Sto vagabondando da circa un mese per le strade della mia città in cerca di impiego.
Dopo svariate risposte negative e tipiche frasi come “mi serve gente con esperienza” sto cominciando a perdere la speranza.
La frustrazione si fa sentire. Mi sento scoraggiata, afflitta.
Sono una persona a cui piace rimboccarsi le maniche, non riesco a non far niente per più di due settimane, mi annoierei troppo facilmente.
Deve pur esserci un qualcosa da qualche parte, una persona disposta a concedermi un po’ del suo tempo per insegnarmi una nuova mansione.
L’ennesimo fallimento mi convince a seguire il consiglio di un amico, metto quindi un paio di annunci online allegando il mio curriculum e sperando di ampliare le mie probabilità.
Dopo qualche giorno con mia grande sorpresa vengo contattata telefonicamente da un piccolo ristorante che non conosco.
Mi invitano a recarmi sul luogo per un colloquio conoscitivo.
Una nuova possibilità si schiude davanti ai miei occhi, una grande gioia mi invade, ma so che non devo illudermi troppo.
Si tratta pur sempre di ristorazione, magari non vogliono proprio perder tempo con gente che non é del mestiere.
Scaccio via la negatività e i brutti pensieri.
Estasiata dalla possibilità, mi dirigo subito verso il locale.
Una volta a destinazione scendo dall’auto.
La vetrina splende sotto i raggi del sole, una lavagna ben curata descrive in maniera semplice le portate che compongono il menù, la porta azzurra dà un senso di allegria e felicità.
La sala esterna è formata da un gazebo dalle pareti fiorite e rigogliose e da una pavimentazione fatta di assi di legno; i menú sulla scrivania accanto ai gradini sono contornati da nastro adesivo colorato, non più la noiosa pagina monocromatica che ti rifilano di solito.
Come prima impressione non andiamo affatto male.
Appena metto piede dentro al locale mi accoglie un uomo alto e sorridente, lo chef.
Mi mostra l’ambiente: alla vetrina luci colorate che pendono come rampicanti, subito accanto una sezione libreria personalizzata da lui e dalla moglie, frigoriferi pieni di vini dai nomi particolari, angolo dove vedo in vendita oggetti e gioielli stravaganti.
Infine una scrivania bellissima, sovrastata da uno specchio antico.
Che dire, è veramente un ristorante con del carattere.
Dopo quattro chiacchiere in amicizia e domande di ogni genere vengo assunta per un periodo di prova come cameriera, durante il quale conosco meglio lo chef, sua moglie Shamira e il resto dello staff.
L’aiuto cuoco é una donna simpatica, anche se un po’ burbera nei modi di fare.
La cameriera che c’è da più tempo é magrolina ma pur sempre più energica di me dopo quattro Red Bull.
La lavapiatti ha sempre il sorriso sulle labbra.
Lo chef e sua moglie sono un mondo a parte: lui si diverte a sperimentare in cucina, lo vedo subito durante la prima settimana, lei, Shamira, grande esperta dii vini, gestisce tutto il resto, ma chissà perché perde continuamente i suoi occhiali.
Sono persone un po’ bizzarre, ma hanno molta pazienza, si mostrano gentili e comprensivi, riversano tutta la loro conoscenza su di me, e io sono ben felice di apprendere ogni cosa.
Tutto va per il meglio.
Imparo in fretta, mi appassiono al lavoro, ma dopo circa un mese qualcosa inizia a non quadrare.
Shamira é ossessionata dai dettagli, dalla simmetria degli oggetti disposti sui tavoli della sala.
Una cosa normale certo, dopotutto l’occhio vuole la sua parte, deve esserci armonia sulla tavola.
Ma stava iniziando a diventare più una fissazione mentale che un’azione volta al miglioramento dell’aspetto del ristorante.
Tutto peggiora un giovedì sera.
L’aiuto cuoco é nel piccolo orto sul retro a raccogliere erbe aromatiche, la cameriera con cui condivido il turno é su a cambiarsi, io sono in cucina a tagliare metodicamente le fette di pane, lo chef é accanto a me, sta affilando i coltelli.
“Samantha, sai perché gli chef sono pazzi?”, mi coglie alla sprovvista, mi limito a scuotere la testa, cosa che lo fa sorridere.
“Te lo dico io… Perché hanno a che fare con il fuoco, usano i coltelli e… maneggiano cadaveri”, mentre pronuncia queste parole ha negli occhi lo stesso luccichio sprigionato dal coltello che tiene nella mano sinistra.
Sorrido e annuisco un po’ turbata.
Venerdì sera mentre sto apparecchiando i tavoli, Shamira si affianca a me, sembra seccata.
“Lo sai che devi rifare i tavoli da capo, vero?”
“Perché? Ho fatto tutto quello che mi hai detto tu”
“Assurdo, inconcepibile. Non vedi qui?”, afferra il lembo di una delle tovaglie, “é stirata male!”
“Che colpa ne ho?”
“Stirala con le mani! Non voglio vedere pieghe, righe o buchi sulle tovaglie, né bicchieri storti. E le sedie? Non vedi che non sono parallele tra loro? Stiamo andando male, molto male”, va via, lasciandomi lì senza parole.
Passano i giorni e la sua ossessione aumenta, peggiorata dalla frequenza morbosa con la quale suo marito mi chiede perché gli chef siano pazzi.
Sta diventando un inferno: rifaccio i tavoli tre volte a servizio, senza nessun aiuto, lo stress si sta accumulando provocandomi forti mal di testa.
Cerco aiuto da parte dello staff ma nessuno sembra voler collaborare. Si portano il dito sulle labbra, intimandomi di fare silenzio e indicando una telecamera sullo specchio della sala che non avevo notato.
Deglutisco, spero non mi abbiano sentita.
Il sabato sera della settimana dopo non abbiamo nessuno prenotato, niente passanti, marzo é proprio un mese noioso per la ristorazione.
Sono la sola a lavorare oltre allo chef e Shamira.
“Sam, se mia moglie mi cerca sono in magazzino a prendere la pasta per lo staff”
“Sì, Chef!”
In cima alla rampa di scale c’è appunto un piccolo magazzino.
La prima volta che sono salita li sopra per prendere un cestello di ghiaccio ne sono rimasta affascinata.
Scaffali su scaffali di merce ben riposta, mensole cariche di coprimacchia, un grande congelatore bianco, una macchina del ghiaccio e infine una finestrella che dà sul lato sinistro del ristorante, entra una bella luce da lì.
Sale su per le scale allegro e sento che inizia a rovistare tra i pacchi.
Mi avvicino al pass.
Osservo i frigoriferi, la dispensa, gli scomparti e le varie forme dei piatti.
Mi rendo conto di essere ancora in alto mare per quanto riguarda questo tipo di conoscenze.
Sono sempre più vicina al luogo dove tiene i suoi amati coltelli.
Non posso farlo, significa disobbedire alla regola più importante, devo distrarmi! Cerco quindi qualcosa tra gli ingredienti da osservare, da assaggiare, devo tenermi occupata.
Ma lui perde più tempo del previsto su…
So che é severamente vietato toccare i suoi coltelli personali, ma non resisto.
Prendo il suo preferito, scintilla sotto le luci della cucina.
Sento una scarica elettrica provenire dall’oggetto, una sorta di magnetismo.
Sorrido.
Ho come la sensazione di sentire scorrere sotto la lama che brandisco la carne di coloro che sono venuti prima di me, dei pasti che ha servito, delle cicatrici che ha inferto.
Sorrido sempre di più e non ne capisco il motivo.
Salgo anch’io su per le scale, non posso non provare a tagliare qualcosa, o qualcuno.
La lama parla per me, mi conduce alla spalle dell’uomo che mi ha offerto un lavoro magnifico ma che mi ha portato allo sfinimento psicologico.
Allungo il braccio in avanti ed eccola! La soddisfazione più grande.
Lascia gli oggetti che ha in mano curvando la schiena all’indietro per il dolore.
Forse ho esagerato un po’, ma é così affilato, non potevo arrivare meno in fondo delle vertebre.
Cerca di girarsi ma inciampa in uno scatolone, battendo la testa nella macchina del ghiaccio.
Scoppio in una risata fragorosa, il pavimento crema si sta tingendo di un colore sempre più brillante.
La luce che proviene dalla piccola finestra che tanto mi affascina illumina un volto che non é più mio.
“Perché voi chef siete tutti pazzi? Adesso comprendo a pieno la risposta”
Domenica, servizio di pranzo.
Canticchio allegra nel magazzino mentre sistemo un paio di confezioni di bibite.
“Shamira, puoi salire su un attimo?”
Dopo un paio di minuti mi raggiunge, apro con sguardo fiero il coperchio del congelatore.
“Allora? Cosa ne pensi del mio lavoro?”
Vedo il suo sguardo spingersi al centro, spaziare tra le porzioni di polpo e di tonno.
“Oh!”, esclama sorpresa, “questo si che é un ottimo lavoro, pulito, senza sbavature.
Solo una piccola critica costruttiva: dovevi tagliare meglio le braccia, non sono affatto simmetriche”.