Studiare i Dracula…
I Dracula sono stati una collana editoriale incredibile, quantitativamente interessante, sintomo di un benessere economico che allora era al suo massimo. Purtroppo il fantastico italiano (salvo rare eccezioni d’autore) non aveva passaporto e registi, disegnatori e scrittori dovevano nascondersi sotto pseudonimi ridicoli. I Dracula furono scritti da persone che, per differenti vie del destino, arrivarono a proporsi all’editore e non necessariamente furono dei cultori del genere, dei profondi conoscitori e lettori di quei meccanismi che, sempre allora, sugli schermi, stavano vivendo la loro unica irripetibile stagione. Tra i Dracula e il cinema non vi è una vera e propria osmosi (differente, stando agli studi di Vacchino, la situazione coi KKK); gli scrittori horror dei Dracula sono dei piccoli borghesi interessati ai soldi facili, uomini in carriera con famiglie alle spalle, tutto fuorché degli autori. Tra loro vi sono poche eccezioni. Alcune lunari. Per il resto si tratta solo di lavoro mercenario, da fare in fretta e alle piccole ore, tirando via le pagine senza crederci troppo. E’ sintomatico che questa gente abbia preferito farsi dimenticare, di non vedere il proprio nome accostato a quei volumi immondi da edicola. Tuttavia lo studio della letteratura è un sapere aristocratico, slegato dalla materialità del contesto di produzione da cui quei contenuti si sono generati. Per questo, a tanti anni di distanza da quell’editoria piratesca e truffaldina, ci restano migliaia di pagine semi anonime, povere d’ingegno e di finezze letterarie, abbandonate a loro stesse.
Le trame dei Dracula sono dei gotici stanchi, già vecchi in quei ’60, impoverite da una resa letteraria sciatta e ciarliera, con dialoghi buttati sulla pagina tanto per riempire velocemente lo spazio. La foia sessuale che anima quelle marionette serve solo per attirare un lettore beone ed ignorante, uno che andrà poco oltre l’immagine di copertina. Oppure una letteratura a buon mercato per i figli dei contadini, per i giovani del nascente ceto medio. Il cinema gotico italiano degli anni ’60, pur partendo dai rimasugli di un melodramma facilone e passatista, abbinavano l’ingegno visivo e le sperimentazioni formali degli autori più validi. Inoltre, nel corso degli anni ’70, quando i Dracula prenderanno una lunga parabola discendente fatta di ristampe e oscuri tentativi di aggiornare le proprie formule rincarando le dosi di sesso e violenza, il cinema horror saprà cercare strade alternative, trovando anche una sua cifra d’autore in pellicole di Risi, Bene, Brocani, Scola, Albertazzi, D’Anza, cosa che comunque non lo salverà. Con la fine degli anni ’70 anche gli ultimi scampoli del gotico finiscono per morire. Negli anni ’80 e a venire ci saranno solo delle meteore, delle pepite. Per questo recuperare una collana ventennale come i Dracula è quasi un obbligo accademico, un modo per ricontestualizzare il decorso del fantastico nel nostro paese.
Per tornare alle fonti e alle ispirazioni è difficile dire qualcosa di definitivo.
Gli autori, negli anni, hanno rilasciato poche e confuse dichiarazioni. Oggi sono tutti sepolti e ogni tanto Bissoli tira fuori dei documenti agghiaccianti, come quello di Samale massone paraculo & taumaturgo. Credo che quella gente avesse letto poco e male il german o il supernatural americano, ma nelle loro pagine affiorano solo trame confuse, riempite dagli amplessi di vampire puttanesche da poche lire e sembra che uno come Lovecraft (tanto per fare un nome) non sia mai esistito. Le ricostruzioni del Medioevo sono fatte col culo. Aleggia ovunque un sapere superficiale, che attinge agli oroscopi in fondo ai settimanali e alla superstizione paesana più becera e qualunquista. Più che al conte Dracula e ai vari vampiri, i non-morti degli scrittori di Dracula rimandano a quel sottomondo folklorico dei vampiri polacchi, tedeschi, greci, di cui certe indagini sul vampirismo ci hanno reso edotti. Quindi? Tempo perso. Soldi buttati. Non completamente.
I Dracula porteranno con sé l’eterna sensazione di una scommessa mancata, una scommessa comunque tentata. In quella selva di pagine ormai frolle, si levano ancora squarci a tratti riusciti, certe volte persino geniali. Alcuni scrittori, in certi momenti della loro carriera di scribacchini, hanno trovato un precario equilibrio tra le esigenze basse di mercato e la loro fantasia, forse persino il loro inconscio.
E’ il caso di Sveno Tozzi, alias Doug Steiner, autore di pochi fecondissimi Dracula. Ne vediamo uno. Poche righe. L’amante del loculo tre, titolo del 1961.
Ecco. Questo libro potrebbe essere un paradigma. Da una parte di quello che i Dracula sono stati: trama confusa, scrittura veloce, senza fronzoli, un insistere sulle pulsioni basse e volgari del lettore, allora ancora parecchio depresso e desideroso di necrofilia e incesti d’ogni tipo (oggi è bastato you porn per tumulare questa narrativa, questi generi, questi lettori impotenti).
Da un’altra parte L’amante del loculo tre rappresenta tutto quello che i Dracula non sono mai stati: Tozzi (uomo – e qui fa bene Bissoli a ricostruire i lacerti d’un’esistenza – inquieto e inquietante, senza un lavoro fisso, roso da un randagismo esistenziale che è la stigmate d’un vero artista, un po’ giornalista, aviatore, giovane fascista, poi narratore, editore di una delle prime riviste di fantascienza italiane, di nuovo militare per cercare di agguantare una pensione e morire di ictus cerebrale) credo amasse molto la fantascienza, infatti contamina i suoi lavori con questo genere. La sua però è una fantascienza che non s’è mai vista.
L’amante del loculo tre è un romanzo horror che inizia con una scena necrofila molto suggerente, poi però diviene tutt’altro. Si parla di soglie, dimensioni oniriche a cavallo della veglia, scatole cinesi una dentro l’altra; quando si muore, o si sogna di morire, è come se si scivolasse da una di queste scatole a un’altra. Riassumere il romanzo è praticamente impossibile. Tozzi sembra quasi creare una sua via narrativa al genere, qualcosa che percorrerà brevemente solo il Samuel Beckett fantascientifico de Lo spopolatore, coi suoi alveoli, così simili alle ombre allineate che compaiono in quell’altro delirio senza paragoni che è Femmine dell’al di là (I racconti di Dracula, giugno 1960) coi suoi personaggi burattino sfuggiti ad una pièce di Ionesco e una trama semi soporosa che mescola hard boiled, spiritismo e necrofilia; ne L’amante del loculo tre convivono le pulsioni gotiche più frenate (la necrofilia, l’eterno ritorno, la reincarnazione, i sepolti vivi, i vampiri psichici) con una dissoluzione della trama e della lettura stessa che sconfina nel romanzo sperimentale, tanto che il libro si chiude senza chiudersi, all’inizio di una fantomatica parte quarta che nemmeno esiste e non è mai stata scritta.
L’effetto paradossale è quello della mano che disegna se stessa in Escher; anche noi lettori abbiamo l’impressione di essere parte del romanzo, larve spettrali di una realtà psichica dissolta dalla morte, ombre in attesa di risvegliarci chiusi dentro le ruvide pareti di una cassa di pino. Da solo, con questo libro, Sveno Tozzi sembra portarsi sulle spalle l’intera collana dei Dracula, consegnandola nelle mani, negli occhi, nella mente di un lettore odierno. Quasi a suggellare l’ennesima confusione tra sogno e realtà.
(8 – continua)