I PAESI DELL’OMBRA – 04

LE VEGLIE

Colloquio di un lavoronauta.

Ha la patente?

Sì.

Ha la macchina?

Sì.

Telefono? Cellulare?

Sì.

Bene. Lo sappiamo il suo numero.

Lo so.

E’ disponibile a lavorare?

Sì.

Subito? A qualsiasi ora?

Sì.

In ogni momento? In qualsiasi giorno occorra?

Sì.

E’ disponibile.

Disponibile. Sì. Lo ero lo sono e lo sarò sempre.

Mentre la notte si consuma, l’afa viene spezzata da un gran fracasso di temporale, uno di quelli che si formavo per il gran caldo. Zeno emerge da un sogno confuso in cui è alle prese con l’ennesimo colloquio di lavoro e apre tutte le imposte per far circolare l’aria, creare della corrente, poi si stende sul letto. Sopra i tetti di Balzala nembi come crepe nel cielo spingono il vento a frustare l’erba, agitare le punte nere del bosco. Ecco il brontolare sordo del tuono e viene finalmente lo scrosciare della pioggia, pioggia forte, e ancora rombi, botti e le vampate improvvise dei lampi, una inquietante luce blu, un alone bluastro, un’oscurità fosforescente. Dura poco, poi il vento cala e torna il silenzio. Zeno è ancora sveglio, steso immobile a fumare quando sente un cigolio giù in strada. Si affaccia cauto sulla piazza e vede un calesse. A cassetta, le sagome del vecchio e la nipote. Dietro di loro una cassa nera di legno. Una cassa da morto. Il calesse gira attorno alla piazza e prende la strada per il cimitero. Anche a quelle ore Bardeville e la nipote preparano i morti per il loro ultimo viaggio. Prima dell’alba, quando il cielo è ancora scuro, Zeno si veste per andare al lavoro. Alle 5 parcheggia davanti al centro commerciale. Con la sua carta magnetica entra da uno degli ingressi riservati al personale. Fa una colazione veloce al bar interno. Negli spogliatoi, uno dei capireparto, uno con la cravatta (perché quando inizi a comandare ti danno in dotazione la cravatta) gli si accosta con un sorriso mellifluo per comunicargli che riceverà una lettera di richiamo in cui gli contesteranno certe irregolarità, ma è chiaro che è solo per punirlo dopo la sua interferenza del giorno prima.

Quando sei venuto qui a lavorare avevi la fame dentro e noi ti abbiamo accolto come una famiglia. E tu ci ripaghi così? Guarda che questo è un primo avviso. Non tirare troppo la corda, aggiunge con gelida ironia l’uomo con la cravatta.

Infine gli comunicano che passerà l’intera giornata in cassa. Più di sette ore di tortura. Zeno non protesta. Ubbidiente, con la sua divisa, in attesa che arrivi l’orario di apertura, si reca nel parcheggio interno e, con altri, scarica i tir con le merci. Tutto lavoro da fare col muletto elettrico, ma non c’è e ci si deve arrangiare. Zeno e altri tre imballano, trasportano e scaricano. Si piegano, inarcano la schiena, poi tutto il peso sulle braccia. Quintali. Roba da spezzare un culturista. E, infatti, dopo due ore così, la schiena pulsa trafitta da coltellate penetranti. Zeno non sente più le braccia, vorrebbe cadere a terra, invece un caporeparto gli fa cenno che è ora di andare alle casse. E’ quasi l’apertura. La gente preme contro le porte a vetri. Sono le 8 e 30 precise. Badge appuntato sul petto con nome e cognome  una foto sorridente e piacevole. A Zeno non resta altro che rimanersene seduto in un’unica tirata fino alle cinque e mezza. Ovviamente senza pause. Nemmeno ci prova a chiederle. Non vuole dar loro anche la soddisfazione di negargliele e tenerlo in sospeso come con Giuditta. Pazienza per la povera vescica satura oltre il possibile. Quando finisce, Zeno non ha nemmeno le forze per guidare. Quasi sviene. Ha le braccia percorse da fitte atroci. A casa quasi non mangia. Solo una minestrina in busta e poi a letto. La settimana prosegue così. Mattinata a svuotare i tir, il resto in cassa. Vogliono fargliela pagare. Sperano che ceda. A questo punto è chiaro che alla fine del mese non verrà riconfermato. Il suo contratto è quasi scaduto e lui ha già una lettera di richiamo. Con l’inizio della nuova settimana gli ridanno il diritto alla pausa pranzo. Incrocia Giancarlo nel pizzò dentro l’iper. Ora anche lui porta la cravatta. Per una volta si lascia scappare un’espressione di orgoglio. Riferisce che uno dei capi reparto gli ha fatto capire che presto salirà di grado.

Ma per farti una posizione devi sgomitare, vigilare e spiare chi non sta al passo. E fare rapporto. Un rampante deve essere spietato. Sopportare di tutto. Turnover disumani. Farsi cane mastino. Se ti fai il mazzo puoi diventare perfino vicedirettore, anche se non hai il pezzo di carta.

Al ricevimento merci, Zeno vede un carrellista svenire sotto il peso di un quintale di crocchette per cani. Gli altri attorno continuano impotenti a lavorare. Tutti vedono, ma nessuno si ferma. Zeno prova a far finta di niente, sente ancora l’effetto deprimente della punizione e ha paura, poi però una rabbia sorda lo avvolge. Presta soccorso all’uomo svenuto. Subito compare un capo reparto. Prende i nominativi di entrambi e sparisce. A fine turno Zeno riceve il secondo richiamo per iscritto. Motivo. Ha interrotto il suo lavoro senza giustificazioni. Ha approfittato della pausa ai danni dell’Azienda. Quasi un reato penale. Un furto del tempo. Ancora un passo falso e sarebbe stato licenziato. A quel punto, quasi ci spera.

Un altro pomeriggio, alle casse, un collega vicino chiude la sua e conta l’incasso. C’è poca gente in giro e nessun capo reparto a spiarli. Il collega bisbiglia.

Anche tu in cassa?

Sì, una punizione.

E’ sempre così.

Tu?

Io mi sono rassegnato. Fuori da qui non ho occasioni migliori.

Idem. Io credo di impazzire. Vorrei rallentare il ritmo. Ho le braccia che non le sento.

Occhio che ti controllano il numero delle battute al minuto. Se la tua cassa non viaggia al ritmo che vogliono loro ti fanno il culo. Ascolta, fai come me. Non pensarci. E’ un trucco che funziona.

Come? Chiede Zeno.

Durante il lavoro pensa ad altro. Sorridi al cliente. Di sempre di si, ma con la testa sei altrove. Ti assenti col cervello per delle ore e arrivi a fine turno in un baleno. Non perdi il ritmo. Fai tutte le operazioni, ma non ci sei. E loro non se ne accorgono. Non hanno ancora inventato una macchina che ti controlli i pensieri.

E’ impossibile, come ci riesci?

All’inizio aiutati con gli spinelli. O con gli psicofarmaci. O con la grappa.

Sera. Verso le nove il centro commerciale chiude, ma Zeno è ancora lì. Ha fatto un turno spezzato: nove ore in due mini turni. Uno dalle nove alle undici, un altro dalle 17 alle 21. Nelle tre ore di pausa se n’è rimasto in macchina in una piazzola soleggiata a un chilometro dal centro commerciale. Adesso Zeno e altri colleghi sono rimasti dentro in attesa che le varie operazioni di chiusura siano correttamente terminate. Gli incassi vengono controllati e i conti non tornano. Altri 30 minuti di attesa. Tutti sono tenuti in ostaggio. Fuori, la guardia giurata presidia il parcheggio. Nell’attesa, Zeno incrocia Ambra. Anche lei sembra parecchio sbattuta e dimagrita. Solo le tette rimangono imponenti.

Dio, Zeno, sembri uno straccio.

Anche tu.

Zeno, senti, sono stufa marcia di questi idioti. Spacchiamo tutto.

Quando decidi di ribellarti fammi un fischio.

Dobbiamo smettere di sopportare.

Hai ragione.

Poi Ambra cambia espressione e, con la coda dell’occhio, vede avvicinarsi uno dei capi reparto con la cravatta. Sbianca e fa due passi lontana da Zeno.

Scusami, ma non devo farmi vedere con te da loro.

Scusa, perché?

Lei quasi bisbiglia.

Gianca dice che ti hanno praticamente fatto fuori. Sei contagioso. Dio, scusami, scusami, scusami…

Quella sera, a casa, a Balzola, tutto il suo fisico crolla, si disfa per la stanchezza. Allo specchio si vede pelle e ossa, privo di ogni emozione, compresa l’indignazione e la rabbia. La gaiezza chiassosa della gioventù è cancellata per sempre, svanita come i suoi genitori.

Finalmente un mezzo pomeriggio libero. E Zeno può riprendere a andare per il bosco. Si incammina dalla piazzetta. E’ l’ora in cui i giovani dovrebbero radunarsi dopo le fatiche della giornata e, nel chiarore bruciante, riversare la loro energia illimitata, la loro esuberanza illimitata, diffondendo nell’aria suoni di mestizia. Eppure la piazza è deserta e così le varie vie attorno. Nel camminare per Balzala si incontrano solo manifesti funebri e angoli ombrosi ravvolti nel silenzio. Nessuna attività commerciale, nessuna insegna, neppure la stazione dei carabinieri, nessun vigile, nessun municipio, nulla. Solo le case sbriciolate e annerite, il bosco, il cimitero, le rovine della chiesa e, a settentrione, la Fabbrica. Zeno si immerge nella selva di piante, radici, erbacce, pruni. Il sentiero affoga in un autentico groviglio di ciliegi, sambuchi, lappe e il luppolo che ricopre come una rete ogni cosa. E poi il ronzare persistente delle api. Le ragnatele che s’impigliano nei capelli e i ragni che si danno alla fuga nell’erba: la lunga passeggiata è rigenerante e aiuta a stemperare le vampe del pomeriggio. Per cercare l’ombra basta ritirarsi nel folto degli alberi. Così facendo, Zeno arriva alla radura col vecchio albero ucciso dalle saette. Ritrova il bus scalcinato, Ottavia e Gaspare. Questa volta ogni discorso sul lavoro e le sue nefaste implicazioni è bandito severamente. I due nomadi lo accolgono con la consueta allegria. Gaspare sventola una copia spiegazzata del giornale. Spiega quel che ha letto. Quel che è successo. Si parla di Balzala. Zeno è all’oscuro di ogni cosa. La sua vita, negli ultimi giorni, è stata risucchiata da un buco nero. Allora Gaspare si assume l’onore di riassumere per bene i fatti. Spiega che nell’obitorio della città sono state sfregiate alcune salme. Profanazioni di salme. Sei per la precisione. Di notte fonda. Per sei notti consecutive.

Ma non dovrebbe esserci un guardiano?

C’era, certo, ma non ha visto nulla.

E cosa hanno fatto?

Delle escissioni. All’inizio pensavano ai topi, ma è ridicolo. Poi anche il medico legale ha visto che non potevano essere denti, ma una lama affilata. E poi chi ha fatto lo scempio ha rimesso a posto il velo sopra i corpi.

Gesù!

E non è finita: hanno riaperto gli occhi delle salme. Ti immagini l’effetto per quel povero cristo che se le ha ritrovate così.

Ma cosa hanno fatto?

A una hanno tagliato un lembo di pelle dalla guancia. A un altro hanno sfregiato il collo e il petto. Robe così. Comunque a tutti hanno riaperto gli occhi. Probabile ci sia dietro la solita setta di satanisti. O gli ufo. Dicono che preleverebbero la biotina da cadaveri umani per farci esperimenti.

Non ti chiedo neppure cos’è la biotina. Senti, ma non hanno incolpato proprio nessuno?

Nisba. Pensa che l’ultima sera erano attrezzati. Sul giornale c’è scritto che l’obitorio era sorvegliato meglio di un carcere: agenti, sorveglianti, persino delle telecamere nelle varie sale mortuarie. E… Nisba. Hanno sfregiato un altro e nessuno ha visto o registrato nulla.

Ma di chi erano le salme?

Dei vecchi. Sai quelli che sono morti nelle ultime settimane. Molti erano di qui. Balzola o paesi vicini. Mi pare fossero anche degli ex pezzi grossi. Gente che una volta contava qualcosa. Ingegneri, medici, pure un sindaco. Si vede che non li hanno lasciati in pace nemmeno da morti!

Nel frattempo Ottavia ha preparato dei panini al burro e marmellata di more.

La facciamo con quelle che raccogliamo nel bosco.

Mangiano in pace. Ottavia accenna al suo lavoro alla fabbrica di catene. A Settembre le daranno la paga e potranno partire. Un’ombra di tristezza avvolge l’umore di Zeno, ma fa finta di niente e si congratula con loro. Finito di mangiare Gaspare prepara la sua pipa corretta all’hashish e Ottavia arrotola due spinelli. Fumano paciosi, lasciando galleggiare la mente e le parole.

Vedi Zeno, non sono le droghe a incasinarti il cervello, anzi, le droghe aiutano a sopportare la gente incasinata. Se sai metterci un limite sono a posto. Cazzo, noi siamo traveller in gamba, mica come quegli zombi dove lavori. Se arrivi in una città che non conosci parcheggiare può diventare…

Quando Zeno li saluta il sole è ancora forte. Lui non ha voglia di rientrare. Cammina immerso nella frescura. Cammina fino alla vecchia chiesa abbandonata che, con la sua rauca campana, scandisce quasi ogni notte, preannunciando (chissà come?) nuove morti… La chiesa si erge su un campo brullo alla fine del bosco. Della costruzione restano solo muri di pietra e una cappella tra le rovine. Una piccola torretta chiusa, murata, quasi un uncino di pietra, punta verso i bagliori rosso fuoco del sole. Lassù c’è la famigerata campana. Nessuno può salirci. Accanto ai ruderi c’è il perimetro cintato del cimitero. Anche lì desolazione, pietre tombali basse e piatte, grovigli di rovi, erba ingiallita, secca. Qua e là parole incise a sbalzo sulle pietre ruvide. Nel cimitero c’è qualcuno che se ne rimane immobile, in piedi, a fissare Zeno. E’ Bardeville. La sua chioma bianca e selvaggia. Ai suoi piedi un cane lupo, ringhiante. Basta una pacca gentile sul capo dell’animale e quello si rabbonisce. Zeno saluta il vecchio. Bardeville, per tutta risposta, gli mostra la disposizione di alcune tombe. Bardeville dice che la maggior parte delle tombe dovrebbero essere rivolte verso la chiesa come segno di speranza nella resurrezione. Invece lì sono quasi tutte girate verso l’uscita. Bardeville indica alcune croci appena calcate di fresco nella terra. Zeno si chiede se tra quei morti recenti ci sia qualcuna delle salme sfregiate. Il vecchio becchino, quasi leggendogli nel pensiero, annuisce grave. Di quelle sepolture nessuna è girata né verso la chiesa né verso l’uscita.

Perché per loro non c’è speranza di resurrezione o di fuga, sussurra roco il vecchio.

Si incamminano fianco a fianco, col cane lupo a precederli tra i filari di croci. Si lasciano alle spalle il camposanto con la sua cancellata aggrumata di ruggine e sterco di piccione e prendono per un campo intersecato da profondi borri. Camminano in silenzio nella luce vermiglia del crepuscolo. Giungono presso la casa del vecchio, un tugurio sui margini della strada comunale e assediato da campi di riso e granoturco. Bardeville lo invita ad entrare e condividere un bicchiere di vino e Zeno accetta perché il vecchio gli ispira una naturale simpatia, la stessa che gli ispirano Ottavia e Gaspare, la stessa naturale attrazione nei confronti di chiunque non sia ossessionato da qualche scalata aziendale. La cucina è ingombra di mestoli, damigiane e utensili da contadino. C’è anche Marialé, meravigliosamente bella, assorta in una impalpabile dignità che si effonde a raggio dalla sua persona. Il viso spigoloso eppure dolce nell’espressione, la fronte soave, le labbra rubino, le sopracciglia lunghe come dardi. Il cane lupo le si accoccola tra i piedi. Le pupille bianche di lei frugano lo spazio della cucina e avvertono subito la presenza di un estraneo. Bardeville prende i bicchieri e arraffa una bottiglia, mentre Zeno si siede al tavolo di legno e Marialé riprende ad asciugare le stoviglie nel lavandino. Dopo due bicchieri di un vino corposo e nerastro, il becchino pare trovare una sorta di ispirazione bassa e rabbiosa, una parlata mostosa, fitta, quasi la lunga confessione di un colpevole affatto pentito di qualche canagliata. Ciò che dice è lungo, sconnesso e all’incirca così.

La malattia qui a Balzala ci ha presi tutti a poco a poco. Uno dopo l’altro ci siamo ammalati e non lo sapevamo. Quando la Fabbrica aprì fu una manna. Comuni, sindacati, tutti a fregarsi le mani soddisfatti. E se ne avevano da mangiare loro, figurarsi noi. Per noi, figli di poveri contadini morti di fame, era come entrare in una banca. Paga sicura, c’era persino un certo prestigio a lavorare in quel luogo. La Fabbrica fece la fortuna di queste terre abbandonate. Attorno a Balzala sorsero altre piccole frazioni e ci abitavano quasi solo operai, capiturno, ingegneri e tutto ruotava attorno alla Fabbrica. Quando poi ha chiuso non è rimasto più niente e la gente aveva già cominciato a morire. Ormai era troppo tardi per capire quello che ci avevano fatto.

Lo sa com’è fatta la polvere? Sembra del talco, ha presente? Fine come sabbia, invece, boia fàus è amianto! La scaricavamo con dei forconi giù dai camion che la portavano fin qui. E ovunque sopra le campagne c’erano nuvole di quella polverina bianca. A noi toccava il compito di trattare quelle fibre come fosse semplice fieno. Le mettevamo a mucchi alti come torri, dentro dei silos, poi le tiravamo fuori a matasse, sempre così coi forconi o le mani. Delle volte quelle masse fibrose piombavano fuori dai silos con una forza del diavolo. E la polvere che si spandeva ovunque. E noi a respirarla per bene. Poi si prendeva l’amianto e lo si lavorava, lo si sfilacciava come lana, lo si rendeva più ovattato. Lo si metteva dentro dei carrelli e lo si portava  in altri reparti. Il tutto sempre in mezzo a quella maledetta polvere.

La Fabbrica arrivò negli anni cinquanta e nei sessanta era già famosissima. La gente, ovunque, ci chiedeva l’amianto, perché era un materiale resistente al calore, al lavoro meccanico ed era flessibile, resisteva agli agenti chimici. Lo potevi usare per farci quel che volevi, e costava poco: ci facevano i tubi di amianto, le lastre, le mattonelle, i tetti, i freni dei treni, i filtri, persino le vernici. E noi, in quegli anni, eravamo felici. La fabbrica ci dava di che mangiare. Non eravamo più curvi sui campi a spaccarci la schiena per una miseria. Le nostre famiglie erano felici. I nostri figli avevano di che ingrassare, andavano a scuola. Poi sono arrivati i primi sospetti. Perché gli operai cominciavano a morire. Vecchi e giovani, senza differenza. Quasi tutto avevano violenti attacchi di tosse, una conseguenza di tutte quelle polveri. Negli anni settanta le morti sono aumentate. Quelli che avevano iniziato venti anni prima non c’erano più. Io sono entrato nella Fabbrica nel ’74. Ero uno degli addetti a una macchina che chiamavano Mulino di Hazemag. Anche di quelli che lavoravano con me non è rimasto vivo nessuno. Inizialmente avvertivi una fitta al petto, il respiro affannato, ma a quello si era abituati. Quando vedevi che le fitte non passavano andavi a fare le prime lastre e ormai era tardi. Il cancro ti aveva calcificato i polmoni. Morivi velocemente. E male. Anche quando, all’interno della Fabbrica, tutti sapevamo di essere condannati, l’Azienda non ci riconosceva nulla. Verso la fine decisero una indennità per le polveri di venti mila lire in buste paga. Nient’altro. Per loro la povere non era cancerogena. A parte un po’ di tosse non ti faceva nulla, boia fàus! I capi della Fabbrica pagavano i sindacati per non sollevare il caso, pagavano i comuni, medici per mettere tutto a tacere. Noi operai eravamo soli. Le nostre famiglie ci vedevano morire rassegnati per una paga.

Ripensandoci, mi chiedo come abbiamo potuto non reagire a tutta quell’ingiustizia, a tutto quel dolore terribile. In cambio di promozioni facili, molti di noi rinunciavano a rompere le balle, poi tanto morivano in un letto d’ospedale bestemmiando e strappandosi le flebo dal braccio. In quegli anni, pensare di chiudere la Fabbrica era impensabile. Avrebbe significato la fine di un’intera area, come poi è stato. Ha visto questi posti? Ha visto cosa ne rimane? Chi li abitava è al cimitero a marcire. Quel che c’era da spartirsi se lo sono spartito, quel che c’era da mangiare se lo sono mangiato. Ora rimane solo la polvere libera nell’aria o assorbita nel terreno.

Il vecchio interrompe il racconto, prende un pezzo di pane e del lardo. Ne taglia delle fette per sé e per Zeno. Mangiano senza altre parole. Bevono il vino denso. Marialé finisce di lavare le stoviglie e si asciuga le mani in un panno di cotone. Poi il vecchio si alza e fa cenno a Zeno di seguirlo nella stanza adiacente. Il vecchio prende Marialé per mano. Anche il lupo li segue. Entrano in una stanza con la pietra a vista sulle pareti e un tavolaccio al centro. Sul tavolo il corpo di un uomo nudo, morto. Bardeville si siede e rabbocca fino all’orlo dell’altro vino nerastro. Bardeville riprende a raccontare, gli occhi persi nel passato. Mentre lui favella, Marialé si accosta al cadavere con un bacile d’acqua e una spugna e lava con cura tutto il corpo, lo friziona con una garza di lino e lo riveste con degli abiti scuri che ha tagliato con una grossa forbice…

I proprietari non si interessavano alla gestione effettiva della Fabbrica. Ecco, si interessavano solo di minimizzare le voci sulla pericolosità dell’amianto e, coi loro soldi, potevano convincere al silenzio chiunque. E’ questo che ci ha spacciato.

Ogni volta che chiudo gli occhi li ho sempre davanti a me. Ricordo i vecchi operai che ci avvertivano, dicevano, stai attento, quando fai certi lavori non respirare quella roba che è nociva, ma senza mascherine era impossibile. Ogni tanto saltava fuori qualche comunicato dei dirigenti che dicevano che il problema delle polveri era stato affrontato con l’installazione di nuovi impianti, ma era tutta una balla. Noi avevamo solo delle grosse ventole nei muri e con quelle ci facevi ben poco. Gli ingegneri ti prendevano sotto il braccio e ti dicevano che per loro la priorità era il problema dell’ambiente di lavoro, la salute di noi altri e ti facevano entrare nella testa che si era tutti sulla stessa barca, tutti una grande famiglia e che non si doveva rompere troppo i coglioni. Altrimenti la Fabbrica chiudeva e noi ce la si prendeva nel culo. A dar man forte c’era l’Inail, l’Enpi, tutti pronti a fornire dati falsificati sui decessi. A un certo punto, però, le morti furono eccessive. Nei primi ottanta tutti i colleghi anziani non c’erano più. Il consiglio di Fabbrica alzò un pochino la testa per chiedere un nuovo tipo di aspiratori. Per tutta risposta lasciarono a casa una ventina di persone, le teste calde, i più giovani. Io una volta provai a dire qualcosa e il capo turno mi mandò a pulire i filtri, che erano il punto più sporco della Fabbrica. Mi davano una tuta di carta e ti infilavi dentro i filtri intasati dalle polveri. Con un raschietto dovevi tirare via chili e chili di amianto e era ridicolo.

Ricordo, alle volte, queste visite del medico di Fabbrica, un tedesco, e di alcuni dirigenti, allora si spargeva la voce e ci dicevano di fare le pulizie generali, perché la Fabbrica era sporca in modo incredibile, l’amianto ricopriva i macchinari e la Fabbrica era buia, di un buio inquietante e poi c’era questo grigiore che ti faceva bruciare gli occhi, questo bianco grigio che ti ricopriva, addirittura consumavi il pasto sui sacchi di amianto, perché non avevamo una mensa e portavamo le tute a casa. Le pulivano le nostre mogli e le donne operaie uscivano coi camici impolverati e correvano a casa a allattare. E loro che ti dicevano, ma no, non fa male, ed era tutto l’apparato aziendale. Non si dava importanza.

A salvare i pochi rimasti fu il fallimento della Fabbrica. Avevano trovato nuovi prodotti più economici dell’amianto e non avevano più bisogno di noi. Ma tutti sapevano quello che ci avevano fatto. Lo sapevano i proprietari e ancora di più lo sapevano i responsabili di reparto. Loro che ci vedevano morire mentre se ne stavano chiusi nei loro uffici e quando giravano tra i reparti avevano sempre le maschere. Ma è servito a poco. Ne sono morti tanti anche di loro. Alla fine sono arrivate le nuove leggi che hanno messo al bando la fibra.

Alcuni sopravvissuti hanno provato a imbastire un grosso processo contro l’Azienda. Il risultato? Sessanta udienze per arrivare a nessun colpevole, nessun dolo. Solo duemila persone morte in cinquant’anni di lavoro. Perché questo era per noi. Lavoro. Solo lavoro.

Bardeville smette di parlare. Nella stanza di pietra scende un silenzio livido e pesante. Bardeville ha il viso plumbeo e le labbra torte in un ghigno immondo. Finisce la boccata di vino. Marialé, intanto, ha preparato la salma. Nelle tasche del morto infila piccoli oggetti di cera, testoline apotropaiche, zampe di animali, infine si lava le mani in un altro catino di zinco e rimane immobile nella sua bellezza antica. Zeno trova il pudore di congedarsi da quegli strani compagni. Il vecchio lo saluta cupo. Marialé con la sua voce cristallina. Zeno riprende all’incontrario la strada per il bosco. Mentre cammina nell’imbrunire cerca di metabolizzare il torrente di parole dentro la sua testa. Si sente inquieto. Bardeville e la nipote. Il morto nella stanza di pietra. La Fabbrica. Non ne conosceva la storia. Aveva chiuso quando lui era appena un ragazzino e, allora, il lavoro, nel tempo ovattato dell’adolescenza, non lo assillava di certo. Negli anni degli studi universitari, quando i suoi genitori erano ancora vivi, in salute, e Zeno continuava ad avere la testa altrove, i telegiornali parlarono brevemente del processo alla Fabbrica, del problema dell’amianto e di tutti quei morti.  Ricorda che persino in casa si minimizzò la cosa. Poi, dopo la Laurea, Zeno è tranquillo, convinto di avere davanti una vita in discesa fatta di scuola, poco lavoro, tre mesi all’anno di vacanze, ferie pagate. Una vita dorata da professore. Della condizione operaia gliene fregava poco. Dopo, quando tutto è precipitato, Zeno è intossicato dai suoi problemi per andare a rinvangare quella vecchia storia locale. Solo quando si trasferisce a Balzola ne risente parlare, ma il lavoro al centro commerciale lo assorbe al punto che, nelle poche ore libere, l’imperativo è spegnere il cervello e conservare le energie. Sa che lo scheletro della Fabbrica è lì, da qualche parte, oltre il bosco. Ora le parole del vecchio hanno aperto una breccia dentro di lui e costituiscono un nuovo peso dentro al petto.

Ora, però, Zeno sente che quelle parole cupe e rabbiose lo riguardano da vicino: lui e quegli operai crepati miseramente fanno parte del medesimo meccanismo. A ognuno di loro è stata tolta la possibilità di modificare il codice delle regole aziendali, lavorare in una condizione estrema (illegale) e non poterla modificare. Condizione estrema proprio perché aggredisce la consapevolezza di poter agire sul presente. Zeno (e gli operai morti) non possono, non potevano, cambiare il corso degli eventi. La loro obbedienza è (era) l’obbedienza dei cadaveri. La loro disponibilità è (era) quella dei cadaveri. Certi lavori disumani (certi modi di lavorare) pesano sull’anima. La schiacciano. La annientano. La flessibilità lavorativa e l’assenza dei diritti minimi li ha portati a rinunciare totalmente ad esercitare qualunque potere di dissenso. Profitto e potere, oggi come allora, sono altamente indifferenti alle sorti umane, al dolore e alla miseria delle piccole vite. E in quelle condizioni, con questa consapevolezza, che cosa resta di umano?

Zeno cammina nel bosco e, a ogni passo, si sente più grave. Nemmeno si accorge che è sera inoltrata e i boschi, i prati giacciono addormentati sotto la luce della luna. Non c’è un filo di vento. E le ombre degli alberi si fanno sempre più dense, aguzze. Più tardi, a casa, prova a dormire, a chiudere gli occhi. Lo aspetta una giornata tremenda al centro commerciale. Eppure il sonno non vuole graziarlo, costringendolo a ricorrere al sonnifero. A quel punto il sonno, chimico, denso, lo afferra. Per qualche ora soltanto. A un certo punto della notte solleva le palpebre, prova a muoversi e sente un forte dolore al collo, uno strappo muscolare, al punto da non riuscire a muoverlo. Sono solo le undici ed è notte. Con mille precauzioni, Zeno si tira su dal giaciglio, provando a non sforzare il collo. Si avvicina alla finestra e vede due ombre aggirarsi furtive per la piazza. Sono il vecchio e la nipote. Si avvicinano alle porte delle poche case. Li vede attaccare   qualcosa ad ogni portone. Zeno si accorge di essere ancora vestito. Il sonno  nuovamente svanito. Incuriosito scende giù nella piazza. Le due ombre sono già lontane e Zeno, appressandosi a uno degli usci segnati dal duo, scorge un manifesto mortuario appiccicato sul legno. L’annuncio è corredato da una fotografia in bianco e nero raffigurante un volto antico, dall’espressione fiera e grave. L’uomo è ritratto a mezzo busto e si intravede appena il vestiario, probabilmente una tuta da lavoro o qualcosa di simile. Zeno passa in rassegna i vari portoni delle abitazioni e scopre, per ogni ingresso, un manifesto analogo con una foto simile, sempre raffigurante degli uomini o delle donne in tute da lavoro. Una classe lavorativa morta da tempo, alcuni da trent’anni, altri da venti, e così via. Zeno è sempre più colpito. Vorrebbe chiedere al vecchio una spiegazione, così cerca di rintracciarlo. Li scorge oltre i bordi di un campo con l’erba così alta da sembrare il letto di un mare profondo. Non fa in tempo a raggiungerli e la coppia taglia dentro un campo di granoturco. Zeno accelera il passo ma sembra non riuscire a star loro dietro, i filari delle pannocchie gli sbattono come frustini sugli occhi, oppure gli si ingarbugliano tra i piedi facendolo inciampare in continuazione. A un tratto realizza di essersi smarrito, quindi prova a tornare indietro, ma qualunque riferimento sembra scomparso. Allora cerca di trovare gli orli del campo. I filari sono alti e fitti e quasi nascondono il cielo trapuntato di stelle. Zeno seguita a farsi largo con le braccia in quel labirinto vegetale e cerca di non perdere la calma: è solo un campo di pannocchie, non può essere infinito, prima o poi finirà, devo solo prendere una direzione e continuare fino a ritrovarmi fuori, si ripete ossessivo. E così accade: di colpo i filari smettono di ostacolarlo e lui si ritrova davanti alla Fabbrica. Una sagoma gigantesca a un centinaio di metri. Un blocco rettangolare di cemento, un blocco cupo, ostile, con le forme delle alte ciminiere a torreggiare sul paesaggio come corvi di malaugurio. La figura della Fabbrica non è un unico blocco compatto di nero; al suo interno si aprono degli spazi rettangolari, vuoti, che separano i vari piani dell’edificio. Attraverso quei vani si intravedono le porzioni di un cielo notturno meno compatto rispetto alle ombre del caseggiato. Zeno si ferma per sfilarsi le foglie dei filari dai capelli e dagli abiti e per scrollare gli insetti notturni rimasti impigliati e, per questo, non se ne accorge subito. Quando li nota, il suo cuore salta un battito e l’anima corre il rischio di scappargli via dal corpo per lo spavento. Nei vari vani della Fabbrica e sul tetto,  vede lo sfarfallio di alcune luci, forse delle torce, o dei fuochi. Poi le luminarie si attenuano per rivelare la presenza di una moltitudine di sagome umane, le quali se ne stanno immobili, con le braccia attaccate ai fianchi, proprio come ha detto Ottavia. Le figure sembrano voltate nella sua direzione, ma non può distinguerle. Zeno avverte nuovamente la gelida brezza del terrore scompigliargli i capelli e tamburellare lungo la spina dorsale. E dopo il terrore violento e immediato, sopraggiunge la lenta, narcotica paura, lo spaventoso panico ancestrale che si genera quando la coscienza acquista la consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa che non può spiegare e ridurre in alcun modo a qualcosa di razionale. Zeno percepisce, in quei brevi istanti notturni, i confini del suo vecchio mondo e si affaccia su un nuovo territorio abitato da presenze invisibili e in conoscibili. Incapace di fronteggiare quella nuova epifania, corre via, a perdifiato. Prende la strada conosciuta del bosco e ritrova il sentiero. Attorno a lui l’aria si riempie di ululati che rovinano la quiete notturna e lacerano le orecchie. Zeno inciampa e ruzzola nel terriccio umidiccio del sottobosco. I latrati sembrano avvicinarsi. Si solleva il vento e scuote le pinne degli alberi. Lui si rimette in piedi e riprende il cammino, questa volta senza correre. Sente la notte premere ostile verso di lui, quasi a volerlo schiacciare…

 

Ecco cos’è… è la morte che viene, da tempo si è messa in cammino per ciascuno di noi… certe notti la sentiamo venire ed è il vento a portarla…

 

E’ Zeno a pensare una cosa simile? O a immaginare di sentire queste parole? Le sue gambe, dopo la caduta, si sono indurite e anche camminare gli risulta difficoltoso. Il vento non recede e infiamma la massa scura del bosco. Forse è il vento che ha portato quelle parole. Forse è il vento che ne porta delle altre, le avvicina alle sue orecchie il tempo necessario che lui possa udirle, infine le disperde nell’aria…

 

Su tre turni. Turni di 8 ore.

Sì.

Quindi tutto il giorno?

Il giorno e la notte, sempre. 24 ore su 24. Sì. Montagne di detriti, di scarti, polvere…

 

La mettevo sotto il mulino, tiravo la cinghia per riempire i sacchi. Era un attimo e mi sembrava di morire. C’era calore e umidità, era dura, non avevamo le maschere e il capo servizio rideva. La polvere…

 

Non mi hanno mai detto che c’erano dei rischi. Ci dicevano state tranquilli che, non fa male, state tranquilli. Pensate ai vostri bambini. Lavorate per loro, per il loro futuro. Mi dicevano che non era dannosa. Si pensava alla polvere, all’asbestosi, non al mesotelioma…

 

Come un serpente rispetto a una biscia. Si vede che innesca più facilmente il mesotelioma. No, non ho mai pensato che fosse pericoloso. Non all’inizio. L’Azienda ufficialmente mai. Si sentiva in giro. Colleghi tra colleghi si parlava. Però non si dava importanza, si aveva paura di perdere il lavoro. Si diceva che l’amianto fa venire il tumore. No, no, nessuno sapeva. Sono notizie che girano sulla bocca di tutti. Ma si aveva paura di loro. Se ne fregavano…

 

Non portavamo maschere. Si, la polvere si vedeva fisicamente nell’aria. Non perché era faticoso, per la polvere. Si inforcava l’amianto blu con una forca. Tante volte magari era bloccato sopra, bisognava andare dentro, muoverlo con le mani per farlo venire giù. Erano vecchi operai che. Stai attento! Quando fai certi lavori non respirare questa cosa che è nociva. Balzola era lo stabilimento più vecchio, quindi quello più in difficoltà. Più in difficoltà perché era quello che aveva i problemi più vecchi…

 

Balzola è deserta. Non una luce brillava dalle finestre sprangate. Zeno passa davanti a quei simulacri di abitazioni. E’ stato il vento a spingerlo fuori dal bosco, a fargli ritrovare la strada, a riportarlo sull’uscio di casa sano e salso. A farlo stendere sul suo letto. Zeno sente il collo pulsare. Il dolore è aumentato. Le voci sono svanite assieme al latrare dei cani. Al loro posto i rauchi rintocchi della campana. Solo che fuori, nella notte, non c’è più turbine d’aria. Zeno precipita nella fossa del sonno e gli sembra di distinguere il viso di Bardeville che lo spia da dietro la finestra del secondo piano. Bardeville è livido, pallido come il marmo. Poi si ritrova a casa del vecchio, nella stanza di pietra apparecchiata da lumini da morto e, al centro, un feretro su un catafalco di velluto. Zeno si avvicina al baldacchino e getta uno sguardo esitante all’interno, sulla gelida bellezza di Marialé, morta, con le mani conserte sul petto e una veste di raso e una cuffia bianca di cotone grezzo a coprirle i lunghi capelli biondi. Pur nella bellezza della morte, la ragazza ha qualcosa di terribile, persino magnetico. Zeno non riesce a smettere di spiare quei lineamenti. I minuti e le ore passano. Lui è solo col catafalco nero, i ceri che ardono fiochi. A  un punto della notte, da sotto una ciglia della defunta, scende, rotola, una goccia, una lacrima scura di sangue. Prima una lacrima, un rivolo, poi rigagnoli copiosi anche dalle orecchie, dalle narici batuffolate. Il catafalco si allaga di liquidi putrefatti. Le candele riverberano la luce arrossata e ondeggiante. Quasi dei piccoli soli riflessi sulla pietra nuda. Zeno indietreggia stravolto. Gambe e braccia fradice di terrore. Allora la morta si leva di scatto dalla bara. Si mette seduta. Lui comincia a urlare e balza all’indietro, eppure non ci sono vie di uscita. La morta spicca un balzo fuori dal catafalco e si libra a mezz’aria come una libellula. Dalla bocca manda sibili e la lingua le esce come la coda di uno scorpione. Anche gli occhi, non più bianchi, hanno le pupille verticali come le serpi. Zeno si sfrega le palpebre e si rannicchia in un angolo della pietra a pregare il Signore. L’aria vibra di centomila ali d’insetto, un frusciare di vetro legnoso. Zeno si segna con la croce. Poi l’ora brutta passa in un baleno. Nel dormiveglia percepisce appena un raspare sordo, come se una cagnaccio raspasse alla porta per entrare.

Al mattino si passa una mano sul viso, come per scacciare le ultime briciole di sonno. Le membra sono stanche, si rifiutano di obbedire. Lui le ignora, fa tutto quello che deve fare, si lava, si veste e allora tutte le cose straordinarie del giorno prima e tutta la folle inverosimile notte, con le sua assurde avventure, appaiono come un delirio causato dalla fatica accumulata, dallo stress, insomma come una disfunzione momentanea dell’immaginazione, un ottenebramento della mente, non certo fatti che possano avverarsi. Con l’anima sgravata, guida fino al centro commerciale e si infila la divisa. Fa la solita girandola di mansioni: magazzino, corsie, banco dei salumi, cassa. Lui prova a stare al passo, ma le ore di sonno perdute lo rallentano parecchio. Nessuno però lo riprende. Pare che tutti gli stiano alla larga, come se fosse il portatore di una strana malattia. Intravede Giancarlo e Ambra e loro nemmeno lo salutano con un cenno. Mancano pochi giorni alla fine del suo contratto e ormai è sicuro di essere silurato. Il suo tempo nel centro commerciale è finito. Lui lì è un fantasma. Invisibile. Le ore continuano a scorrere in modo inverosimilmente lento. Finalmente giunge il tardo pomeriggio e Zeno finisce il turno. Torna a Balzola. La strada statale per arrivarci è un filare di paesi sepolti dalla caligine e campi orizzontali. Ovunque desolazione e polvere. A Balzola il ronzio dei mosconi e delle api è l’unico rumore. Zeno chiude l’auto e prova un brivido di vertigine. Si sente così sbattuto e privo di appetito da preoccuparsi. Aldilà degli incubi c’è un malessere che gli cresce dentro il petto, una vera malattia maturata negli ultimi mesi di sfruttamento. Una malattia che incomincia a germogliare sotto la forma di gelidi fiori di rassegnazione. Depressione? Stress? Zeno controlla l’ora, forse fa ancora in tempo ad acchiappare il suo medico della mutua. Risale in macchina e si dirige nel paese accanto, alla casa dove c’è lo studio. La saletta è affollata di vecchine sdentate con la faccia da prugna e il fazzoletto in testa. Le vecchine ciarlano a bassa voce tra loro in dialetto e non gli badano. Zeno si siede, rassegnato a una lunga attesa. Improvvisamente entra Ottavia e sorride giuliva prendendo posto accanto a Zeno.

Che ci fai qui?

Oh, niente, un torcicollo. Mente, si vergogna a dirle che è lì per farsi prescrivere degli psicofarmaci. Dei sonniferi potenti. Lei però non ci casca.

Zeno, tu devi lasciare quell’inferno. Ogni giorno che passa sei sempre più magro. Hai delle occhiaie da zombi.

Non c’è problema, a farmi sloggiare ci pensano già loro.

Come?

Da un’altra parte intendo.

E cosa cambierebbe? Ottavia lascia cadere il discorso. Hai sentito la notte scorsa?

Cosa?

I cani.

Quali cani?

I cani dei dintorni. Li sentiamo dappertutto nel bosco. Gaspare è andato a vedere. Dice che a Balzola c’erano mucchi di randagi riuniti davanti alle porte. Raspavano per entrare, ringhiavano. Facevano un baccano.

Zeno si morde le labbra e finge di cadere dalle nuvole.

No, io non ho sentito nulla. Dormivo.

Beato te. Noi non si è chiuso occhio.

Rimangono alcuni attimi zitti e acchiappano al volo alcune frasi smozzicate delle vecchine. Sembrano agitate e nervose per qualcosa, alcune agitano le mani e si fanno in continuazione il segno della croce.

Che hanno queste mummie? Proferisce Ottavia.

Le ascoltano un pochino e ricavano un racconto alquanto strampalato. Le befane vociano su alcuni fatti accaduti nei dintorni di Balzola. Masse scure di mosche accalcate alle finestre. Troppa gente morta all’improvviso, senza le avvisaglie di alcuna malattia. Certo, quasi tutti erano anziani, ex capoccia della grande Fabbrica. Ogni volta che si riferiscono a quel posto, le donnine  tracciano il segno della croce, come per allontanare qualcosa di maligno. Altre borbottano di certi episodi, gente che prima di morire misteriosamente ha piaghe nella carne, piaghe che buttano dei lunghi vermi bianchi. Altri hanno perso sangue dagli occhi. E poi c’è il fatto delle bestie. I cani che abbaiano, le campagne infestate dai randagi. Pare che a Balzola i pochi sopravissuti vivano asserragliati in casa. Hanno paura di uscire. Ogni volta che aprono la porta, la morte potrebbe entrare a prenderli. Ottavia ascolta tutte quelle fole e cerca di trattenere la ridarella. Sgomita verso Zeno e lui rimane pensieroso. Segretamente spaventato da ciò che immagina di aver sentito la notte precedente. A un certo punto, un pensiero più folle degli altri lambisce la sua mente. E’ solo colpa dello stress, ne è sicuro. Le veglie, la Fabbrica, le voci, tutto un prodotto del suo stato d’animo, del momento difficile che sta attraversando. Comunque sente il bisogno di levarsi quell’idea dal capo.

Senti Ottavia, volevo chiederti una cosa.

Sì.

Avete visto Bardeville in giro?

Chi il vecchio?

Sì.

No.

E la nipote?

Quale nipote?

Marialé.

Te l’ho già detto, Zeno. Che io sappia il vecchio non ha nessuno. Vive solo in una vecchia casa vicino al camposanto.

Lo so. Ci sono stato. E c’era la ragazza.

Strano allora. Noi ci siamo stati alcune settimane fa. Volevamo vendergli la marmellata di more e ci ha fatto entrare, ma era solo.

Si vede che era uscita.

Non hai detto che è cieca?

Sì. Forse è passato a prenderla un amico.

Sarà così.

L’attesa dura un’oretta, durante la quale le vecchine si alternano a raccontare ciascuna la sua, infine tutta la compagnia mette giudizio e si accorge di aver cianciato anche troppo, perché fuori è quasi notte. Viene finalmente il turno di Zeno. Il dottor Boggi gli prescrive del Tavor e dell’Ansiolin. Ora, anche lui, come tanti colleghi, affida ai farmaci il compito di chiudere gli occhi.

(4 – continua)

Davide Rosso