BLACK MIRROR

Viaggiava in auto, avvolto dalle nebbie. Il pomeriggio era nel pieno della sua vita: quell’apice che precede il declino nel crepuscolo. Il sole, tuttavia, si negava agli occhi, vestendosi di foschia. La coltre novembrina abbracciava l’automobile con soffice delicatezza; pigramente, la colorava del medesimo grigio di cui l’ambiente era tinto, e accarezzava la vernice metallizzata con algide dita affusolate.

L’uomo guidava e ascoltava musica, mentre l’asfalto nero scompariva sotto le ruote: buche, crepe e rattoppi si susseguivano sulla strada mal curata, rendendo il tragitto sconnesso e costellato di percosse sulle sospensioni.

Lo stereo liberava note eterogenee: un susseguirsi di brani acustici intervallato da pezzi più aspri e cupi, mentre il guidatore posava lo sguardo ora sullo specchietto, ora sulla strada oltre il parabrezza. Una buona guida comporta una costante verifica, sia di ciò che ti attende di fronte, sia di quanto ti lasci alle spalle.

Uscito da una curva leggermente chiusa, rimise la sesta, accelerando rabbiosamente, mentre la macchina prendeva l’ultimo tratto della corda prima di reimmettersi su un lungo rettilineo. Il motore ruggiva e l’uomo stringeva le mani sul volante con forza, facendo sbiancare le nocche. Osservò nuovamente il retrovisore, scorgendo una forma scura nella nebbia: un’immagine indistinta, ma via via sempre più intensa e opprimente. Accelerò d’istinto, senza sapersene spiegare il motivo. La forma riflessa nel cristallo rimaneva indistinguibile, forse a causa della nebbia che si addensava, ma continuava ad avvicinarsi. Doveva andare molto forte. Non emetteva luci, ed egli si chiese chi fosse così idiota da girare a fari spenti in mezzo a quel gelido nulla. Un’ondata di angoscia prese ad assalirlo, man mano che la figura nello specchietto diventava più grande, senza tuttavia rivelarne ancora le forme. Accelerò. Il motore cantava insieme allo stereo, sempre più forte, spingendo la vettura più velocemente.

La figura continuava ad avvicinarsi, sempre più grande, sempre più ingombrante nel retrovisore. Accelerò ancora, ma invano: era ancor più vicina, e l’angoscia cresceva di pari passo. Il motore ora urlava, quasi soffrendo per lo sforzo, come un cavallo spronato a morte. La figura era lì, attaccata, la vedeva riempire ogni spazio dello specchietto. Il cuore martellava forsennatamente nel petto, rivoli di sudore freddo colavano dalle tempie pulsanti. Il respiro affannoso lo faceva sussultare.

Con gli occhi dilatati dal panico, si avvicinava alla curva, senza rallentare. La morsa di angoscia cresceva ad ogni millimetro divorato dalla figura nello specchietto: il cristallo era diventato una lucida lastra d’ebano. La curva si faceva sempre più vicina, resa sinistra dalla folle velocità. Nessun cenno di rallentamento, non poteva: la figura nello specchietto lo avrebbe preso.

Accelerò ancora, portando il contagiri al limite. il motore strillò di dolore nell’istante preciso in cui la vettura uscì dal nastro nero, tracciando una tangente che s’infranse in un vortice di lamiere, plastiche e vetri sbriciolati in numerose capriole.

Il retrovisore era volato a bordo strada, spezzato in più punti. Riflesse ancora per pochi momenti la figura ammantata, la quale, superato quanto rimaneva della vettura e del suo conducente, si allontanò con improvvisa lentezza, quasi sazia, sparendo nelle torbide nebbie della campagna.

Matteo Manferdini

In sottofondo: Iron Maiden – Dance of Death