Stesso impasto dei lavori precedenti dei Dracula per L’ululato del lupo mannaro, un Graegorius del 1966, splendidamente ambientato in una Serbia calata in superstizioni e leggende vampiresche, zingaresche, mescolate più che altro con suggestioni visive prese in prestito dal cinema, senza far riferimento a un film particolare (anche perché la grana di questi romanzi sembra anticipare quella terrea e necrofila del gotico spagnolo, in particolare le pellicole sulla licantropia con Paul Naschy a farla da padrone).
(Ho scritto e ho salvato, un po’ dopo ho sentito una certa insoddisfazione verso quei volumetti, forse un naturale fastidio dopo avervi trascorso un mese intero di letture; da qui il bisogno di aggiungere – senza rileggere la parte precedente – queste righe, credo confondendo, la lettura complessiva del lavoro…)
In realtà è difficile tirare le fila del discorso sui Dracula.
Recentemente è uscito un volume che è destinato a fare la storia negli studi sul fantastico italiano: si tratta di Il fantastico italiano, bilancio critico e bibliografia commentata (dal 1980 a oggi), le Monnier Universitaria, 2016, un volume mastodontico e praticamente perfetto, curato da un gruppo di studiosi, da tempo interessati a questo campo. A capo del progetto Stefano Lazzarin, docente di letteratura in Francia.
L’opera, come dice il sottotitolo è un compendio critico su quanto è stato scritto e detto dalla critica sulla letteratura fantastica italiana. Il volume si occupa prevalentemente di letteratura alta e non di paraletteratura. Comunque la chiarezza e la precisione dell’opera diverranno fondamentali per tutti noi, professionisti e dilettanti come il sottoscritto.
Leggendo le quasi mille pagine del testo, si ricavano alcuni dati molto interessanti.
Anzitutto gli studi dedicati al fantastico italiano sono recenti, anzi recentissimi. Sulla spinta dei lavori di Todorov negli anni ’70 si assiste ad una ripresa dell’interesse critico verso il genere. Lo spartiacque è un doppio volume a cura di Ghidetti & Lattarulo, Notturno italiano, edito nel 1984. Questi due volumi riprendono e rilanciano i lavori critici di Italo Calvino (il quale a sua volta aveva approntato l’anno precedente per Einaudi un’antologia di racconti fantastici dell’800, senza includere autori italiani). Le considerazioni espresse da Ghidetti & Lattarulo nelle introduzioni ai due volumi contribuiscono a una formazione di un canone critico che durerà fino agli anni 2000. Il canone degli autori antologizzati taglia fuori la paraletteratura, di cui forse non se ne sospetta nemmeno l’esistenza. Gli scrittori presi in considerazione privilegiano un fantastico colto, da letteratura alta, controllata, lucida, ironica: tra i prosatori abbiamo Tarchetti, Faldella, Boito, Verga, Fogazzaro, Capuana, Svevo, Papini, Soffici, Tozzi, Marinetti, Pirandello, Landolfi, Buzzati, Tomasi di Lampedusa, Calvino, ecc. Solo a scorrere questi nomi si capisce che siamo su altri piani rispetto a un Graegorius.
Il problema è che questi primi (splendidi) lavori di studio degli anni ’80 sono completamente all’oscuro (o fingono di esserlo) della valanga di paraletteratura presente anche nella nostra editoria. Ghidetti & Lattarulo, come Calvino, vedono un ritardo del fantastico italiano rispetto alle letterature europee dell’800. La letteratura di massa nel nostro paese sembra non esistere.
Studi successivi (e recenti appunto) hanno aperto un campo d’indagine fecondo e inesplorato, dimostrando, carte alla mano, che la letteratura di massa invece c’è e che anche un altro fantastico è possibile. Bisognerà aspettare i lavori di studiosi come De Turris, Lippi, Giovannini e soprattutto Claudio Gallo e Fabrizio Foni col loro Ottocento nero italiano (Aragno, 2009) e del solo Foni il seminale Alla fiera dei mostri – racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899 – 1932 (Tunué, 2007), per aprire gli scrigni di certa letteratura popolare d’avventura, fantascientifica e horror uscita su riviste popolari come La Domenica del Corriere, Per terra e per mare, Giornale illustrato di Terra e di Mare e via dicendo, a testimonianza del fatto che, con gli effetti della diffusione di una certa stampa di massa vi è l’esigenza di fornire letture più immediate, avvincenti che puntano sugli effetti sensazionali, le iperbole e le esagerazioni, piuttosto che sul gioco dell’intelletto o la psicologia. Insieme al fantastico colto di Calvino e ai rimasugli stilistici della scapigliatura e del positivismo italiano, o al surrealismo di certi scrittori italiani (Palazzeschi, Savinio, Landolfi, ad esempio) convive un lungo laboratorio letterario che non ha avuto timore di confrontarsi con quanto si andava facendo nella lingua francese o inglese. Queste testate hanno rappresentato una palestra per scrittori professionisti e non, alle prime armi o di passaggio, un po’ come avveniva nei pulp magazine d’oltre Oceano, penso soprattutto a Weird Tales, la rivista su cui pubblicava Lovecraft negli anni ’20 e ’30 del ‘900.
Approfondendo le letture, mi è parso che la linea del fantastico degli scrittori alti ha una sua coerenza e tradizione e cade sicuramente sotto la definizione di “fantastico”, difficile e sfuggente da definire. Non entrerò nella questione, non ne ho le competenze e ci siamo dilungati già troppo. Voglio dire però che la paraletteratura, pur rientrando, probabilmente, in una definizione “espansiva” di fantastico, è contraddistinta da motivazioni e risultati antitetici. Mi pare che tra Landolfi, Delfini, Bontempelli, Buzzati, Calvino, Savinio e gli scrittori dei Dracula vi sia molto poco in comune.
Tempo fa ho scritto uno dei miei primi articoli di studio su queste collane, proprio confrontando gli scrittori mainstream coi vari Graegoius e Max Dave. Oggi non lo rifarei. Credo ci si ricavi poco. Gli scrittori dei Dracula non erano dei letterati, non scrivevano per piacere o gusto intellettuale, ma per denaro. Erano dei mercenari e molti di loro non avrebbero proseguito la carriera nelle patrie lettere. Inoltre si alternavano da un genere all’altro, a seconda delle richieste dell’editore, barone siciliano e fascista interessato al grano. Quello che voglio dire è che tra un Graegorius e un Savinio l’abisso c’è non tanto per i risultati differenti delle loro opere, quanto per le intenzioni che li muovono.
Ad infastidirmi dei narratori dei Dracula è il loro disinteresse evidente, la distanza e il distacco tra quello che scrivono e i loro interessi professionali. Ad infastidirmi è l’atteggiamento di disprezzo che hanno avuto nei confronti del loro lavoro, liquidato come una marchetta, un modo per racimolare denaro facile. In questo, i miei articoli di questi ultimi anni (pubblicati a strati sulla Zona Morta e La Soglia Oscura) hanno voluto contribuire ad avanzare gli studi su un fenomeno letterario praticamente sconosciuto, su cui, i primi ad aver posato il loro occhio sono stati Domenico Cammarota e Fabio Giovannini negli anni ‘80 (e non come si pensa Bissoli, il cui lavoro, come ho già detto, è più una autobiografia narcisistica fine a se stessa e risale, mi pare, nella prima edizione al 2007).
Il lavoro encomiabile di Foni è del 2007 e indaga quei racconti (più che romanzi) legati all’esperienza editoriale delle riviste di fine ‘800 e primi del ‘900. Da allora ho voluto imitarlo (coi miei limiti e prospettive non accademiche, sia chiaro) quello che è venuto dopo, ossia l’editoria degli anni ’60 e ’70, quella del boom economico italiano, concentrandomi soprattutto sul genere gotico/horror e le collane dei KKK e dei Dracula. Perché già tra quei narratori dei primi del ‘900 e quegli degli anni ’60 mi pare di rinvenire delle differenze sostanziali. Non tanto nel contesto commerciale che è all’origine dei testi e nemmeno poi tanto nei fruitori, quanto nello stupore, un gusto genuino, un amore per la materia fantastica (lo ripeto, uso il termine volutamente in modo generico per semplificarmi il discorso) che in quelli successivi appare molto meno.
Anche la qualità dell’artigianato degli scrittori dei primi del ‘900 mi sembra più alta, con un gusto, un piacere per la storia e la messinscena che nei Dracula è praticamente assente; nei Racconti di Dracula le ambientazioni sono piatte, da cartolina, ripetitive fino alla noia, chiuse in un unheimliche culturalmente superato, retaggio di un melodramma da fumetto, di un gotico (perché poi i Dracula questo sono, dei gotici, un genere a mio avviso differente, da distinguere rispetto al fantastico colto del ‘900) lontano dai canoni nordici e maggiormente vicino all’ossessione funebre e cadaverica, leitmotiv forse prelevato dalle conoscenze scolastiche degli autori, reminiscenze della scapigliatura italiana, riletta in tono minore e in modo pruriginoso.
In definitiva I racconti di Dracula hanno delle formule ripetitive fino alla noia e raramente escono da un fantastico imbalsamato che ha poco anche sul piano delle influenze col cinema dell’orrore di allora. Non ha nulla del modello inglese (e se è quella l’influenza commerciale di partenza, vi è poco altro) e poco di quello italiano, da cui si discostano (e con questo smentisco in punta di piedi quello che diceva appunto Giovannini nel lontano ’97 nel suo Libro dei vampiri: “narrativa popolare in pieno debito con il cinema, di cui saccheggiavano trame, idee, riferimenti culturali”) sia nelle trame che nella sintassi.
Il gotico italiano cinematografico è quasi sperimentale, anti-narrativo e, nei punti più elevati, colto (penso a Mario Bava, ai testi spesso spiazzanti che soggiacciono al suo cinema); i Dracula su carta hanno un manierismo piatto e orizzontale che plagia, più che le storie sul grande schermo, un substrato generalista di folklori e luoghi comuni di un ruralismo becero e ignorante. Raramente questi scrittori pulp si discostano dal banale, spingendo su un revival gotico realmente autoctono; quando lo fanno sono eccezioni lunari, penso alla parabola di Doug Steiner, autore come si è visto anti-narrativo e originalissimo all’interno della collana, capace di ibridare le sue storie horror con venature fantascientifiche, in linea con quanto si andava traducendo della narrativa anglo americana con l’Urania Mondadori.
Mi pare vi sia ancora poco altro da dire. I Dracula sono stati un’esperienza importante dal punto di vista quantitativo, una massiccia produzione di romanzi gotici, un genere che, ancor più che il fantastico ha attecchito con difficoltà nel nostro paese, trattandosi di un genere meno moderno dell’horror e meno sfaccettato rispetto fantastico. A monte dei Dracula potrebbe esserci il Verga del castello di Trezza, il Guerrazzi della Beatrice Cenci, un po’ di Boito, Tarchetti, giù giù fino al Manzoni dei Promessi Sposi e ancora, a sentire Vittore Branca, certi echi tardogotici e fiabeschi nelle tradizioni dei cantari pre-ariosteschi.
(11 – fine)