dalle città.    

Cominciò così un vero e proprio pellegrinaggio: comitive e comitive di persone – non importava il ceto sociale o il livello culturale – approdavano al campo del vecchio Totò a qualsiasi ora del giorno e, soprattutto, della notte.

C’era chi voleva sapere se sarebbe mai diventato ricco (erano forse la maggioranza); chi si fece furbo e invece di chiedere solo un “Sì” o un “No” domandava cose più specifiche, tipo il nome della squadra che avrebbe vinto il campionato di calcio, in modo da puntarci su tutto quello che aveva. Ci fu (una storia davvero strappalacrime) chi chiese il nome e il cognome dei genitori che lo avevano abbandonato alla nascita; chi volle sapere se sarebbe mai guarito dalla propria malattia debilitante (e se valeva o meno la pena di recarsi a Lourdes o a Fatima – in questo modo, almeno, avrebbero risparmiato il biglietto dell’aereo o del treno); chi addirittura era curioso di sapere la data della propria morte (a proposito, mi pare che quella persona non arrivò a vedere quel giorno) e chi, afflitto da problemi di impotenza, chiese se sarebbe mai arrivato ad avere dei figli (nel qual caso sarebbe stato inutile rivolgersi all’inseminazione assistita). Ci fu chi domandò dove si trovava il suo gattino o il suo cagnolino smarrito; chi volle conoscere in anticipo il nome della persona che avrebbero sposato (ma queste persone fecero tutte l’errore di chiedere soltanto il nome di battesimo, col risultato di voler sposare a tutti i costi degli omonimi sbagliati).

Ci fu un gruppetto di “fedeli” che si mise a chiedere all’albero addirittura dei consigli su come dovessero chiamare i nascituri, ovvero i nomi più adatti con cui battezzarli; sul nome migliore da dare al cane o alla vacca nella stalla; sul nominativo da dare allo yacht appena acquistato. Ma nessuna di queste ultime persone ebbe mai una risposta e alla fine la gente si convinse che era meglio non chiedere all’albero dei consigli e che era meglio limitarsi alle domande dure & crude.

Alcune persone, più impazienti delle altre, subito dopo aver inciso le loro domande sulla scorza dell’albero (sembrava che l’incisione fosse l’unico modo per avere una risposta – scriverle con un pennarello non bastava), cominciarono a scuoterne il fusto per farne cadere i frutti. Subito, però, si accorsero che questo non era il metodo giusto: per qualche strana ragione, sembrava che l’intervento di Totò che passava con la sua canna e il suo carretto a spogliare l’albero delle poche mele che gli bastavano, fosse l’unico modo per assicurarsi una risposta.

4.

Inutile dire che il sor Michele, il verduraio, faceva affari d’oro.

Tutte le mattine davanti alla sua postazione del mercato lo aspettavano decine e decine di persone, che non ne volevano sapere di andarsene senza la loro bella mela di Totò.

La richiesta era così alta che le mele terminavano in un battibaleno ed erano molti gli avventori che rimanevano a becco asciutto e che quindi dovevano rimandare la soluzione dei loro grandissimi dubbi esistenziali alla mattina successiva.

Addirittura qualcuno cominciò ad accamparsi davanti allo stand del sor Miché per assicurarsi di essere i primi a essere serviti il giorno dopo. Michele allora non faceva discorsi (il denaro è denaro) e li lasciava fare, ma cercava nel frattempo di propinargli chili e chili di varia frutta e verdura, sementi e frutta secca che – giurava – possedevano proprietà taumaturgiche rilevantissime. E i clienti erano ben felici di accontentarlo per tenerselo buono. Così Michele iniziò a pensare di far campare tutta la sua famiglia sulle mele di Totò: cominciò a pensare che poteva mandare il figlio minore a Harvard (anche se era ancora alle elementari – toccava aspettare un po’); che avrebbe potuto comprare il negozio da estetista alla figlia maggiore. Si vide tutto ingioiellato in completo giacca bianca/camicia nera/ cravatta bianca a bordo della sua Rolls Royce, mentre sua moglie, la sora Gina, sfoggiava la pelliccia di zibaldone che da sempre gli chiedeva.

Tutto questo grazie alle mele di Totò. E all’hype che queste avevano generato nel paese e tutto intorno ad esso. Cominciò a pensare di comprare il suo terreno, di fare innesti e di moltiplicare quell’albero miracoloso all’infinito… Chi sapeva se Totò ci sarebbe stato?

Fra una ramazzata e l’altra in faccia ai suoi clienti che gli dormivano per terra, davanti e sotto le cassette di tarocchi e di fagiolini, Michele fantasticava…

Totò, intanto, strano a dirsi, non si era ancora reso conto di quello che stava accadendo.

Cominciò a pensare che c’era forse qualche cosa che non andava solo quando trovò alcune persone – uomini e donne fatti e cresciuti – abbracciati ai rami più alti del suo prezioso melo.

“Che fate?” Gli aveva semplicemente chiesto. “Niente, niente… Ora ce ne andiamo…” Fu tutto quello che gli avevano risposto prima di dileguarsi.

Del resto, la gente era diventata molto brava a non farsi scoprire dal vecchio contadino all’interno del suo campo arato: i “pellegrini” avevano imparato a camminare in fila indiana, seguendo tutti uno stesso corridoio. Totò, quando per la prima volta si era accorto di quelle impronte, non era riuscito a stabilire a quante persone appartenessero e aveva tirato su le spalle.

Ma dopo quella volta degli uomini abbracciati ai rami del suo albero, Totò non poté far finta di niente ed esaminò per bene la pianta:

“Povero amico mio!” Aveva pensato fra sé quando aveva visto il melo così intarsiato da cima a fondo: le incisioni erano talmente numerose (sul tronco, sui rami, sulle radici – ovunque) che quasi lo ricoprivano per intero. L’albero sembrava avvolto in un oscuro manto rituale: se da lontano non ci se ne rendeva conto, da vicino era tutta un’altra cosa: “Come ti hanno ridotto!” Continuò a pensare il vecchio. “Ma perché tutto questo? Perché?”

Allora Totò decise che avrebbe fatto la guardia all’albero, che si sarebbe svegliato un’ora prima al mattino, che sarebbe rimasto lì al campo più che poteva, e che sarebbe rincasato la sera un’ora più tardi. Ma fu tutto inutile: non essendo piantato vicino alla casa di Totò, bensì in campagna, l’albero rimaneva alla mercé dei suoi pellegrini durante gran parte della notte, e quelle ore erano sufficienti perché la gente continuasse indisturbata nella sua opera demolitrice.

Le incisioni andarono avanti crescendo di numero in maniera esponenziale finché sulla corteccia non rimase quasi nemmeno uno spazio libero.

Quando la mente geniale di un abitante del paese si destò improvvisamente e questo decise che voleva chiedere all’albero i numeri del Superenalotto, ormai non c’era più un solo centimetro quadrato disponibile. Infatti, la richiesta era tutt’altro che semplice da formulare, e soprattutto non era breve. Si sarebbe dovuto scrivere qualcosa così: “Numeri vincenti del 5 + 1 del Superenalotto del – poniamo – 01/01/2011″. O qualcosa del genere. Un messaggio decisamente troppo lungo per la scarsissima superficie di corteccia rimasta a disposizione. E il tizio rinunciò.

5.

Ormai l’albero stava morendo.

Totò lo osservava perire della sua lenta agonia giorno dopo giorno.

Sconsolato, il vecchio contadino aveva tentato un salvataggio in extremis spalando del concime fresco e umido vicino alle radici, rattoppando alla bell’e meglio le sue ferite con degli impacchi di sua invenzione, e innaffiandole di quando in quando con una mistura di acqua e Sali minerali.

Ma il destino dell’albero pareva segnato. Da un pezzo le sue foglie erano ingiallite e perfino il tronco, una volta robusto e fermo, adesso appariva chiaramente scolorito e scricchiolante. Fra le radici, un manto ogni giorno più spesso di foglioline color zafferano cresceva per la disperazione del contadino.

Totò indagò in paese e venne a conoscenza della storia delle rivelazioni, del fatto che possedeva una pianta “magica” o “miracolosa”, che era il proprietario di un oracolo vero e proprio.

“Un oracolo morente.” rifletteva Totò mentre spargeva il tronco e le ultime foglie rimaste di benzina.

Non gli venne nemmeno in mente di chiedere qualcosa per sé. Troppo triste era stata per lui quella storia: la fine ingloriosa di un vecchio amico, che Totò aveva visto nascere, crescere e dare i suoi migliori frutti. Forse troppo buoni, e per questo troppo ambìti.

Era la morte di un mondo, di un qualcosa che si era rivelata troppo utile e che aveva fatto gola alle fantasie di troppa gente.

Totò appiccò il fuoco per risparmiargli l’agonia.

L’oracolo bruciò una notte che era quasi autunno.

Giuseppe Conti