Antonio Boggia, a Milano il Serial Killer della Stretta Bagnera
… oppure, forse, sarebbe stato meglio dire “Non scendete in quella cantina!”.
“ Il 15 febbraio 1860 – si poteva leggere sul giornale “Perseveranza” – giunse in tribunale una denuncia in cui dicevasi che Ester Maria Perrocchio Maurier era già da tempo scomparsa improvvisamente, per modo che non s’aveva più indizio di sua esistenza, che Antonio Boggia disponeva intanto da padrone delle sostanze di lei; che quindi interessavasi il tribunale a intraprendere le pratiche per iscoprire la verità che nascondevasi in questo mistero. La denunzia era sottoscritta dal figlio stesso della Per rocchio, Giuseppe Maurier. Intanto la Questura proseguiva nelle sue indagini e i sospetti aumentarono sopra il Boggia, così che si diè ordine di arrestarlo. Dopo alcuni giorni di renitenza egli confessò che la Perrocchio era stata da lui uccisa e sepolta nella cantina della di lui casa. La mattina seguente, il 23 marzo, il tribunale procedette alla disumazione del cadavere…”.
Ottocentesco e quasi aulico linguaggio a parte, trascurando qualche giornalistica inesattezza, i cittadini di una Milano che pochissimo tempo prima aveva vissuto le tragiche “cinque giornate” per liberarsi dall’oppressione austriaca, apprendevano che lì, in via Santa Marta, è avvenuto qualcosa di terribile e che una donna anziana e indifesa è stata barbaramente assassinata da uno strano individuo che voleva impossessarsi dell’intero caseggiato in cui ella abitava e di cui era proprietaria.
Lo strano individuo risponde al nome di Antonio Boggia, poi denominato “Il mostro di via Bagnera”.
Il ben poco rassicurante volto del “Mostro della Stretta Bagnera”, a Milano.
Ma se l’omicidio è avvenuto in via Santa Marta, perché l’assassino viene etichettato con riferimento ad un diverso indirizzo, alla cosiddetta “Stretta Bagnera”?
Se capitate a Milano, nei pressi della chiesa di San Giorgio, cercate “via Bagnera” – da molti anni è stata promossa a “via”… – e capirete subito il perché.
Via Bagnera, la strada più stretta di Milano, una volta denominata diversamente proprio a causa di questa sua particolarità. A sinistra, l’ingegner Riccardo Donnini – “scettico razionalista” già sulle tracce di “Dracula” in un mio precedente libro, “Odissee di Sangue” – indica l’arco in mattoni che, insieme all’ingresso murato della cantina, identifica ancora la “location” dove operava Antonio Boggia. A destra, l’ingresso della “tana del Mostro”.
Vi troverete a camminare in uno strettissimo vicolo a forma di L, dove all’epoca non riuscivano a passare le carrozze e anche per questo motivo era ben poco frequentata. Un rifugio ideale per chi volesse avere un posto dove organizzare con tranquillità qualche losco affare, concluderlo con un ben assestato colpo di ascia sulla nuca del malcapitato di turno e nascondere ogni cosa scavando un’improvvisata fossa nel pavimento del seminterrato.
Così pensa e poi mette in pratica il nostro campione di atrocità, serial killer ante litteram, alcolista inveterato e del tutto privo del desiderio di guadagnarsi da vivere con mezzi meno cruenti.
Antonio Boggia nasce sulle rive del lago di Como, a Urio, nel 1799, ma il paesello natio offre ben poco lavoro e così il futuro “mostro”, quasi ventenne, si sposta a Milano dove guadagna abbastanza con il suo lavoro di muratore. Anzi guadagna così bene che, insieme ai suoi figli, alleva anche un garzone di quindici anni – tale Angelo Gibbone – e si autoproclama “imprenditore edile”.
Questo distinto gentiluomo – che si vantava di essere un “imprenditore”, forse all’epoca del processo – è il “Mostro della Stretta Bagnera”, autore di ben quattro violentissimi omicidi per “tirare a campare” senza lavorare…
Ma si sa come vanno certe umane faccende…
Se impastare la calce e mettere un mattone sopra all’altro è un mestiere faticoso ma che non richiede eccessive cognizioni di contabilità, non è altrettanto facile gestire le paghe dei dipendenti, pagare le tasse al solito “governo ladro”, insomma essere il “capo della fabrichètta” – come simpaticamente ancor oggi si dice da quelle parti – e non solo un qualunque muratore comandato a bacchetta dalla mattina alla sera.
Così Antonio Boggia in pochissimo tempo fallisce e si trova quasi senza il becco di un quattrino.
Ma mentre il “capo” va in rovina, non altrettanto succede al suo giovane aiutante e quasi “adottato” Angelo Ribbone.
Di buona volontà, abituato alle fatiche, di robusta costituzione, Angelo guadagna abbastanza bene lavorando anche presso un comando militare e affida tutti i suoi averi ad una sua cugina di Casciago, tale Maria Mentasti.
In casa Boggia, invece, le cose peggiorano di giorno in giorno poiché l’aspirante “imprenditore edile” vista sfumata nel nulla ogni sua ambizione, pensa di affogare nel vino dell’osteria più vicina ogni sua frustrazione. Frustrazione aggravata anche perché la moglie ormai non riesce più tirare a campare senza soldi, a sfamare i figli insomma a vivere.
Aveva negli occhi uno sguardo inquietante…
Lite dopo lite, la povera – ma in questo caso fortunata… – consorte del Boggia se ne va di casa con i figli e torna dai suoi. Anche perché nello sguardo, nei discorsi del marito “legge” qualcosa di inquietante, qualcosa che non la fa stare tranquilla, qualcosa che le fa presagire qualche sventura ancor più grande. E ha ragione ad andarsene…
Ormai “single” Boggia prende in affitto quella che sarà la sua ”tana del lupo”, uno scantinato proprio nella Stretta Bagnera. Pagare l’affitto di questo suo nuovo rifugio, vivere, saldare i conti all’osteria dove passa gran parte del suo tempo, sono problemi che lo affliggono ogni giorno. Così chiede un prestito di venti lire al suo antico garzone, ormai ben sistemato, senza per altro restituirgli le 200 svanziche già avute tempo prima. Naturalmente Boggia rimane a bocca asciutta e questo rifiuto innesca in lui la miccia dell’assassino, accende il folle desiderio di eliminare il Ribbone per impossessarsi di ogni suo avere.
É l’aprile del 1849, e il cinquantenne Antonio Boggia – forse per farsi bello agli occhi del suo antico dipendente al quale offre un lavoro nella sua inesistente, nuova, impresa edile – lo attira nel suo scantinato con la scusa di mostrargli dei materiale da costruzione. E, con un ben assestato colpo in testa dato con una grossa scure, lo manda di filato al Creatore!
Il primo omicidio del Boggia nella cantina della Stretta Bagnera. Vittima fu il suo ex aiutante Angelo Ribbone, “colpevole” di essersi abbastanza arricchito.
Da una stampa dell’epoca, un’altra immagine del modus operandi del “mostro della Stretta Bagnera”..
Uccidere il povero Ribbone è stato un gioco da ragazzi, per fare sparire il corpo c’è tempo e il pavimento della cantina… si scava facilmente, ma come impadronirsi dei soldi che lo sventurato Angelo ha affidato alla cugina Maria Mentasti?
Come imprenditore edile il Boggia vale ben poco, ma come mente criminale non ha nulla da imparare perché riesce a farsi rilasciare una procura con cui incassare ogni risparmio della sua prima vittima.
In realtà ci prova due volte, recandosi da un notaio con un facchino suo amico, spacciato come Angelo Ribbone …
“… con la procura mi recai a Casciago – dove risiede la Mentasti con tutti gli averi del cugino. N.d.A. – da quella donna, ci recammo dal pretore di Varese, ma questo disse che non poteva obbligare quella donna a pagarmi…”
… confessa il “mostro” durante il processo che lo vedrà condannato a morte.
“Contadino scarpe grosse e cervello fino” sentenzia un noto detto popolare.
Così il nostro aspirante “serial killer” – aspirante poiché per esserlo a tutti gli effetti bisogna spedire all’altro mondo almeno tre persone! – non si perde d’animo e anche se contadino non è, si reca a Lodi, da un altro notaio un po’ più di manica larga ed ottiene la sospirata procura con cui incassa dalla Mentasti ben 1477 lire.
Una vera fortuna, per l’epoca! Fortuna che, come da copione, si trasforma ben presto in vino dell’osteria più vicina lasciando Boggia, ancora una volta, nella più nera miseria.
Il “mostro” ha però mille risorse e tra queste c’è anche quella di frequentare le aste del Monte di Pietà dove ha la ventura di entrare in confidenza con un certo Giuseppe Marchesotti, imprenditore sul serio, molto ricco e desideroso di incrementare il suo già rilevante patrimonio.
“Ci sono qua io!”, avrà certamente detto il Boggia a questa sua seconda vittima.
“ Se ci mettiamo in società e ci presentiamo alla prossima asta con almeno quattromila lire – avrà aggiunto con tono professionale – possiamo fare ottimi affari!”
E, con tale pretesto, convoca il Marchesotti nella sua cantina-laboratorio per mostrargli dei cavalletti da lavoro che avrebbero dovuto far parte del nuovo mirabolante progetto.
Pur essendo navigato uomo di mondo, il Marchesotti abbocca all’amo, si reca nella “tana del lupo” e lì… rimane a lungo, molto a lungo.
Ma mezzo metro sotto terra, poiché il Boggia gli assesta un bel colpo di scure sul capo e passa alla seconda fase del suo diabolico piano.
Piano che inizia con il metter in giro la chiacchera che egli stesso ha prestato venti marenghi al Marchesotti – quando si dice aver la faccia tosta! – e che quest’ultimo, per non restituirglieli, era partito per chissà quale ignota destinazione.
Le quattromila lire – un patrimonio, per quei tempi! – spariscono subito nelle rapaci tasche del “mostro” – il quale “a quota due omicidi” si appresta a diventare a tutti gli effetti un vero serial killer!
Poco dopo, però, i soldi spariscono anche dalle sue tasche, trasformati in vino, come di consueto!
E i tragici giochi ricominciano…
A destra l’ingenuo, ma ricco, Giuseppe Marchesotti mentre si consulta con il Boggia sull’uso dei cavalletti da lavoro per il nuovo, inesistente, progetto che avrebbe dovuto fruttare ingentissimi guadagni.Gli fruttò, invece, un rapido passaggio per i Campi Elisi, per l’Aldilà…
La vita è dura, l’oste esige di venir pagato, c’è anche l’affitto della “tana”, a tutti i costi bisogna inventarsi qualche rapida e redditizia soluzione, mica si può andare avanti così!
Morte a “el Bauscia”!
A Milano, ma in area lombarda in generale, “bauscia” – letteralmente “bavetta” – è un termine dialettale che trae origine nella operosa Brianza dove indicava persone che fungevano da public relation men – faccio per dire! – tra i forestieri di passaggio e i vari artigiani della zona. In cambio di adeguata “pecunia”, naturalmente!
Però – anche ai giorni nostri – indica chi si da delle arie senza averne i “requisiti”, una sorta di millantatore, di sbruffone. Ma è un epiteto che ben si adatta anche a un piccolo imprenditore, abbastanza incompetente, che assume atteggiamenti quasi dittatoriali, poco aperto al dialogo con i collaboratori e ancor meno aperto a qualsiasi innovazione.
“El bauscia” nella Milano che vede le atrocità compiute dal Boggia è un anziano fabbro – al secolo Pietro Meazza – il quale, reso più ciarliero davanti a qualche bicchiere di vino nella solita osteria frequentata dal quasi serial killer – manca pochissimo per ottenere il “titolo”… – confida al Boggia di essere analfabeta e di avere necessità di un aiuto poiché da poco gli è morta la moglie.
“Niente paura! Ci penso io” – avrà recitato di nuovo l’assassino della Stretta Bagnera e, come confessa, durante il processo…
“ Gli consigliai di fare una carta di procura intestata a me. Di lì a pochi giorni andammo dal notaio Gaslini, in via Omeoni, e firmammo…”.
Qualche giorno dopo, di sabato, Boggia fa scendere il Meazza nella sua cantina, poiché – dice – deve cambiare una serratura e gli serve un bravo fabbro come “el Bauscia”..
Stesso rituale di sempre, stessa pesantissima scure sul capo dell’ignaro artigiano, stesso programma di “scavi” nel pavimento della cantina ormai diventata una sorta di piccolo cimitero…
Antonio Boggia scava la fossa per la sua terza vittima, il fabbro Pietro Meazza, detto “el Bauscia”. Con il seppellimento del povero Meazza, Antonio Boggia diventa a tutti gli effetti un serial killer.
Rimandando al giorno dopo, domenica, il seppellimento della vittima, il Boggia si impadronisce dei tutti i soldi trovati nella casa del Meazza e – forse memore di aver recitato la parte dell’imprenditore o per un furbissimo depistaggio – si reca nell’officina del fabbro per pagare i vari dipendenti. La correttezza innanzi tutto!
Con il tasca la procura fattasi rilasciare dal Meazza, incassa ogni crediti che il fabbro ha in sospeso e poi vende l’officina, mettendo in giro la voce che “el Bauscia” è partito per chissà dove…
Come al solito i soldi finiscono presto nelle tasche dell’oste e bisogna escogitare un altra truffa, un altro omicidio. Le spese aumentano di giorno in giorno, il vino costa caro, bisogna pur vivere! Magari inviando all’altro mondo qualche altro ingenuo suo conoscente…
Perché non averci pensato prima? C’è un certo Giovanni Comi che dice di essere un bravo “ragiunat” – un ragioniere in dialetto meneghino – perché non convocarlo nel seminterrato e fargli controllare i conti del Meazza?
Stesso copione di sempre, stesso incontro nello scantinato, ma questa volta qualcosa va storto…
La potenziale quarta vittima del Boggia, il contabile Giovanni Comi, se la cava con un semplice mal di testa!
In un occhio aveva Dio, nell’altro il Demonio…
Sarà stata la fretta, sarà stata la distrazione, ma questa volta il Boggia “fa cilecca”!
Mentre il Comi sfoglia il libro mastro dell’ormai defunto Meazza, il nostro serial killer – dopo tre vittime lo è sul serio! – prende la mira e… giù un bel colpo di scure sulla nuca dell’improvvisato “ragiunat”!
Il quale, lì per lì sembra morto, con il viso coperto di sangue, ma dopo pochi minuti… “resuscita” e cerca di fuggire.
A questo punto il “mostro” milanese sfoggia tutto il suo talento di istrione, si finge improvvisamente impazzito contando, in caso di denuncia, di cavarsela con la solita diagnosi di “seminfermità mentale”.
Nulla da fare! Qualcosa va storto e le guardie lo arrestano davanti ad una folla di vicini di casa allibiti nel vedere quel “sant’uomo”, timorato di Dio, sempre in prima fila nel portare il baldacchino per la chiesa di San Giorno, sempre a Messa, sempre disponibile ad aiutare i più poveri…
Nonostante il cruento episodio, i compassionevoli vicini si ricordano solo delle sue “buone azioni” e di quella “senza cuore” della moglie che lo ha abbandonato, privandolo anche dell’affetto dei suoi figliuoli!
É ovvio che l’osteria sia l’ultimo suoi rifugio! Bisogna aiutarlo!
Inizia il processo e non si trova nessuno disposto a deporre contro d lui.
Neppure il Comi, il quale, botta in testa a parte, si allinea con l’opinione che del Boggia hanno tutti gli abitanti della Stretta Bagnera. Ignari che lì sotto sono andati in putrefazione ben tre sventurati loro concittadini…
Una diagnosi di seminfermità di mente redatta dal professor Andrea Verga, direttore del reparto anatomo-patologico del manicomio criminale, la “Senafra”, pochi mesi in osservazione poi… fuori di nuovo! Per buona condotta.
La “buona condotta” dura poco, anche se all’uscita del manicomio, Boggia trova i suoi buoni vicini disposti ad aiutarlo in ogni modo. Non tutti, però…
Qualcuno più sospettoso degli altri si chiede il motivo per cui il Boggia, apparentemente amico di tutti, non lo sia stato con la sua famiglia, con la moglie, con i figli. Se quella povera donna lo ha abbandonato un motivo deve esserci.
Inoltre, come tira a campare se non ha un lavoro fisso ma dispone spesso di grandi quantità di danaro che poi va a spendere all’osteria?
Poi le curiosità si spengono e per nove lunghi anni il serial killer vivacchia con qualche piccolo furto, con qualche insignificante truffa, passando lunghe giornate all’osteria.
Ma dopo questa lunga quiescenza, gli capita un’altra bell’occasione…
Conosce e frequenta tale Ester Maria Perrocchio, un’anziana signora – molto ricca! – che vive da sola in un bel palazzetto, tutto di sua proprietà, in piazza Santa Marta.
La conosce perché lì e stato chiamato per un piccolo lavoro di muratura, ma subito si accorge che in quella strana abitazione – dove razzolano decine di polli e una cinquantina di piccioni che tentano continuamente di sfuggire ai dodici gatti con i qualila Perrocchioconversa abitualmente – c’è la classica “gallina dalle uova d’oro”.
La Perrocchioè di origine toscana e il Boggia non afferra tutto ciò che ella dice in un vernacolo che a lui sembra un’altra lingua!Ma una cosa capisce: che lì, a piazza Santa Marta, c’è un tesoro ed egli se ne deve appropriare anche se la povera donna non fa che ringraziare il Signore per avergli mandato un così gentile e bravo aiutante.
La solita botta in testa e il gioco è fatto!
Però il Boggia ha il suo cimitero privato un po’ più in là, nello scantinato della Stretta Bagnera…
Qualcuno, al processo che segue, rammenta…
“Mi ricordo, una mattina verso le cinque e mezzo, sento aprire il portello e vedo il Boggia entrare con una gerla nuova. Oh, Boggia, così presto con una gerla? Forseper provviste?” – egli esclama meravigliato – “ L’ho veduto poco dopo scendere le scale con la gerla in spalla. Egli pareva gravato dal peso…”.
E sì, la povera “sciura” Perrocchio non è proprio una Silfide, è abbastanza corpulenta, pesa un po’…
“… Io sorrisi, perché preso da curiosità, avendo guardato alla superficie della gerla, non vidi che della tela di tappezzeria, ciò che mi pareva non dovesse essere pesante…”.
“Ora bisogna che la seppellisca nella mia casa della Stretta Bagnera…”, pensa il Boggia dopo avere ucciso anche Ester Maria Perrocchio. E uno sporco lavoro ma qualcuno deve pur farlo!
La solita chiacchera per giustificare la scomparsa della Perrocchio – “É andata a Como da alcuni suoi conoscenti” – e il serial killer comincia a fare letteralmente carte false per impossessarsi del bel palazzetto della defunta “sciura” e anche di tutti i suoi averi. Con una falsa procura e due compiacenti compari che fungono da testimoni, cerca di raggirare la giustizia e, non riuscendoci subito, si organizza meglio, porta a Como, dal notaio Cattaneo, una donna – spacciata perla Perrocchio – alla quale fa credere di aver necessità della procura per fare opere di bene e le insegna come imitare la firma della defunta.
Tutto soddisfatto della ben riuscita truffa, il Boggia inizia alcuni lavori di ristrutturazione nel palazzetto della Per rocchio perché vuole affittarlo.
Perché non sistemare anche la cimiteriale cantina della Stretta Bagnera?
“Ma sì, tiriamo su qualche muro divisorio, ottimizziamo lo spazio disponibile, perché con tutti questi cadaveri sotto il pavimento non so più dove scavare” avrà di certo pensato il nostro muratore con aspirazioni d’alto livello.
I lavori stancano e l’unico svago è la solita osteria dove, tra un bicchiere di vino e l’altro, gli sfugge qualche parola di troppo…
Qualcuno ascolta con attenzione, qualcuno spiffera tutto alla polizia e nel 1860 il serial killer viene arrestato, consentendo agli inquirenti di trovare i corpi di tutte quelle persone scomparse appena prima che Boggia diventasse improvvisamente “ricco”. Scava di qua e scava di là anche tra i materiali da costruzione che l’uomo aveva lì ammassati per i lavori da eseguire e – horribile visu! – compaiono gli scheletri del Ribbone, del Marchesotti, dell’ingenuo Meazza ed infine, della povera Ester Maria Perrocchio che tanta, ma tanta fiducia aveva riposta in quel sant’uomo dello “sciur” Antonio.
Davanti agli scheletri delle sue quattro vittime il Boggia, in un ennesimo coup de teatre, si finge di nuovo pazzo per cercare di evitare la pena di morte.
“Bel faccieu, bel faccieu!”…
In carcere Antonio Boggia suscita qualche timore anche nei suoi compagni di cella che lo vedono trascorrere le notti quasi senza dormire, ad occhi aperti, mentre sogghigna, quasi a ricordare , con piacere e soddisfazione, tra se e se, quei terribili momenti nella sua cantina dell’orrore.
Si trastulla spesso con una statuetta di realizzata da un suo compagno di cella – forse scolpendo una saponetta – che lo raffigura con in una mano una scure e una testa mozzata nell’altra. Novello critico d’arte, in un attacco di irrefrenabile narcisismo si congratula con l’improvvisato scultore e con se stesso esclamando, in dialetto milanese “Bel faccieu, bel faccieu!”.
Arriva finalmente il processo durante il quale il suo avvocato difensore, tentando di farlo passare per pazzo, esclama…
“… presenta però qualcosa di strano, da far dubitare a chiunque che egli fosse cosciente dell’enormità delle sue azioni… Signori è assurdo che la pena di morte, nello stato attuale della legislazione dell’Italia rinata e unita, non sia abolita, dato che ne pende ancora presso il Parlamento la decisione. Credo che il tribunale voglia quindi astenersi dall’applicare al Boggia la pena capitale…”.
“… il signor consigliere Zendrini, che diresse i dibattimenti, diede lettura della sentenza in cui si condannava il Boggia alla pena di morte per impiccagione…”, si poteva leggere sul giornale “Il Pungolo” del 23 novembre 1861. Notate i “ferri del mestiere” e le due casse con gli scheletri di un paio di vittime…
Una folla di curiosi affolla l’aula del tribunale durante il processo in cui il Boggia – finalmente! – viene condannato alla pena capitale.
Ma Milano, la grande Milano, non ha personale addestrato a far funzionare la forca dove impiccare quel “sant’uomo” e così è necessario far giungere da altre città il boia accompagnato da due suoi aiutanti.
Molti cittadini milanesi, felicemente improvvisatisi “boia”, si sono comunque offerti di accompagnare all’inferno il Boggia ma non sono stati accontentati.
Così, nonostante la domanda di grazia richiesta, il “bell’Antonio” sale sul palco della forca – tra Porta Vicentina e Porta Ludovica – il 4 febbraio 1862 accompagnato da qualche incappucciato della Compagnia della Buona Morte.
Purtroppo per lui, pochi giorni più tardi viene promulgata la legge che abolisce la pena capitale. Lodevole ritardo dovuto all’onnipresente burocrazia…
Il suo corpo viene inumato nel cimitero del Gentilino, vicino a Porta Ludovica, mentre il professor Andrea Verga, quello che aveva dichiarato “pazzo” il Boggia, fa staccare la testa del condannato affinché sia lui stesso che il ben più celebre professor Cesare Lombroso possano studiare il macabro reperto anatomico alla ricerca di chissà quali anomalie strutturali che giustifichino quelle orrende de azioni.
“Giustificate” soltanto dall’avidità del Boggia e dalla sua cronica voglia… di non far niente di buono!
Agli scrittori di romanzi popolari non sembrò vero di poter pubblicare subito libri, a diffusione vastissima, sulle cruente vicende del Boggia!.
Il Boggia vende la scure con cui aveva ucciso ben quattro persone. Forse si lasciò sfuggire qualche parola di troppo e sorsero i primi sospetti…
Chissà come, chissà da dove proviene, chissà se è un reperto genuino o una macabra trovata, ma qualche anno fa, tra i collezionisti di cose “strane” appare un’accetta da macellaio, catalogata con un’etichetta che recita “del Boggia Antonio” e custodita in una piccola cassa di legno presso l’Ospedale Maggiore di Milano…
Roberto Volterri
Articolo estratto da “Killers – Gli Apostoli del Male” di Roberto Volterri e Bruno Ferrante, pubblicato da Eremon Edizioni.
Nel libro incontrerete moltissimi personaggi vissuti in un passato più o meno lontano o anche viventi, ma i loro nomi sono sempre indelebilmente scritti con inchiostro rosso nelle cronache in cui l’homo homini lupus – a volte anche la femina feminae lupior! – ha fatto nascere nelle nostre menti un’angosciosa domanda: il Male possiede una sua personalità autonoma, perennemente presente nella storia dell’homo sapiens? Oppure costituisce una sorta di “seme” inseritosi ad arte nel substrato dell’animo umano solo negli individui che, liberamente, consapevolmente, decidono di coltivarlo a danno dei loro simili? Forse quando avrete letto tutto il libro troverete una plausibile risposta…