Come è delizioso andar sulla bicicletta…
A dire il vero, la romantica canzone del 1939 cantata dall’indimenticabile Odoardo Spadaro esaltava il fascino dell’andar sulla “carrozzella sotto braccio alla tua bella”, ma nel 1944, negli ultimi tragici tempi della Seconda Guerra Mondiale, l’avvocato Pietro Monni non ha nè tempo nè voglia di fare romantiche gite per le vie di Roma – o di qualsiasi altra città – perché deve sbrigare affari importanti e deve recarsi in bicicletta nella frazione di Ponterotto, a chilometri da Nerola, non lontanissimo da Roma.
È una calda giornata di luglio, la strada è abbastanza pianeggiante, non c’è traffico – come potrebbe essere diversamente in un’Italia ormai al collasso, dove le sparute automobili private sono riservate ai soliti “ricchi” e quelle militari hanno da fare altrove? – e, tutto sommato, per arrivare a Ponterotto, anche se mancano ancora un bel po’ di chilometri, il Monni può prendersela comoda…
“Comoda” se non ci si mettesse anche un maledetto chiodo lasciato lì, per caso, da qualche carro di passaggio, chiodo che mette a terra una ruota, forse tutte e due!
“Accidenti!” esclama però il buon avvocato quando arriva al chilometri 47 della Strada Statale 4 Salaria.
“Va bene che di questi tempi lo Stato ha altro a cui pensare, va bene che le strade sono l’ultimo di pensieri di chi dovrebbe salvare la Patria e non una strada importante ma non così importante da curarne l’asfalto che – esclama ancora il Monni – è cosparso di chiodi!”.
“Bucare in questo posto, in aperta campagna dove nessuno, di solito, può darti una mano – riflette sconsolato – è proprio il colmo della sfortuna… Meno male, invece, che qui davanti c’è la casa di un contadino. Speriamo che abbia qualcosa per riparare la ruota forata…”
Il contadino – che fra poco conosceremo con maggiori dettagli – c’è, abita proprio lì, davanti al tratto di strada in cui il Monni ha forato la camera d’aria dell’unico mezzo di locomozione di cui dispone, e si mostra molto, molto collaborativo. Fin troppo…
Il contadino si chiama Ernesto Picchioni, è nato ad Ascrea nel reatino, nel 1906 ma si trasferisce ben presto a Nerola in una casa a due piani – ancora esistente! – insieme alla moglie Filomena Lucarelli, all’anziana madre Clorinda Patrizi, al figlio maschio Angelo e alle tre figlie femmine, Carolina, Valeria e Gabriella.
Ernesto Picchioni, il “Mostro di Nerola” (1906 -1967).
Dati biografici di Ernesto Picchioni riportati in un documento ufficiale del Ministero dell’Interno Direzione Generale di Pubblica Sicurezza. Questi dati e gran parte della documentazione qui riportata sono frutto di accurate ricerche degli Autori presso l’Archivio di Stato.
Evidentemente il bilancio familiare – chiamiamolo molto poco “affettuosamente” così – fa acqua da tutte le parti perché le attività a cui si dedica il Picchioni – contadino, sedicente “venditore di lumache”, ecc. – non consentono la sopravvivenza di ben sette persone.
Non consentono soprattutto le quotidiane, lunghe, permanenze del Picchioni nelle osterie del paese, dove tra una partita a carte e l’altra, rende onore al dio Bacco tracannando litri di buon vino rosso.
Gli consentono però – il “buon” Ernesto è fervente comunista e vicesegretario della locale sezione del PCI – di pagare regolarmente i contributi al partito, come risulta dalla sua tessera di adesione repertata dai Carabinieri dopo l’arresto.
Recto e verso della tessera di adesione al Partito Comunista Italiano intestata ad Ernesto Picchioni, poi soprannominato il “Mostro di Nerola”.
Picchioni è, diciamo così, un po’ irascibile perché nel 1946 – e già, da due anni, ha inviato ai Campi Elisi il povero ciclista che abbiamo prima incontrato davanti a casa sua – colpisce violentemente con una pietra il padrone del terreno in cui abusivamente risiede e per tale “divergenza di opinioni” lapidariamente sancita, si becca quattro mesi di carcere.
Ma, da buon fervente antinazista, si vanta di aver spedito all’altro mondo anche due militari tedeschi in fuga dall’italico suolo…
In mancanza di nazisti in fuga o di ciclisti di passaggio, spedisce nel paradiso dei cani ogni “segugio” che si azzardi a passare sui suoi campi. Che, sappiamo di già, suoi non sono affatto.
Durante gli scavi effettuati dai carabinieri dopo il suo arresto, sono infatti venute alla luce anche molte carcasse, oltre, naturalmente, pezzi di biciclette, gli scheletri di due sue vittime, brandelli di vestiti, ecc.
Alcuni dei numerosi reperti appartenenti alle due vittime – Moni e Daddi – emersi dagli scavi nell’orto del “Mostro di Nerola”.
Ma il dubbio sul reale numero di vittime del “Mostro di Nerola” permane poiché nei paraggi della sua abitazione sono stati trovati anche i miseri resti di un bambino di tredici anni e di un uomo anziano ancora munito di bei mustacchi…
La strategia del “Ragno”
Da quel che abbiamo capito consultando gli atti del processo intentato ad Ernesto Picchioni – presso l’Archivio di Stato di Roma – all’individuo che ha reso tristemente celebre l’ameno paese di Nerola, non andava molto di faticare sul lavoro…
“La terra è bassa” recita un detto popolare diffuso tra i contadini – ma anche tra gli archeologi “pala e piccone”! – e zapparla rende poco, si spreca un mucchio di energie utilizzabili, ad esempio, in una bella partita a briscola con gli altri sfaccendati del paese. No, lavorare non fa per lui…
Inventiamoci qualcosa di più facile e redditizio, avrà così pensato il “venditore di lumache” e altro ancora…
Forse, durante qualche sua oziosa riflessione su come incrementare il “prodotto interno lordo della famiglia Picchioni”, l’irascibile Ernesto avrà visto come un ragno tesse la sua tela e, dal centro del suo capolavoro, se la contempla in attesa che qualche distratta mosca non abbia tempo per cambiare rotta e vi si impigli inesorabilmente.
E la cena è pronta anche per lo sfaticato aracnide!
L’Ernesto avrà studiato poco – diciamo niente… – ma è un buon osservatore dei miracoli di Madre Natura e intuisce subito come, con pochissimi spiccioli, potrebbe far concorrenza al ragno attirando nella sua fatiscente “tela” a due piani qualche affaticato ciclista di passaggio davanti al fatidico chilometro 47…
Presto fatto! Una manciata di robusti chiodi, magari piegati ad arte per rendere più facile la foratura dello pneumatico delle biciclette e poi… attendere fiduciosi.
Ed è proprio così che il buon Pietro Monni mai raggiunge la frazione di Ponterotto….
La già fatiscente abitazione del Picchioni all’epoca dei fatti. Oggi è più o meno così…
Gli autori del libro “KILLERS. Gli Apostoli del Male “ (Eremon Edizioni) nella casa del “Mostro di Nerola”: a sinistra Bruno Ferrante e a destra Roberto Volterri.
Giunto davanti all’unica casa esistente nel raggio di molti chilometri il buon avvocato ringrazia il Cielo per l’inaspettata fortuna e chiede aiuto al più che collaborativo Ernesto. D’altra parte, questi – il “Ragno” – non aspettava altro…
Gli viene addirittura offerta la cena e anche un improvvisato giaciglio dove passare la notte in attesa di riprendere il viaggio dopo avere riparato la ruota forata.
Ma il povero ciclista non ha tempo e possibilità di ripartire per Ponterotto poiché durante la notte il Picchioni imbraccia la sua doppietta e – dato che non vi sono cani su cui esercitare la mira – uccide senza pietà la sua prima “mosca”, la depreda di ogni avere e fa seppellire il corpo nell’antistante orto, in una buca scavata dal figlio Angelo, pena… la stessa fine!
I miseri resti scheletriti del povero avvocato Pietro Monni, rinvenuti solo dopo il secondo brutale omicidio, quello del Daddi, e la confessione dei familiari del Picchioni.
Foto dell’epoca. Lo scavo – realizzato dal figlio Angelo sotto minaccia paterna – in cui venivano sepolte le vittime. Ancora oggi se ne trovano le tracce…
Dopo l’arresto, Picchioni cerca di ammantare di un improbabile significato politico l’omicidio dell’avvocato Monni dicendo che il “fattaccio” era avvenuto durante un’accesa discussione in cui il suo momentaneo ospite aveva urlato che tutti i comunisti erano da condannare e avrebbero dovuto finire i loro giorni nelle patrie galere.
Mal gliene incolse al povero Monni!
Lui, il Picchioni, sfegatato comunista della prima ora, non aveva potuto sopportare tale eresia, aveva preso la sua doppietta, appoggiata lì, a portata di mano – ma solo per caso, s’intende! – e aveva eliminato un pericoloso “sovversivo”.
Dimenticavamo, poiché di delitto a sfondo politico si trattava, il Picchioni sostiene di aver gettato in un fosso le 750 lire trovate – sempre per caso… – nelle tasche della sua prima, ufficiale, vittima.
E il “naso”, davanti all’incredulo Commissario, gli crebbe a dismisura…
Cranio di Pietro Monni. È ben visibile il grande foro nella parete occipitale del cranio, causato da un colpo di fucile sparatogli a bruciapelo.
Archivio di Stato. Stralcio dal referto medico relativo alla causa della morte del Monni.
Arriva la seconda “mosca”…
Alessandro Daddi, impiegato presso il Ministero della Difesa, in una bella giornata del maggio 1947 inforca la sua bicicletta munita di un piccolo motore a quattro tempi e due marce, denominata “Cucciolo”, progettata da Aldo Farinelli e costruita dalla Ditta Siata di Torino.
Una vera novità per quei tempi e oggetto di desiderio anche per quel fannullone del Picchioni…
Il “Cucciolo” della Ducati, un ghiotto boccone per il “ragno” della Via Salaria!
Daddi parte da Roma, dalla sua abitazione sita in Via Emanuele Filiberto e, contando soprattutto sull’aiuto del piccolo ma efficiente motore, pensa di poter raggiungere la madre, in quel di Contigliano, senza troppa fatica.
Ma non ha fatto i conti con il “ragno” appostato nei pressi del mortale chilometro 47 della Via Salaria…
La seconda vittima accertata, Alessandro Daddi.
Qui Ernesto Picchioni , a corto di danaro come sempre, tesse di nuovo la sua “tela” fatta di chiodi che sparge sull’asfalto come un vero agricoltore spargerebbe i semi nel suo campo di grano.
Solo che l’aspirante contadino di Nerola sparge ancora una volta semi di morte…
Arrivato quasi davanti alla casa dello sfaccendato Picchioni, come da copione ben collaudato, il Daddi fora le ruote del “Cucciolo” ed è costretto a rimandare ad altra data la programmata visita alla madre.
“Perbacco, che fortuna!”, avrà anch’egli esclamato vedendo che a pochi metri di distanza c’è una casa che sembra abitata e sull’uscio c’è un brav’uomo che non gli negherà di certo un po’ di mastice per riparare le gomme e riprendere il viaggio.
Il Picchioni non aspetta altro…
Fa accomodare quest’altro ciclista della domenica e “… mentre il Daddi curvo sulla tavola stava provando il mastice – scrive un redattore del quotidiano “Il Messaggero” del 29 ottobre 1947 – il Picchioni l’aveva colpito al capo con una mazza ferrata. Il Daddi si voltò e cadde ginocchioni per terra…”.
Non convinto di averlo così spedito al Creatore, per nulla impietosito dalle urla di dolore e dalle invocazioni del Daddi che lo prega di lasciarlo andare, con un colpo di coltello che avrebbe suscitato l’invidia del “feroce Saladino” e della sua scimitarra, il Picchioni gli taglia la gola.
Da una porta socchiusa la moglie ha però visto tutto…
“ Se parli ammazzo te e tutta la famiglia – continua il redattore del quotidiano romano descrivendo la scena – … La mattina di poi la terra dell’orto apparve rimossa come quella volta in cui si udirono le due fucilate…”.
Foto dell’epoca. Fossa da cui furono estratti i miseri resti di Alessandro Daddi.
Ciò che restava del povero Alessandro Daddi, ciclista della domenica in gita verso il paese dove abitava la madre. Che mai raggiunse…
Naturalmente i familiari del Daddi, non vedendolo arrivare e non avendone avute più notizie, chiedono alla Questura di Roma di intensificare le indagini e così vengono avanzate anche alcune ipotesi sul motivo della sua scomparsa…
Lettera con cui si chiede di effettuare ulteriori indagini sulla scomparsa di Alessandro Daddi.
Ma come si arrivò alla scoperta di chi fosse il “mostro” che terrorizzava un tranquillo angolo di campagna a pochi chilometri da Roma?
Niente di più facile, quando un Killer, seriale o meno, è così stupido da scorrazzare per il paese di Nerola a cavallo di una bicicletta a motore – il “Cucciolo” – che fino al giorno prima non sapeva neppure che esistesse!
Eppure è proprio ciò che il Picchioni fa, volendo così esibirsi agli occhi di quegli “zoticoni” dei suoi compaesani.
Scorrazza di qua, scorrazza di là, il maresciallo Evaristo Acquistucci, dei Carabinieri di Nerola, ha una geniale intuizione: anziché fermare e interrogare subito il Picchioni, il quale avrebbe di certo inventato chissà quali scuse per giustificare il possesso del motociclo, attende che il “buon” Ernesto si assenti dal paese per un matrimonio di una parente e va a trovare la moglie Angela accusandola con fermezza dell’uccisione di Alessandro Daddi.
Acquistucci gioca d’astuzia spaventando la povera signora Angela, ben sapendo chi sia il colpevole e l’escamotage ha successo, poiché, intimorita dal tono autoritario del Commissario, la sfortunata signora Lucarelli in Picchioni, cede e si lascia andare…
“ Ci ammazzerà tutti! Ci ha detto – continua il redattore de “Il Messaggero” dell’ottobre 1947 – che ci avrebbe ammazzati tutti. Anche la vecchia – la “sora Clorinda”, la vecchia madre – se si fosse venuti a sapere della cosa…”
Messa al sicuro tutta la famiglia Picchioni presso la locale caserma, Acquistucci attende il ritorno del Picchioni…
Quasi ubriaco dopo gli infiniti brindisi in occasione della festa matrimoniale a cui ha partecipato, Picchioni sta per entrare in casa quando si accorge della presenza del Commissario e di altri carabinieri. Rozzo sì l’aspirante contadino, ma, al solito ha le scarpe grosse e il cervello fino!
Dopo una violenta colluttazione con “Bruttafaccia” – come veniva chiamato Picchioni per ragioni… facilmente intuibili – di corporatura piccola ma robusta e per niente convinto di doversi arrendere subito, il Picchioni viene portato dapprima nella caserma dei carabinieri di Nerola e poi nelle più affidabili carceri di Palombara Sabina. Mettendolo, diciamo così, al sicuro dai tentativi di linciaggio da parte dei pacifici abitanti del paese…
In alto, l’arresto di Ernesto Picchioni. In basso la sua foto segnaletica e le impronte digitali.
Il processo a “Sparafucile”
Ormai il grazioso paese di Nerola che la leggenda fa risalire a Nerone – “ A Nerone tuum Nerola nomen habet” – è diventato tristemente noto un po’ ovunque, quasi come avviene ai giorni nostri con Avetrana, Costigliole d’Isola oppure Ca’ Raffaello, anche a causa dei delitti avvenuti in queste sconosciute località della nostra bella Italia.
A Nerone tuum Nerola nomen habet, recita un’iscrizione sulla fontana di Piazza Municipio, a Nerola.
Viene istruito il processo ad Ernesto Picchioni accusato almeno di due orrendi delitti – il Monni e il Daddi – ma non escludendo che altre vittime di quello che ormai è per tutti il “Mostro della Via Salaria” siano sepolte nella campagna circostante l’abitazione dell’irascibile contadino.
Un po’ per salvarsi, un po’ perché sinceramente adirata contro il marito che ha cacciata tutta la famiglia in un guaglio da cui sarà difficile uscire, la più accanita accusatrice del Picchioni è proprio Filomena Lucarelli, la moglie, la quale, secondo i cronisti del quotidiano “Il Messaggero” del 1 novembre 1947, ha “… trentacinque anni ma ne dimostra almeno cinquanta… Alta, pallida, il suo sguardo è spaurito… ‘Non mi fate male, ne ho passate tante!’ , dice con grande mitezza…”.
Dopo aver deposto ricordando le uccisioni del Monni e del Daddi – alle quali aveva verosimilmente assistito, forse insieme ai figli… – la povera Filomena allude anche ad altre due possibili vittime del marito, mai ritrovate. A meno che non fossero il ragazzo tredicenne e l’uomo con folti baffi…
Vengono effettuate alcune perizie psichiatriche relative alle condizioni mentali del Picchioni, ma egli risulta totalmente capace di intendere e di volere.
Di volere, insomma, la morte altrui per ricavarne un minimo profitto!
Perizia psichiatrica che stabilisce senza alcun dubbio che Ernesto Picchioni è sano di mente e che, spesso, simula ad arte stati di inesistente “infermità mentale”.
“Cun ste femmine nun se po’ sta securi mai!”
No, non si può stare tranquilli mai – esclama in tribunale il Picchioni in un dialetto sabino facilmente comprensibile –, non si può stare tranquilli soprattutto se la “femmina” in questione è sua moglie, angariata, terrorizzata, minacciata di morte per anni e anni, resa quasi corresponsabile di qualcuno degli omicidi solo perché non aveva avuto il coraggio di denunciare il marito quando ne aveva avuta la possibilità.
Picchioni viene rinchiuso nella cella di massima sicurezza del carcere di Civitavecchia per poi venire condannato a ben due ergastoli e – in questi casi la Giustizia… non bada di certo a “spese” – anche ad altri ventisei anni di ulteriore detenzione. È il 12 marzo 1949 e l’incubo “Picchioni” sembra finito…
Sembra, ma non lo è.
Durante una visita del Papa… nel carcere di Civitavecchia, Picchioni – da buon comunista “mangiapreti”, come vorrebbe l’immaginario collettivo dell’epoca – sembra abbia aggredito il Vicario di Cristo in missione redentrice tra quei poveri derelitti condannati a passare gran parte della loro misera esistenza tra quattro mura, lontani da amici e familiari.
A dire il vero, ricerche da noi effettuate presso l’Archivio di Stato hanno messo in luce l’esistenza di una sorta di breve corrispondenza epistolare tra Picchioni e la moglie Filomena, corrispondenza che, però, si interromperà ben presto soprattutto dopo il trasferimento all’Isola d’Elba…
Una delle pochissime lettere dal carcere indirizzate da Ernesto Picchioni alla moglie Filomena.
Da ricerche fatte non risulta che mai abbia ricevuto visite dalle moglie o dai figli e poiché appare sempre più intrattabile e pericoloso, viene trasferito a porto Azzurro , all’Isola d’Elba, in una struttura più adatti ad individui pericolosi come lui.
Ma il soggiorno isolano dura fino al 1967 quando – verosimilmente per arresto cardiaco – lascia finalmente un mondo in cui aveva seminato solo terrore e morte.
Parce sepulto (forse…)!
Lettera con cui il prete don Guido Visendaz sollecitava il ricovero di Angelo, figlio di Picchioni, in una sorta di “Casa famiglia” di Silvi Marina.
Sorte ben migliore hanno due delle sue figlie, Gabriella e Carolina, le quali nel 1952 vengono adottate da un ricco “re dell’acciaio made in USA”, Robert Wilbraham Fitz Aucher il quale lascia loro anche un’eredità di circa due milioni di dollari.
Non ci sono notizie della sorte degli altri due figli e della moglie Filomena, salvo una lettera di un prete che sollecitava l’interessamento delle autorità per migliorare le condizioni di salute del figlio Angelo, presso una sorta di “Casa famiglia” di Silvi Marina…
Roberto Volterri
L’articolo è tratto dal libro “Killers – Gli Apostoli del Male”, scritto da Roberto Volterri e Bruno Ferrante, Eremon Edizioni.
Nel libro incontrerete moltissimi personaggi vissuti in un passato più o meno lontano o anche viventi, ma i loro nomi sono sempre indelebilmente scritti con inchiostro rosso nelle cronache in cui l’homo homini lupus – a volte anche la femina feminae lupior! – ha fatto nascere nelle nostre menti un’angosciosa domanda: il Male possiede una sua personalità autonoma, perennemente presente nella storia dell’homo sapiens? Oppure costituisce una sorta di “seme” inseritosi ad arte nel substrato dell’animo umano solo negli individui che, liberamente, consapevolmente, decidono di coltivarlo a danno dei loro simili? Forse quando avrete letto tutto il libro troverete una plausibile risposta…