SERGIO MARTINO, UN REGISTA DI GENERE 06

Sergio Martino e il cinema postatomico

In Italia il cinema di fantascienza non ha mai avuto molti estimatori e tra i registi che l’hanno praticato ricordiamo con piacere Antonio Margheriti che comunque non ha mai conquistato le più vaste platee. Pure Luigi Cozzi ha provato a fare cose dignitose come Starcrash (1978) e Contamination (1979), ma non ha avuto il successo che meritava. La fantascienza italiana ha risentito più di altri generi della endemica mancanza di fondi che ha sempre caratterizzato il cinema italiano. Non è facile realizzare cose stile Star Wars a basso costo e questo ha fatto sì che il genere sia rimasto a lungo confinato in una cerchia ristretta di appassionati. Tanta fantascienza italiana si caratterizza per recitazione approssimativa, effetti speciali risibili e sceneggiature zoppicanti, se non proprio scopiazzate dal modello americano di riferimento.

I nostri B-movies dipendono dai successi di oltre oceano, così agli inizi degli anni Ottanta sono Interceptor e 1997: fuga da New York ad aprire la strada al filone postatomico. I primi lavori di questo tipo sono: 1990: i guerrieri del Bronx e Fuga dal Bronx entrambi di Enzo G. Castellari, seguono 2019:  dopo la caduta di New York di Sergio Martino, Anno 2020: i gladiatori del futuro di Aristide Massaccesi e in seguito I guerrieri dell’anno 2072 di Lucio Fulci, Il mondo di Yor di Antonio Margheriti e I nuovi barbari, ancora di Castellari.

I film del filone postatomico prodotti in Italia sono: 1990: i guerrieri del Bronx di Enzo G. Castellari (1982), Fuga dal Bronx di Enzo G. Castellari (1983), I nuovi barbari di Enzo G. Castellari (1983), Anno 2020: I gladiatori del futuro di Joe D’Amato (1983), Endgame – Bronx lotta finale di Joe D’Amato (1983), I guerrieri dell’anno 2072 di Lucio Fulci (1983), 2019: dopo la caduta di New York di Sergio Martino (1983), I predatori di Atlantide di Ruggero Deodato (1983), L’ultimo guerriero di Romolo Guerrieri (1983) e Il giustiziere della strada di Giuliano Carnimeo (1984).

Il postatomico è un sottogenere tutto italiano che si ispira a pellicole statunitensi come I guerrieri della notte di Walter Hill (1979), 1997: fuga da New York di John Carpenter (1981), e australiane come Interceptor (noto anche come Mad Max) di George Miller (1979). C’è da dire che di solito i prototipi d’oltre oceano non vengono mai plagiati, ma sono sfruttati per reinventare e rinfrescare un filone.

Il primo film italiano che inaugura il sottogenere risale al 1982 ed è 1990: i guerrieri del Bronx di Enzo G. Castellari, prima pellicola di una trilogia post-olocaustica di tutto rispetto che comprenderà anche I nuovi barbari (1983) e Fuga dal Bronx (1983). Il primo e il terzo film sono sequel l’uno dell’altro, mentre I nuovi barbari si presenta come una pellicola autonoma e di fatto è l’unico vero postatomico della trilogia.  Abbiamo parlato diffusamente di queste pellicole nel volume Il cittadino si ribella – Il cinema di Enzo G. Castellari (Profondo Rosso, 2006). Anno 2020: I gladiatori del futuro (1983) ed Endgame – Bronx lotta finale di Joe D’Amato (1983) sono stati analizzati nel volume Erotismo, orrore e pornografia secondo Joe D’Amato (Profondo Rosso, 2004). Abbiamo parlato de I guerrieri dell’anno 2072 in Filmare la morte – il cinema horror e thriller di Lucio Fulci (Il Foglio, 2006), mentre I predatori di Atlantide sono stati oggetto di un intero capitolo in Cannibal – il cinema selvaggio di Ruggero Deodato (Profondo Rosso, 2003).

In questa sede analizzeremo a fondo 2019: dopo la caduta di New York (1983), uno dei migliori prodotti della cinematografia di fantascienza italiana. Il film è diretto da Sergio Martino con lo pseudonimo anglofono di Martin Dolman ed è lo stesso regista che firma soggetto e sceneggiatura insieme all’esperto Ernesto Gastaldi (che si firma Julian Berry) e Gabriele Rossini. Giancarlo Ferrando (si fa chiamare Charlie McFarrow) realizza una suggestiva fotografia notturna che rende bene lo scenario apocalittico. Le musiche psichedeliche degli Oliver Onions (Guido e Maurizio De Angelis), a base di tastiere sintetiche e cupi suoni di tromba, accompagnano un viaggio allucinante in un ambiente degradato. Eugenio Alabiso (Alan Beugen) è bravo a realizzare un montaggio rapido ed essenziale, obbligatorio per un film di pura azione. Produce Luciano Martino per la Nuova Dania Cinematografica e Medusa Distribuzione, con la collaborazione della parigina Les films du Giffon. Interpreti: Michael Sopkiw, George Eastman (Luigi Montefiori), Valentine Monnier, Anna Kanakis, Roman Geer, Vincent Scalondro, Louis Ecclesia, Edmund Purdom, Serge Feillard, Tiziana Power, Haruniko Yamanouchi, Jacques Stany, Antonio Aschi, Alexandra Tanner, Siriana Hernandez, Frank Mezner.

La pellicola si caratterizza per una minor penuria di mezzi rispetto ad analoghi film del periodo, anche perché Sergio Martino ha il vantaggio di poter contare sulla casa di produzione del fratello Luciano. In ogni caso il film denota inventiva, originalità della trama e cura nella realizzazione dei modellini delle macchine e ottime ricostruzioni in studio. All’interno della pellicola troviamo citazioni di 1997: fuga da New York (il protagonista è simile all’eroe del film statunitense), Il pianeta delle scimmie (la banda di Big Ape interpretato da un ottimo George Eastman), 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick e Il mondo dei robot di Michael Crichton (la presenza dei replicanti, una sorta di uomini robot). Il film è ben ambientato in una New York distrutta e allucinata, dove l’atmosfera di degrado e morte viene resa con poche pennellate horror a base di volti scarnificati e pustole putrescenti che indicano il grado di contaminazione.

La Terza Guerra Mondiale e soprattutto un’esplosione nucleare ha ridotto la Terraa un ammasso di rovine, dove gli uomini si fanno la guerra tra loro e tentano di ricostruire un mondo distrutto dall’abuso di tecnologia. La tematica postatomica non si discosta molto dai film statunitensi e dagli altri emuli italiani.

Nel film di Martino i cattivi sono i temibili Eurak, soldati a cavallo armati di alabarde e lanciafiamme che perlustrano New York per uccidere i sopravvissuti contaminati. I costumi sono ben fatti, nonostante il budget ridotto, e questi soldati del futuro sono una via di mezzo tra i cavalieri medioevali e le truppe di Guerre Stellari. Uccidono con mazze ferrate come nei tempi antichi, ma sono dotati di raggi paralizzanti resi con il trucco artigianale (che ricorda alcuni film di Margheriti e Cozzi) di una scia dal colore verde intenso. Il film è molto veloce, montato con rapidità, soprattutto ben calato in un futuro apocalittico dove l’odio e il terrore la fanno da padrone.

Troviamo interessante la parte che si svolge al Nevada Race, dove il protagonista Michael Sopkiw  (Parsifal) è una sorta di gladiatore del futuro e partecipa a un rodeo a bordo di un’auto che manovra con grande abilità. Non mancano effetti splatter e abiti da punk del futuro tra le comparse che rappresentano un pubblico allucinato e sconvolto. Sono ben realizzate tutte le sequenze acrobatiche a bordo delle auto con esibizioni credibili messe in scena da abili stunt cars. Parsifal vince un ermafrodito come premio per il suo coraggio, ma decide di liberarlo quando incontra una carovana di uomini contaminati che vomitano una sostanza verdastra.

Il paesaggio nel quale si muovono gli attori è quello dei film western. Parsifal si sposta a bordo di una moto sotto un cielo azzurro solcato da nubi bianche, attraversa praterie sconfinate, altopiani pietrosi e deserti di sabbia, caverne, distese di auto sfasciate e montagne brulle. Il film entra nel vivo quando Parsifal viene rapito e condotto in Alaska dove incontra un ufficiale con cui aveva collaborato in passato. L’eroe dovrà portare a termine un progetto decisivo per il futuro dell’umanità: recuperare a New York l’unica donna fertile che può essere fecondata per ricostruire la razza umana su un pianeta di Alpha Centauri.

Comincia il vero postatomico avventuroso con Parsifal accompagnato da due strani personaggi per le vie di una Manhattan distrutta e immersa nei fumi degli incendi. Uno dei compagni ha una mano di ferro e l’altro è fortissimo, ma alla fine si scoprirà che si tratta di un replicante, metà uomo e metà macchina. L’ingresso a New York è segnato dalla figura di un tragico trombettista contaminato che suona musica jazz alla luce della luna. Lo scenario cadente è presentato dal musicista nero con queste parole: “La grande mela al forno!”. Rende bene l’idea di una città che va a fuoco e che è ben descritta con suggestivi notturni ricostruiti nei teatri di posa Elios e De Paolis. Ci inoltriamo in una New York crepuscolare e cadente, in mezzo a nebbie e fumi di incendi, tra fogne putrescenti e topi catturati per essere mangiati, scarichi urbani e macerie.

Cominciano gli scontri con i cacciatori e le bande che controllano le zone della città, mentre gli Eurak si aggirano a cavallo in cerca di contaminati da uccidere. Sono ben realizzate le scene nelle fogne, soprattutto alcune sequenze splatter con i topi che scarnificano il volto di un uomo, ma è credibile anche la parte in cui gli uomini sono ridotti a cibarsi di topi come fossero bestie. Inutile dire che fanno la parte del leone le scene di lotta tra Parsifal, i cacciatori, le bande del sottosuolo, una tribù di nani che lui protegge e i soldati a cavallo.

I tre amici sono catturati dagli Eurak, capitanati da uno spietato condottiero che ha un ufficio arredato con un simbolico Guernica di Picasso, ma anche dall’affascinante Anna Kanakis in un insolito ruolo da cattiva. Parsifal si innamora della bionda Valentie Monnier che però non è la donna fertile come lui stesso credeva. La sola che può dare speranza al genere umano è la figlia di un professore, una sorta di bella addormentata tenuta illibata sotto una cupola di vetro, una donna che non ha assistito alla distruzione della Terra. Parsifal la libera e la porta in salvo, ma prima perde uno dei compagni, uccide il replicante che lo controllava e infine si vede ammazzare la donna amata.

Citiamo molte scene truculente durante le lotte nella città distrutta, come gli occhi divelti al capo degli Eurak, un macchinario che squarta le persone, le fughe tra topi e fogne, trappole incredibili e infernali lotte all’ultimo sangue. Molto suggestivo è l’incontro con Big Ape che cita palesemente Il pianete delle scimmie e introduce tra i protagonisti anche un ottimo Luigi Montefiori (George Eastman). La banda di Big Ape è composta da individui per metà uomini e per metà bestie, persone che si sono riprodotte fecondando le scimmie e che hanno tratti del viso animaleschi. Gli effetti speciali e i costumi sono credibili e ben realizzati, sia per i volti e le mani pelose, sia per le fattezze e i movimenti scimmieschi.

Nei momenti più drammatici la musica psichedelica degli Oliver Onions accompagna le gesta degli eroi e la lotta tra buoni e cattivi è ancora più credibile in uno scenario apocalittico, cadente e nebbioso. L’incontro con la donna fertile non contaminata riaccende le speranze anche se la domanda: “Ha un senso salvare gente come noi? Dare un futuro a un’umanità che si è distrutta da sola?” accompagna tutto il film ed è il messaggio ecologista insito nelle pellicole postatomiche. Big Ape feconda la donna per essere  immortale nel figlio che verrà, Parsifal se ne rende conto, ma fa finta di niente, perché sa che l’uomo-scimmia difenderà la donna anche a costo della sua vita.

Citiamo la fuga di Parsifal e dei suoi compagni a bordo di una vecchia auto, anche se alla fine resta vivo soltanto l’eroe con la bella addormentata che salverà la stirpe umana. Struggente la morte della ragazza di cui Parsifal è innamorato, che esala l’ultimo respiro tra le sue braccia e lo incita a continuare nella sua missione. “Se l’umanità avrà un domani sarà perché tu lo hai voluto” dice Parsifal. Il regista e lo sceneggiatore vogliono far capire che anche in un futuro apocalittico ci sarà sempre l’amore a dare una speranza e a far muovere la vita. Alla fine Parsifal parte per Alpha Centauri insieme alla donna che ha salvato ed è lui che dovrà occuparsi di renderle dolce il risveglio dopo il lungo periodo di coma. Tutto sommato il messaggio finale è positivo e concede una speranza alla razza umana, a differenza della maggior parte dei film postatomici che chiudono in modo drammatico e non lasciano intravedere possibili cambiamenti.

Marco Giusti dice che “Sergio Martino entra nella leggenda con questo postatomico all’amatriciana, molto apprezzato da Tarantino, e capitanato dall’eterno Luigi Montefiori, qui leader di un gruppo di mutanti mezzi uomini e mezzi scimmie”. Condivido in pieno, anche se non concordo sul fatto che la storia sarebbe “demenziale”, perché ho trovato il soggetto originale e atipico rispetto ad analoghi prodotti contemporanei. Va da sé che siamo convinti del fatto che gli Oliver Onions non sono Wagner e che Sergio Martino non è Carpenter, ma non serve rammentarlo.

Resta da chiarire se 2019: dopo la caduta di New York sia stato scritto prima o dopo 1997: fuga da New York, perché molti commentatori ritengono che la storia di Martino e Gastaldi sarebbe precedente. Per questo motivo ho avvicinato lo sceneggiatore Ernesto Gastaldi per avere la sua interpretazione autentica.

“Ho scritto nel 1982 per il produttore Luciano Martino il film 2019: dopo la caduta di New York. Lo diresse suo fratello un anno dopo. Ero molto appassionato di fantascienza e ho cercato per almeno trent’anni di convincere i produttori italiani a fare qualche film del genere. Fatica sprecata. C’ero andato vicino con Carlo Ponti e poi con Angelo Rizzoli con la storia mai realizzata La fine dell’eternità (un titolo rubato ad Asimov ma non il racconto!) e alla fine diressi un filmetto che chiamai La fine dell’eternità, ma è un’altra cosa.

Avevo conosciuto Ponti tramite la grande direttrice di produzione Jone Tuzi, proprio perché stava per produrre La decima vittima, tratto dal celebre racconto La Settima Vittima di Sheckley, ed era assai scontento del copione. Jone mi presentò quale scrittore di fantascienza pubblicato dalla Mondadori con lo pseudonimo di Julian Berry. Lessi il copione che non piaceva a Ponti: era orrendo! Si cercava di fare dell’umorismo su un genere che allora al cinema non esisteva. Ponti mi diede una risma di fogli di carta azzurra e mi disse di riscrivere su quella carta le scene che non mi piacevano. Due settimane dopo gli portai il frutto del mio sudore: di carta bianca c’erano rimasti solo il foglio del titolo e quello degli autori.  Ponti rise, lesse e gli piacque, ma poi il regista ibridò il mio copione col suo e il risultato è quella cosa poco godibile che è appunto La decima Vittima. Questo per dire come la fantascienza italiana al cinema non riusciva a sfondare.

Il compianto Antonio Margheriti aveva fatto qualche buon film di fantascienza, con la magia e la genialità dei suoi effetti speciali fatti con niente e senza spendere niente, ma a me piaceva la fantascienza sociologica  e quella dei viaggi nel tempo. Anche dei film di fantascienza di Luigi Cozzi si diceva bene, ma io Starcrash Il tunnel sotto il mondo  non ho mai avuto occasione di vederli.

Giravo con il trattamento de La fine dell’eternità sottobraccio: era un po’ Back to the future con delle gag perfino simili a quelle del grande Spielberg di dieci anni dopo, ma italiane. Nel mio viaggio nel passato, anno 1944, si rideva per il fatto che il protagonista indicava una ragazza sdrucita di Pozzuoli e diceva che quella avrebbe sposato il figlio del Duce, ma che non per questo sarebbe stata celebre, bensì perchè era la sorella di quell’altra ragazza che di nome faceva Sofia… e roba così. Alla fine avevo riprovato con Luciano Martino per il quale avevo scritto dozzine di film, con un paio di altre storie: Roma 2045, dove il protagonista usciva dal metro a piazza di Spagna (questa cosa fece ridere molto il produttore e mi disse che quella era davvero fantascienza) e con La traversata degli Stati Uniti in cui si raccontava una storia del day after atomico: la ragazza di uno dei superstiti veniva rapita da un risorgente governo americano perchè ancora fertile e il film era una specie di Odissea attraverso gli Stati Uniti, dalla Florida, alla California, fino all’Alaska, percorsa in moto dal protagonista alla ricerca della sua donna. Una traversata piena di incontri fantastici, mutanti, chimere nate dalla contaminazione atomica, clan, tribù di ogni risma, aspetto e costume. Troppo costoso, mi disse il Martino e poi troppo originale. Io gioco in serie B, aggiunse. Poi uscì Escape from New York di Carpenter nel 1981: grande successo e subito il Martino drizzò le orecchie: lui era specializzato nelle seconde copie dei film che incassavano molto. Io ero il suo complice principale: infatti dopo Libido in cui debuttò Giancarlo Giannini (costò ventisei milioni e ne rese quattrocento), il Martino si lanciò nel giallo all’italiana con film come Il dolce corpo di Deborah e Così dolce… così perversa. Dopo il primo 007 eccolo a girare Le spie uccidono a Beirut e dopo i primi western italiani di successo partì con tutta una serie di western dei quali porto quasi interamente la colpa.

E allora sul finire del 1982, il Martino mi chiama e mi chiede se ho visto Fuga da New York. Certo che l’ho visto, rispondo, ma aggiungo che se gli avessi portato uno script dove un tizio nero andava in giro coi candelabri di Murano su una Cadillac me l’avrebbe tirato in faccia. Lui risponde sorridendo che avrebbe fatto proprio così, perché a quel tempo sarebbe stato originale, ora invece era pronto a produrne una copia! E così scrissi 2019: dopo la caduta di New York.  2019 perchè avevo calcolato che quello sarebbe stato per me un anno buono per morire, avrei avuto ottantacinque anni, e poi perchè in Italia avevano cambiato il titolo di Soylent Green di Fleischer in 2022: i sopravvissuti. Tre anni prima di Fleischer suonava bene.

Come sempre ho scritto da solo sia la storia che la sceneggiatura, anche se nei titoli vedete il nome del regista e di uno sconosciuto Rossini, probabilmente nome di comodo per la coproduzione. Mi sono ispirato un poco a La traversata degli Stati Uniti, spogliandolo delle scene più costose e riducendolo a un solo grande set di macerie che rappresentava New York. È rimasta l’Alaska e la Confederazione Americana, la donna fertile e il viaggio finale ad Alpha Centauri, che essendo una stella tripla è ben difficile abbia pianeti terrestri, ma nel pubblico questo non lo sa praticamente nessuno. Quando vado in proiezione a vedere un film che ho scritto (non ci vado sempre e alcuni dei miei quasi centoventi film scritti non li ho visti mai), resto sempre un po’ deluso: non perchè i registi non siano bravi ma perchè scrivendo uno si immagina le scene e ben raramente sono poi quelle che vede realizzate da un altro. Nel caso di questo 2019 mi ricordo che avevo trovato relativamente accettabili le scenografie, ben girate le scene d’azione (quasi metà del film o più) e abbastanza sciocchi attori e dialoghi che, ahimé, erano i miei… È sempre difficile stabilire se sono le battute stupide o stupidi gli attori che le dicono come se leggessero i bigliettini dei Baci Perugina.

Il film incassò bene, venne venduto ovunque nel mondo e il Martino cominciò a guardarsi intorno per vedere se riusciva a fare per primo una  seconda copia di qualche successo altrui. Mi pare però che quella fu la sua ultima volta. Lui si dedicò alle Ubalde tutte calde e certamente fu l’ultima volta mia perché, ormai assorbito dal cinemaniaco Sergio Leone per il suo C’era una volta l’America, che divenne poi il bellissimo C’era una volta in America, non avevo più tempo per niente e per nessuno.

Su Sergio Martino voglio aggiungere che lo stimo molto sia come persona che come regista: non ha avuto molte buone occasioni per mostrare in pieno ciò che avrebbe potuto fare. Peccato! Non ho visto tutto quello che ha diretto, delle cose che ho scritto e che lui ha realizzato come regista, la cosa venuta meglio è di gran lunga Milano trema: la polizia vuole giustizia”.

Il film è uscito negli Stati Uniti con il titolo After the Fall of New York.

(6 – continua)

Gordiano Lupi