Nel 2016 Le Monnier Università ha editato un volume mastodontico e indispensabile per chiunque si interessi di letteratura fantastica. Si tratta di Il fantastico italiano, bilancio critico e bibliografia commentata (dal 1980 a oggi), a cura di Stefano Lazzarin, Felice Italo Beneduce, Eleonora Conti, Fabrizio Foni, Rita Fresu e Claudia Zudini (insomma un team di docenti universitari e di Liceo). Il libro (di ben 986 pagine) è una summa critica su quanto si è scritto sulla letteratura fantastica italiana, in pratica una critica della critica. Tra i tanti meriti del volume vi è quello di tracciare una lineare e chiara storia delle teorie letterarie dedicate a questo genere. Nel leggere il bel saggio introduttivo di Stefano Lazzarin (a capo del progetto) “Trentacinque anni di teoria e critica del fantastico italiano (dal 1980 a oggi)” le sorprese non mancano: anzitutto il dibattito italiano sul fantastico ha origini recenti. La data precisa è il 1970, quando viene pubblicato Introduction à la littérature fantastique di Todorov, imprescindibile contributo che rinnoverà gli studi letterari sui generi.
In Italia i primi dibattiti nascono sulla scia di questo lavoro e appaiono nel 1971, ma è ancora poca roba. Lo spartiacque sono due antologie letterarie, una curata da Calvino nel 1983 per Mondadori, intitolata Racconti fantastici dell’Ottocento, l’altra del 1984 a cura di Enrico Ghidetti & Leonardo Lattarulo, il Notturno italiano della Editori Riuniti. In entrambi i saggi introduttivi a questi lavori le ipotesi sono le stesse, ossia che la paraletteratura in Italia sia assente o ininfluente e che i pochi esiti ascrivibili al fantastico siano quelli di un manipolo di scrittori alti, mainstream (nei due volumi del Notturno italiano, trovano spazio Tarchetti, Boito, Luigi Gualdo, De Roberto, Capuana e soprattutto autori novecenteschi come Svevo, Papini, Tozzi, Marinetti, Pirandello, Morovich, Buzzati, Savinio, Moravia, Vigolo, Palazzeschi, Landolfi, Tomasi di Lampedusa, Calvino, Soldati, Primo Levi).
Prima di Calvino e di Notturno italiano, ad occuparsi di questi argomenti era stato il critico Gianfranco Contini con l’antologia in lingua francese Italie magique, ristampata anche in Italia nel 1988, quindi dopo i contributi fondativi di Calvino e Ghidetti/Lattarulo. Il canone (1) che esce da questi tre contributi è quello di un racconto fantastico lontano dall’escapismo, dal puro intrattenimento per le masse; gli autori antologizzati nelle tre antologie appartengono alla letteratura mainstream, risultano espressivamente validi, controllati, lucidi, ironici. Ma, se l’antologia di Contini appare come una risposta al surrealismo francese e una scommessa su quanto sarebbe sopravvissuto della narrativa del ventennio fascista, le sillogi di Calvino e Ghidetti/Lattarulo sanciscono l’assenza in Italia di un artigianato letterario, equiparabile a quello da cui, all’estero, sono usciti autori come Lovecraft, Jean Ray e Stephen King.
In qualche modo, fino agli anni 2000, per la critica, il fantastico sembra essere appannaggio esclusivo di una letteratura aderente al vero e ai principi della ragione, portatore di un’utilità civile e morale e non solo di intrattenimento. Il fantastico ha avuto una storia breve e un peso quasi ininfluente, tanto che Calvino, nella sua antologia mondadoriana, non include alcun autore italiano.
Prima di questi studi vi era stata l’antologia di Gilberto Finzi Racconti neri della scapigliatura (Mondadori, 1980), che aveva riacceso i riflettori sulle correnti scapigliate dei vari Arrigo e Camillo Boito, Dossi, Tarchetti, Faldella, col loro fosco realismo e una propensione per l’orrido soprannaturale derivato dai modelli di Hoffmann, Poe e Baudelaire. Gli scapigliati rappresentano una sorta di apripista narrativa per certe tematiche ossessive, ascrivibili ai modelli francesi del decadentismo o alle Storie orribili di Poe, prima antologia italiana uscita per l’editore torinese Bocca e pubblicata nel 1858 (in realtà quattro racconti erano già usciti l’anno precedente sul Gabinetto di Lettura, sempre a Torino); gli scapigliati introducono nei loro scritti immagini funebri e cadaveriche, un’attenzione mai vista prima per il disfacimento del corpo e della psiche.
La convinzione della critica è dunque quella di un ritardo italiano rispetto alla letteratura di genere europea, imputabile per alcuni a un romanticismo lombardo che rifugge gli elementi neri della superstizione a favore di un razionalismo di derivazione illuministica; per altri è colpa della Chiesa cattolica, che, con l’avvento della Controriforma, eliminerà ogni possibilità di esercitazioni nella direzione del fantastico.
I primi timidi studi ad andare in direzione contraria saranno quelli di Giuseppe Lippi (un Racconti fantastici del ‘900 edito una prima volta nel 1987 e una seconda nel 2009, in cui faranno il loro ingresso anche Franco Lucentini, Valerio Evangelisti, Alan Altieri) e di Gianfranco De Turris col bel Le aeronavi dei Savoia (Editrice Nord, 2001), fino al fondamentale Ottocento nero italiano. Narrativa fantastica e crudele, Aragno, 2009, a cura di Claudio Gallo & Fabrizio Foni, antologia che capovolge le conclusioni di Calvino e di Notturno italiano, dimostrando, carte alla mano, l’esistenza di una letteratura popolare dal corpus imponente che sguazza nell’ignoto, nel malsano e nell’orrido senza complessi o ritrosie, capace di rincorrere i temi della tradizione fantastica coi suoi scienziati pazzi, vampire, mummie, pietrificatori e automi assassini lontani dall’arcaismo psichico della scapigliatura.
Ecco allora che si ri-scoprono i nomi di Jarro, De Marchi, Matilde Serao, Giuseppe Bevione, Italo Toscani, fino a una serie di narratori appartenenti a quella scuola di narrativa popolare forgiata da riviste come Per terra e per mare, Il giornale dei viaggi, Giornale illustrato dei viaggi, Il romanzo d’avventure, L’Avventura, eccetera; pulp magazine su cui si presentavano per la prima volta le opere degli scrittori di genere stranieri, mescolati ai racconti dei narratori nostrani.
La scoperta di questi periodici a grande tiratura e di quest’ottimo artigianato (attento al piacere di raccontare una storia piena di meraviglioso, azione, coup de théàtre che metterà radici profonde nell’immaginario collettivo) risale alla pubblicazione di Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane, 1899 – 1932, saggio del solo Fabrizio Foni, uscito per Tunué nel 2007. Questo volume, da solo, apre la strada a nuovi campi di studio nella letteratura popolare, smentendo il canone continiano e calviniano che tanto aveva pesato per oltre vent’anni. Gli autori antologizzati da Foni & Gallo sono ben lontani dalla linea marcata da Contini, Calvino e dal Notturno italiano, lontani dalla lucidità e dal controllo dei vari Landolfi, Bontempelli, Savinio, Delfini, Buzzati, insomma dagli scrittori del fantastico degli anni ’30 e ’40.
Comunque, prima di queste scoperte, già nel corso degli anni ’80 erano fioriti studi (non certo ancora interessati alla paraletteratura) validi come quelli di Remo Ceserani (La narrazione fantastica), Luigi Fontanella (Il surrealismo italiano), Giorgio Bàrberi Squarotti (sulla riscoperta di Buzzati, autore di suggestioni metafisiche, narrativa dell’angoscia e di fantascienza), i lavori di Monica Farnetti sulla natura imitativa del gotico italiano dei vari Verga, Manzoni, Fogazzaro.
Importante contributo quello di Vittorio Roda, studioso lungamente legato al fantastico italiano, campo di studi a cui ha dedicato il bel Studi sul fantastico (CLUEB, 2009), sorta di summa degli studi ventennali dell’autore su questi argomenti. Il saggio riprende il lavoro su Tarchetti e le problematiche della corporalità nel fantastico. Personalmente ho provato grande piacere nel leggere il capitolo VI, dedicato a Il doppio “multiplo” nella letteratura italiana: note e riflessioni. Qui Roda ripercorre il tema del doppio partendo dal Goljàdkin di Dostoevskij per arrivare ai racconti fantastici del primo Papini. Alla pagina 138 si analizza il doppio nell’opera di Giorgio Caproni, riferendosi in particolare alla poesia “Oh cari” contenuta nella raccolta Il Conte di Kevenhüller. Il double di Caproni è una moltitudine di doppi incorporei, un doppio folla, un doppio nel tempo. Notevole anche il capitolo VIII (l’ultimo del saggio) intitolato Noterelle sul Papini “utopico”. Il Papini preso in esame è uno scrittore di novelle nichilistiche e radicali, delle distopie acri e polemiche. In particolare un racconto, L’imbestiatore, contenuto nella raccolta Gog (1931), sorta di riscrittura rovesciata de L’isola del dottor Moreau, solo che qui c’è qualcuno votato a trasformare gli uomini in animali, in una regressione darwiniana paradossale e rovesciata.
Leggendo il Fantastico Italiano de Le Monnier si capisce meglio la ricezione, spesso difficile e settoriale, che il fantastico ha avuto nel nostro paese; soprattutto si capisce come ancora molto sia da fare, partendo soprattutto dai cantieri aperti da Fabrizio Foni. Emergono comunque, soprattutto in questi ultimi 18 anni, contributi fondamentali che si sono concentrati principalmente sulla letteratura alta, scoprendo soprattutto in Buzzati e Calvino dei punti fermi su cui tornare ancora.
Sul rapporto di Calvino col fantastico si è accennato all’inizio, ma vediamo nel dettaglio le tappe di questo avvicinamento teorico che ha portato l’autore ligure a costruire il suo canone.
Mi rifaccio all’edizione critica dei Saggi 1945 – 1985 (due tomi) del Meridiano Mondadori a cura di Mario Barenghi.
Un primo contributo, anche se non direttamente collegato al fantastico, è quello che Calvino scrive per un ciclo di conferenze tenute nel 1967, in piena fase cosmicomica: Cibernetica e fantasmi (appunti sulla narrativa come processo combinatorio). Siamo nel pieno della seconda fase letteraria dell’autore, inaugurata proprio dai racconti de Le cosmicomiche (1963/64). In questo saggio Calvino si interessa ai meccanismi linguistici che regolano il linguaggio e i suoi simboli. Lo sguardo è per la fumisteria dell’Ouvroir de Littérature Potentielle di Queneau, per la matematica e la scienza, argomenti sempre più presenti nella prosa di Calvino. La domanda (e siamo nel 1967, un decennio in cui stanno ancora bruciando i fuochi dello sperimentalismo linguistico del Gruppo 63) è se una macchina sarebbe capace di sostituire il poeta e lo scrittore? Nel caso, quale sarebbe lo stile di un automa letterario? Calvino pensa a uno scrittore come macchina scrivente, in cui lo scrivere è solo un processo combinatorio tra elementi dati, una forma geometrica precisa, capace di limitare la complessità del mondo e ridurla a un guscio di meccanismi narratologici. In queste considerazioni c’è già tutto del Calvino sperimentale degli anni ’70. Calvino prosegue parlando di letteratura come gioco combinatorio che “segue possibilità implicite nel proprio materiale, indipendentemente dalla personalità del poeta, ma è gioco che a un certo punto si trova investito d’un significato inatteso”.
Il 15 agosto del 1970 Le Monde imbastisce un’inchiesta sulla letteratura fantastica, in occasione dell’uscita del libro di Tzvetan Todorov, Introduction à la littèrature fantastique. In questo breve scritto, nel Meridiano è intitolato Definizioni di territori: il fantastico, le prime distinzioni riguardano proprio l’uso del termine fantastico: in francese è usato per storie spaventose, in italiano i termini fantasia e fantastico non implicano “affatto questo tuffo del lettore nella corrente emozionale del testo; implicano al contrario una presa di distanza, una levitazione, l’accettazione d’un’altra logica”. Calvino distingue un fantastico del Ventesimo secolo e uno del Rinascimento, riferendosi ad Ariosto in particolare. Già in questo primo contributo (scritto nell’anno in cui l’autore inizia il lavoro sulle Città invisibili, intrecciando quelle scritture coi lavori combinatori sui tarocchi e le continue revisioni delle Cosmicomiche) si delinea già un uso del fantastico come gioco, ironia, ammicco e meditazione sugli incubi e i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo. Nel corso degli anni dedicherà dei brevi articoli sulle tematiche fantastiche, magari recensendo libri, autori e traduzioni, penso alla riscoperta del Pinocchio di Collodi, romanzo alla base della fantasia calviniana, o ai pezzi su Washington Irving (la Repubblica, 24 maggio 1983), sul Poe tradotto da Manganelli (la Repubblica, 29 dicembre 1983), sul dottor Jekyll tradotto e valorizzato da Fruttero & Lucentini (la Repubblica, 18 giugno 1983) – e in questa traduzione Calvino ha la finezza di concentrarsi su particolari a suo avviso emersi con maggior nitidezza, ad esempio il laboratorio in cui Jekyll fa i suoi esperimenti: “l’edificio prima d’essere comprato da Jekyll era appartenuto a un famoso chirurgo ed era stato in origine una sala anatomica (in inglese “old dissecting room” suona più sinistro che in italiano), anzi un teatro anatomico dove gli studenti assistevano alla dissezione dei cadaveri compiuta dal chirurgo” -, su Gianni Rodari (la Repubblica, 6 novembre 1982), Cortàzar (la Repubblica, 14 febbraio 1984), Perec (la Repubblica, 16 maggio 1984), fino al recupero – tra i primi – a dieci anni dalla sua scomparsa, di Buzzati (la Repubblica, 1 novembre 1980), lettura giovanile di Calvino; e Buzzati viene indicato sulla strada di Poe e Hoffmann, coi suoi racconti “precisi come un meccanismo che si tende dal principio alla fine in un crescendo d’attesa, di premonizione, d’angoscia, di paura, diventando un crescendo d’irrealtà”.
Una ripresa più ampia e strutturata delle riflessioni calviniane sul fantastico verrà con il saggio introduttivo ai Racconti fantastici dell’Ottocento (Oscar Mondadori, 1983). Sul Meridiano siamo al secondo tomo, a p. 1654. In questo saggio Calvino riprende le fila del discorso di Todorov e del suo fondamentale studio del 1970 Introduction à la littèrature fantastique, dove si sostiene che “il fantastico narrativo sia una perplessità di fronte a un fatto incredibile, un’esitazione tra una spiegazione razionale e realistica e l’accettazione del soprannaturale (…) mentre il “meraviglioso”, secondo Todorov, si distingue dal “fantastico” in quanto presuppone l’accettazione dell’inverosimile e dell’inspiegabile, come nelle fiabe o nelle Mille e una notte (…) l’uso italiano invece associa più liberamente “fantastico” a “fantasia”; difatti noi parliamo di “fantastico ariostesco”, mentre secondo la terminologia francese si dovrebbe dire “il meraviglioso ariostesco”. In questa introduzione alla raccolta per la Mondadori, Calvino ripercorre la diffusione del fantastico nella letteratura europea, valutando l’influenza di Hoffmann sui racconti di Gogol, Nodier, Balzac e Gautier. Per Calvino, dopo Hoffmann, Poe è stato l’autore che più ha avuto influenza sul fantastico europeo, grazie soprattutto alla traduzione francese di Baudelaire, sorta di manifesto d’una nuova impostazione di gusto letterario. A venire si rintracciano felici esempi di fantastico in Kipling, Wells, Stevenson, James, ed è su questi autori che Calvino imbastisce la sua antologia.
Come già detto, l’antologia di Calvino esclude a priori autori italiani (“ho lasciato da parte gli autori italiani perché non mi piaceva farli figurare solo per obbligo di presenza: il fantastico resta nella letteratura italiana dell’Ottocento un campo veramente minore”), ignorando, forse volutamente, quel magma di paraletteratura su cui Foni, e in tempi più recenti un Bissoli, ci hanno edotto.
Il contributo successivo di Calvino al fantastico è una relazione tenuta all’Università di Siviglia nel settembre del 1984, intitolata sul Meridiano Il fantastico nella letteratura italiana (p. 1673). Il pezzo riprende parti dell’introduzione ai Racconti fantastici dell’Ottocento, aggiungendo però molto altro. Anzitutto considerazioni lunari su Leopardi e il suo Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, perfetta situazione fantastica conformata dalla filosofia di Leopardi, antiromantico impermeabile al racconto fantastico tedesco o ai conte philosophique del Secolo dei Lumi. In questo contributo Calvino, con felice sforzo di chiarezza e sintesi, rintraccia sempre in Leopardi lirico e prosatore il seme da cui poteva nascere il fantastico italiano, andando a prendere un frammento poetico sulla caduta della luna dal cielo e la nicchia vuota e agghiacciante che rimane nella volta del cielo notturno. Calvino si riconosce completamente nell’eredità del poeta di Recanati, nel suo sguardo disincantato, limpido, amaro, ironico, lontano dalla nebulosità romantica. Nel corso dello scritto l’autore ligure torna sui nomi di sempre: loda Buzzati, Landolfi, Leskov e soprattutto Kafka, altro esempio di un fantastico di perfetta limpidezza intellettuale.
Su la Repubblica del 30-31 dicembre 1984 era uscita una recensione di Calvino ai due volumi del Notturno italiano, visti come un’antologia che proseguiva il lavoro e le conclusioni della sua per Mondadori dell’anno precedente. Con questa recensione ha l’occasione di tornare a occuparsi di fantastico, tracciando e perfezionando una sua genealogia del genere, risalendo verso i romantici tedeschi e scendendo verso i gotici inglesi, i simbolisti francesi, trovando nelle scelte dei due curatori del Notturno una similarità di vedute e accostamenti. Calvino insomma pare lavorare ininterrottamente sulla questione fantastica dal 1963 al 1983, arco di tempo nel quale compone sette libri di fiction che riproducono le sue riflessioni fin qui sintetizzate.
Vediamo ora, brevemente, come queste considerazioni hanno trovato posto nell’opera di Calvino, soprattutto dalla seconda metà degli anni ’60 fino praticamente alla fine. Per farlo mi servirò del Meridiano Secondo dei Romanzi e Racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto. Scorrendo le indispensabili Note e Notizie sui testi (curate da Mario Barenghi, Bruno Falcetto e Claudio Milanini, autore anche di una bella introduzione all’opera generale dello scrittore, introduzione di cui mi sono servito molto per scrivere questo articolo) in fondo al tomo è possibile ricavare una serie di dati interessanti; anzitutto la fase “nuova” della narrativa di Calvino coincide con un senso di smarrimento e disagio avvertito nei confronti del mondo in sempre più rapida trasformazione; la realtà degli anni ’60 appare più sfuggente a qualsiasi interpretazione e a Calvino pare necessario, per rappresentarla, abbandonare la narrazione distesa dei libri precedenti. Le nuove strategie che andrà cercando saranno sempre più stratificate e plurime, utopie pulviscolari di parole, segni, immagini, intrecciate tra loro all’insegna di un’epistemologia del dubbio; le scritture cosmicomiche, primo fulminante passo verso questa ricerca, riflettono la stanchezza di Calvino verso la letteratura romanzesca e aprono al loro interno isole fantasmagoriche e affabulatorie, fino a esiti combinatori ben più compiuti e riusciti di tutta l’avanguardia del periodo. Partiamo quindi dal 1963, quando, dopo aver assistito a una conferenza di Giorgio de Santillana, Calvino inizia a comporre i racconti che finiranno nella prima edizione delle Cosmicomiche einaudiana (Supercoralli dell’autunno del 1965), inaugurando una seconda fase della sua scrittura, lontana dai racconti realistici dei primi anni.
Le Cosmicomiche rappresentano il primo trampolino di lancio dello scrittore verso la sperimentazione letteraria, ricercata nei segni della scienza e della filosofia.
Il passo seguente saranno i racconti di Ti con Zero, riuniti in volume nell’ottobre del 1967, a due anni di distanza da quelli delle Cosmicomiche. Anche qui Calvino cercherà di cimentarsi con un materiale narrativo completamente nuovo e originale, un esperimento di magniloquenza cosmica, mosso intimamente dal desiderio di rendere omaggio ai maggiori poeti lunari della nostra letteratura, Leopardi e Ariosto. In particolare gli ultimi testi (Ti con Zero, Il conte di Montecristo) arrivano a vette semiologiche inaspettate, squarciando la finzione letteraria e aprendo la strada a una voce narrante che non è più voce ma penna che verga, trascorre la pagina bianca, dipartendo da ogni singolo punto della trama, linee ipotetiche, piani di un iper-romanzo fittizio che comincia a veleggiare tra le montagne di abbozzi e rottami di plot vivisezionati dallo scrittore. Mi rifaccio soprattutto al testo del racconto intitolato proprio Ti con Zero, dove ogni secondo, ogni frazione di tempo viene fissata in un istante eterno, nel tentativo di scoprirne ed esaurirne tutte le potenzialità del plot.
Dopo questo lungo laboratorio letterario (laboratorio che non avrà mai veramente una conclusione, visto che l’autore rimarrà profondamente legato alle Cosmicomiche, tornandoci sopra periodicamente con La memoria del mondo e altre cosmicomiche, del novembre 1968, rieditato nel novembre 1975, ancora con Cosmicomiche vecchie e nuove, uscito per Garzanti nel 1984), Calvino entrerà in quello delle Città invisibili, opera apparsa nel novembre del 1972; le Città hanno un’accentuata compiutezza formale, costruite su micro-cornici narrative affidate ai personaggi di Marco Polo e Kublai Kan.
Il passo successivo sarà quello de Il castello dei destini incrociati, uscito nell’ottobre del 1973, risultato compiuto di quelle riflessioni sulla narrativa combinatoria risalenti agli anni ’60. Attraverso le carte dei Tarocchi, Calvino insegue un racconto seducente quanto un insolubile rompicapo linguistico, fitto di boschi, matti, castelli e un diramarsi di schemi, stili figurativi, giù giù fino a una pluralità di storie e di descrizioni che si sovrappongono e deformano in uno smontaggio scrupoloso.
Sul progetto del Castello pesa l’affascinante l’idea di un seguito mai andato oltre lo stadio embrionale: su questo lavoro, intitolato Il motel dei destini incrociati (pesco dalla pagina 1281 del Meridiano, per la precisione si tratta di una Nota al libro dell’autore), Calvino ci lascia questo abbozzo: “A un certo momento sopravvenne in me un senso di fastidio per la prolungata frequentazione di questo repertorio iconografico medieval-rinascimentale che obbligava il mio discorso a svolgersi entro certi binari. Sentii il bisogno di creare un brusco contrasto ripetendo un’operazione analoga con materiale visuale moderno. Ma qual è l’equivalente contemporaneo dei Tarocchi come rappresentazione dell’inconscio collettivo? Pensai ai fumetti: non a quelli comici ma a quelli drammatici, avventurosi, paurosi: gangsters, donne terrorizzate, astronavi, vamps, guerra aerea, scienziati pazzi. Pensai di affiancare alla taverna e al Castello, entro una cornice analoga, Il motel dei destini incrociati. Alcune persone scampate a una catastrofe misteriosa trovano rifugio in un motel semidistrutto, dove è rimasto solo un foglio di giornale bruciacchiato: la pagina dei fumetti. I sopravvissuti, che hanno perso la parola per lo spavento, raccontano le loro storie indicando le vignette, ma non seguendo l’ordine d’ogni strip: passando da una strip all’altra in colonne verticali o in diagonale. Non sono andato più in là della formulazione dell’idea così come l’ho esposta ora”.
Questo interesse per i generi popolari sembra prefigurare quello che sarà la tappa successiva, ossia Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Sempre sul Motel abbiamo questo abbozzo interessantissimo a pagina 1379 del Meridiano Secondo sui Romanzi e racconti è possibile rintracciare quanto segue: “Devono essere disegni suggestivi, anonimi e nello stesso tempo con quel tanto di misterioso e polisemico che hanno i tarocchi, ma non tipo super-eroi o fanta mostri tipo Marvel Comics, perché allora si perde la “verosimiglianza” contemporanea, però sì fantascienza tecnologia astronauti, che potrebbe essere una delle storie; un’altra potrebbe essere gangster rivoltelle automobili, un’altra ancora guerra mitragliamenti bombardieri, una sentimentale tipo Tiffany Jones o tipo pubblicità di dentifricio, una di erotismo donne nude magari sadismo, forse anche una con una casa dall’aspetto sinistro tipo Zio Tibia” (e questo riferimento testuale a Zio Tibia è assai interessante e segna un concreto interesse di Calvino per le forme della narrativa popolare – Zio Tibia era la traduzione italiana di un personaggio, un vate dell’oltretomba, che introduceva le storie a fumetti horror della rivista americana Creepy; la traduzione del personaggio avvenne in occasione dell’uscita nel nostro paese di alcuni Oscar Mondadori che uscirono dagli anni ’60 e ’70, proprio nel periodo di maggior interesse calviniano verso i generi e le loro strategie semiotiche; è evidente che quegli Omnibus non siano sfuggiti allo scrittore, così come non devono essergli sfuggite l’indipendenza e la rivalutazione della narrativa a fumetti, non a caso posta al centro del progetto abortito del Motel). Comunque nel Castello Calvino raggruppa e sintetizza stimoli che lo seguono dai tempi della conferenza Cibernetica e fantasmi, tanto che i primi racconti del Castello seguono di poco i risultati rigorosi e funambolici raggiunti con gli ultimi testi della raccolta Ti con Zero.
Come per altri lavori, anche del Castello Calvino non se ne libererà facilmente, ritornandoci sopra in varie occasioni, l’ultima in un appunto datato 18 ottobre 1984. Dal 1977 Calvino tornerà a un recupero del romanzesco, diramandosi nelle micro storie abbozzate che costituiscono il suo romanzo labirinto Se una notte d’inverno un viaggiatore, sorta di commiato e riepilogo da un mondo traboccante di insensatezze, terroristi, servizi segreti, rivoluzionari falliti e nuovi ceti dominanti dell’Italia anni ’80.
Buzzati, a differenza di Calvino, non è stato un teorico di se stesso e questo, forse, lo ha collocato su un gradino di minor consapevolezza critica. Tuttavia, a partire dagli anni ’80, a dieci anni dalla morte dello scrittore, sono usciti degli studi di particolare importanza, ovviamente recensiti nel libro de Le Monnier. Uno dei principali lavori di scavo è quello di Alvaro Biondi, Il Tempo e L’Evento Dino Buzzati e l’“Italia Magica”, Bulzoni, 2010, volume che raccoglie saggi composti e meditati nell’arco di un trentennio (1979 – 2009) e che vogliono approfondire un rapporto di lunga fedeltà intrattenuto dall’autore con il fantastico letterario del nostro paese.
Nella prima parte Biondi riparte dall’antologia di Contini del 1948, quell’Italia Magica che aveva antologizzato un’idea di fantastico come letteratura ben lontana dalle brume dei romanzi di massa come i Racconti di Dracula; gli autori messi in fila da Contini, pur nelle loro diversità, sono accomunati da un’ineliminabile lucidità, un controllo formale e un’ironia di fondo. Quella antologia cercò di radunare gli autori degli anni ’30 e ’40 come Palazzeschi, Zavattini, Morovich, Moravia, Landolfi e Bontempelli. Biondi indaga anche fuori, o attorno, a quella antologia, restituendo al canone del fantastico, autori come Savinio (col post-futurismo incandescente di Hermaphrodito, furore linguistico di carattere pre-freudiano e anticipatore del surrealismo francese), Delfini e il primo, fulminante, Papini. Biondi ricostruisce la diffusione del surrealismo in Italia, cercando di stabilire se vi sia mai veramente stato un surrealismo italiano, arrivando, in pagine densissime, alla conclusione che sì, si può adoperare la formula di surrealismo italiano, indicando un intreccio di tendenze ed esperienze letterarie italiane che negli anni Trenta e negli anni Quaranta risentirono dell’eco del movimento surrealista e soprattutto lavorarono sul rapporto tra reale e altro, visto come una realtà superiore, misteriosa o metafisica.
Nella seconda parte del libro (la prima è una sorta di tappeto preparatorio, un concentrato preciso di autori e studi che hanno delineato differenze e somiglianze tra le varie sfumature del fantastico italiano, dall’antologia canonica di Contini, al surrealismo, fino al cosiddetto realismo magico) si arriva a Buzzati e si cerca fin da subito di mettere in luce le caratteristiche salienti del suo lavoro. Buzzati non insegue i segreti dell’Io, bensì è affascinato dai misteri della realtà, una realtà profonda e insondabile, ma non inverosimile. Buzzati, a differenza ad esempio di Kafka – autore al quale è sempre stato accostato per sminuirlo – costruisce un reale che non è mai gratuito (come nel surrealismo) o insondabile (come in Kafka), non si affida a scritture automatiche, automatismi del sogno. Nei suoi scritti, presentimenti e inquietudini, apparizioni e illusioni, sono tracce labili di un tempo inesorabile che scorre e consuma tutto. Attorno alla nozione del Tempo, Biondi individua quella dell’Evento, che non c’è, non avviene, di cui si rimane in attesa, illudendosi magari di immobilizzare, chiudere o far ripetere il Tempo, scardinarlo dal suo corso inevitabile. L’epifania ultima che soggiace alle pagine buzzatiane è facile da individuare.
Ecco allora che vengono alla mente i tanti esorcismi borghesi alla base di molti racconti e romanzi, paradossali speranze di uomini soli in un Universo leopardiano, indifferente, dissolto. La morte dunque, il tempo, l’eros, l’attesa di un evento decisivo che può giungere in ogni momento, questi i nuclei su cui lavora Buzzati, calando spesso le sue storie in mondi immobili in cui la presenza delle montagne crea un’irresistibile suggestione di fascino, ripidezza e lontananze. L’uomo dei racconti di Buzzati è sempre individuale e collettivo, è sempre la storia di un destino comune avviato verso lo scacco supremo del nulla, ed è proprio in questi tentativi affabulatori di resistenza alla morte che si cela uno dei fascini più forti dell’opera dello scrittore di Belluno e milanese d’adozione.
Un altro saggio buzzatiano che ho letto (e trovate comunque commentato all’interno del mastodontico volume de Le Monnier) è quello di Stefano Lazzarin: Il Buzzati “secondo”. Saggio sui fattori di letterarietà nell’opera buzzatiana, Vecchiarelli Editore, 2008. Lazzarin documenta la concreta riscoperta subita dall’autore bellunese nel corso degli anni ’80 e soprattutto ’90, demolendo, carte alla mano, i luoghi comuni che hanno pesato lungamente sugli scritti buzzatiani (un autore di scarsa capacità critica e lucidità culturale, uno scrittore istintuale, primitivo, che non sottopone i suoi lavori a un filtro di distanziamento e autocoscienza, uno scrittore dotato di un non-stile giornalistico da mass-media, eccetera); Lazzarin, citando moltissimi frammenti buzzatiani prelevati in gran parte dalla narrativa breve, dimostra tutto l’opposto, ossia l’elevata intertestualità di Buzzati, le sue citazioni, le sue allusioni, le sue fonti letterarie, stratificate a vari livelli nei suoi lavori. Da questo studio puntuale emerge un alto tasso di letterarietà che spazia lungo tutto il canone del fantastico europeo e americano degli ultimi 150 anni: da Hoffmann, a Nodier, Melville, Gogol e soprattutto Poe come maestro riconosciuto a cui tornare in continuazione, fino a Le Fanu, James, Kafka, senza dimenticare i debiti contratti con la lingua di Dante e soprattutto Leopardi a livello di temi, atmosfera e di un vocabolario profondamente segnato dall’influsso del Leopardi poeta, simbolicamente denso e allusivo. Ne emerge un collage buzzatiano dagli orizzonti sterminati e consapevoli, che capovolgono la ricezione critica di questo scrittore, cominciata con l’articolo di Calvino nel 1980 e con una seconda intervista del 1984, anni in cui, lo abbiamo visto lungamente, l’autore ligure sta tracciando un bilancio di lavoro e riflessioni sul fantastico in generale.
Lazzarin lavora anche sugli ambienti buzzatiani, l’importanza della montagna, del deserto e della città, rappresentati in modo molteplice di racconto in racconto (insieme a un’oggettistica moderna e inquietante che rimanda a un perturbante otto-novecentesco lungamente documentato anche in moltissimi altri scrittori – per Buzzati, Lazzarin pone l’accento sulle case infestate e l’ambientazione ferroviaria), stabilendo, con questo lavoro imprescindibile, una nuova ricezione (da qui il “secondo” del titolo) critica sull’autore bellunese, visto come un gigante imprescindibile (assieme a Calvino) della nostra letteratura fantastica novecentesca.
A queste brevi considerazioni si può aggiungere il saggio riassuntivo di Giulio Carnazzi, approntato per il Meridiano delle Opere Scelte, pregevole tomo che ha il merito di restaurare filologicamente molti testi di Buzzati, circolati per anni in edizioni non impeccabili.
Carnazzi, nell’introduzione, riprende il discorso di Buzzati scrittore outsider di difficile collocazione, soprattutto al suo esordio, quando la formazione letteraria si consumava all’interno dei cenacoli di Solaria e Letteratura. Buzzati si presenta come un autodidatta che si è scelto una via controcorrente, una ripresa del fantastico negli anni in cui si afferma il neorealismo. Anche Carnazzi evidenzia i modelli letterari dell’autore bellunese e i punti fermi del suo stile, della sua narrazione, fatta di incipit piani, al limite dell’inespressivo e un soprannaturale subito introdotto, quasi depotenziato in un ambito realista. Il fantastico buzzatiano è assai semplice, pratico, quasi burocratico, decisamente allegorico, in cui i protagonisti sono uomini qualunque, involucri borghesi immersi negli inferni della routine quotidiana o gran signore della haute milanese; racconto dopo racconto Buzzati affina il suo repertorio consolidato di temi e di figure: le montagne, i deserti (come già detto) e le città, in particolare una Milano segreta e metaforica, asilo di sbandati e balordi.
Qui Carnazzi si ferma.
Aggiungo una brevissima nota di chiusura. Sarebbe interessante studiare eventuali rapporti dell’opera buzzatiana col cinema gotico, horror, fantastico di allora. Probabilmente se ne ricaverebbe poco. A parte le trasposizioni d’autore (Tognazzi, Zurlini, Olmi), il cinema e la televisione non sembrano essersi accorti del grande serbatoio narrativo offerto dal mondo dell’autore del Deserto dei tartari.
Tuttavia segnalo alcune curiosità. Fu Nocturno a scoprire un legame sottilissimo tra l’horror gotico Qualcosa striscia nel buio (horror del 1971 di Mario Colucci) e la novella Eppure battono alla porta (originariamente pubblicata su La Lettura il 9 settembre del 1940, poi finita nella raccolta I sette messaggeri del 1942). Le suggestioni prese da Buzzati si riferiscono esclusivamente a certi passaggi atmosferici nella parte finale della novella e a poco altro. Maggiori similitudini si riscontrano in Contronatura, gotico diretto da Antonio Margheriti nel 1968, film che pesca ancora dalla novella del 1940, utilizzando la situazione di tregenda in cui sono immersi i personaggi del racconto e, soprattutto, il diluvio finale di fango che spazza via tutto. Altri segmenti: la strega ne La maschera del demonio, non morto che cela le sue carni putrefatte sotto un mantello, il medesimo mantello utilizzato dal soldato Giovanni nel racconto del Mantello (pubblicato originariamente sul Corriere della Sera nel luglio del 1940). E che dire degli spunti tra il racconto Lo strano viaggio di Domenico Molo e il film mai fatto di Fellini Il viaggio di G. Mastorna, film alla cui sceneggiatura collaborò attivamente proprio Buzzati. Ecco, nel cinema di Fellini è possibile rintracciare ascendenze buzzatiane anche nell’episodio Toby Dammit contenuto nel film a episodi Tre passi nel delirio (1968), o nell’allegoria di Prova d’orchestra, sorta di apocalisse tascabile vicina a quelle di molti racconti dello scrittore (si pensi anche solo al senso velato di fine dei giochi presente in un racconto come La Frana, pubblicato nella raccolta Il crollo della Baliverna, 1954).
Segnalo infine l’influenza massiccia esercitata da Buzzati sull’opera di Tiziano Sclavi (Inverness, la città dei morti del primo numero di Dylan Dog è un tipico nome buzzatiano), in particolare lo Sclavi scrittore, penso all’ultimo Il tornado di Valle Scuropasso (Mondadori, 2006) e al romanzo fanta-ecologista Guerre terrestri (Rusconi, 1978), opera che fin dal titolo omaggia il Buzzati delle Cronache terrestri, raccolta di elzeviri uscita postuma per Mondadori nel 1972. Le Guerre terrestri di Sclavi condensano in forma di romanzo le atmosfere arcane e sospese di tanti racconti brevi di Buzzati (se n’era già accorto tempo fa Michele Mari in una recensione per la riedizione del libro di Sclavi per Camunia nel 1992, licenziato col nuovo titolo Apocalisse) come Una goccia, I topi, I reziarii, Qualcosa era successo, la fine del mondo; narrazioni in cui nell’ora dell’inspiegabile serenità del crepuscolo i passi felpati del mistero scivolano nel cuore delle cose.
Davide Rosso
(1) Sull’antologia continiana è possibile leggere L’Italia Magica di Gianfranco Contini, splendido e documentatissimo saggio di Beatrice Sica, volume commentato lungamente all’interno del tomo poderoso de Le Monnier. La Sica ricostruisce la genesi di quell’importante contributo, prendendo varie direzioni e facendo dialogare, nelle pagine introduttive, la proposta continiana con quanto stava andando facendo proprio in quegli anni Ernesto De Martino alla ricerca di un magico popolare. L’antologia di Italia Magica esce per la prima volta in lingua francese, stampata dall’editore svizzero Aux Portes de France nel 1946; la seconda edizione fu stampata dall’Einaudi nel 1988, a quarant’anni dalla prima; la terza edizione risale al 1991 ed è postuma (Contini è morto l’anno precedente), ristampata sull’onda del successo di quella einaudiana. Tra le edizioni del 1946 e quella del 1988 vi sono pochissime differenze: gli autori antologizzati sono gli stessi e messi nel medesimo ordine (Palazzeschi, Baldini, Lisi, Zavattini, Morovich, Moravia, Landolfi, Bontempelli); vi si aggiunge solo una postfazione scritta da Contini nel 1988. La terza edizione, uscita senza la supervisione critica dell’autore, apporta vistosi cambiamenti, sia nell’ordine di presentazione dei vari scrittori, sia con interventi sulle parti scritte da Contini per presentare ogni singolo narratore. La Sica ricostruisce con esattezza le fasi che hanno portato alla nascita della prima e della seconda edizione, sottolineando come l’uscita del volume nel 1988 fu vista come un importante contributo sul canone del fantastico che si andava ri-scoprendo e valutando proprio in quegli anni (fondamentali, l’abbiamo detto, gli interventi di Calvino e di Notturno italiano). In realtà l’opera di Contini è da collocare all’Italia del 1946, in un contesto culturale assai differente rispetto agli anni ’80; il testo originale in francese che Contini aveva composto per l’edizione del ’46 comparve nel risvolto di copertina (nell’edizione del 1988 fu tradotto e messo come prefazione al volume). Cosa scriveva in quel risvolto editoriale? Il critico, con un vocabolario calibratissimo, usava espressioni e formulari come “brumes du Nord” e “mirages de l’Oriente” come ispirazioni di fondo, ma la mappa degli scrittori antologizzati è tenuta insieme da una creatività controllata, da uno stile e una tecnica precisi. Il dialogo è con Breton e il surrealismo, con la sua idea di una scrittura legata indissolubilmente all’inconscio e alle pratiche dell’automatismo. Alle provocazioni intellettualistiche, alle ascesi oniriche dei surrealisti Contini vuole contrapporre (nel 1946) un equilibrio tutto italiano tra razionale e irrazionale, in una dialettica degli opposti che il critico filologo vedeva come un discorso originale e tutto italiano denominato col termine “magia”. L’ossatura di Italie magique racconta di schizophrènes, maniaques, étres pathologiques, cruel automatisme, bizzarreries, symboles psychanalytiques proposti con una lucidità e un controllo che distingueva gli scrittori degli anni Venti e Trenta dai narratori d’Oltralpe; Contini insomma cerca una via italiana, ricercando tra gli stimoli migliori dell’avanguardia francese e le esigenze della penisola, dove il dibattito culturale era stato schiacciato dal peso del fascismo; il termine “Magico” dunque si caricava di valori e significati molto ampi, che rimandavano a un’idea di letteratura e, in ultima istanza, di cultura e civiltà. Il magico continiano, ci dice la Sica, si colloca insomma in un contesto storico particolare, che rimanda all’Europa tra le due guerre e non al dibattito sorto negli anni ’80 sul termine più generico di “fantastico”.