CLELIA & WILLELM – EPISODIO 01

LA PORTA TRA I DUE MONDI
 
Nessuno se n’era accorto. O forse sì. Qualcuno ci aveva fatto caso. D’altra parte io me n’ero accorta no? Perché pensare di essere l’unica al mondo?
Ne ebbi la prova certa ed inconfutabile il giorno in cui decisi di fare visita a Villa Tornaforte. Non so perché, ma sentii come la necessità di immergermi in quel parco rigoglioso, ammantato dal silenzio irreale che solo i luoghi magici possono avere. Stavo passeggiando sotto i portici di via Roma, le vetrine sfilavano davanti ai miei occhi come tanti inviti senza voce. Era sabato e sembrava che tutti quanti avessero sentito il bisogno di scendere in strada in quella bella giornata di sole. I portici, con il loro fascino d’altri tempi parevano racchiudere in un abbraccio protettivo le centinaia di uomini, donne e bambini che, sorridendo, li percorrevano. Ero ferma davanti ad uno dei bar più rinomati di Cuneo. Il Côni Veja, con il suo arredamento classico, le colonnine dorate ad incorniciare le vetrine e lo splendido mosaico davanti all’entrata. Il profumo di caffè mi solleticava le narici. Osservai la mia immagine riflessa nella vetrina e capii che era successo. Non l’avevo sognato. Dietro di me, l’immagine riflessa di una donna, volteggiava come stesse ballando alle note di una musica antica come il mondo. Fu il suo abbigliamento a costringermi a voltarmi. Un abito lungo, leggero come l’aria e luminoso come se irradiasse esso stesso luce. Mi voltai e dietro di me, una famiglia con due bambini stava passando, con le borse dei nuovi acquisti con il logo di Zara ed un gelato in mano. Non c’era nessuna donna con l’abito luminoso. Una folata di vento gelido mi scompigliò i capelli e non sfiorò nessun altro che me. Nessuno parve accorgersi di quel fiato di morte che era passato, veloce, tra i sorrisi e le parole dei Cuneesi ignari.
In quel momento ebbi la certezza che il mio lavoro non era ancora finito.
L’ultima volta che ebbi a che fare con uno spirito tanto potente, mi trovavo a Torino. Ero stata chiamata da una giovane vedova convinta di avere un terribile gnomo nascosto nel giardino. Pareva si dilettasse a ucciderle le galline e fargliele trovare meticolosamente appese davanti alla finestra della camera da letto. Era un essere forte, antico e cattivo e mi ci volle tutto il potere di cui ero capace per eliminarlo.
La profezia… ecco quello che significava!
Un’antica profezia tramandata oralmente nei secoli, mi era stata raccontata da un anziano che abitava solo, in una piccola casa pericolante, a Chiusa Pesio. L’avevo cercato per molto tempo prima di riuscire a trovarlo ed era successo mentre mi riempivo gli occhi del verde scuro dei boschi attorno a Pradeboni. Mentre mi riempivo i polmoni dell’aria ancora pungente di aprile. Stava seduto sulle sponde umide del Pesio a fissare chissà cosa e chissà dove.
Mi ero avvicinata con cautela perché avevo sentito provenire dalla sua persona un’energia sconosciuta ed allo stesso tempo famigliare. Non si era girato, ma mi aveva accolto come se mi stesse aspettando da sempre.
“Aspettavo da tanto questo momento.” Mi disse.
Io non risposi. Rimasi ad osservarlo e ad aspettare che fosse lui a parlare.
“Siedi qui vicino a me.” Disse, indicando la roccia umida.
Feci come mi aveva chiesto e lui continuò a rimanere in silenzio, fissando l’acqua del fiume che s’increspava e gorgogliava nell’impeto di vita che solo la primavera può portare. Stavo per porgli delle domande, quando il rumore simile ad un sasso lanciato in acqua mi fece voltare di colpo verso valle.
“Eccoti finalmente!” gioì l’uomo parlando in un piemontese stretto che persino io, piemontese da centinaia di generazioni, faticavo a capire. Non capii con chi stesse parlando fino a che un raggio di tiepida luce non le finì addosso.
Compostamente seduta sulla roccia lucida di acqua, si stava lisciando come fosse un gatto e guardava quell’uomo come la ninfa Eco guardava Narciso; con un amore che va al di là di quello che un umano può comprendere. Capii immediatamente che era uno spirito dell’acqua, proprio come Eco. Un’ondina, una ninfa, una nereide. La sua bellezza non era bellezza, ma pura perfezione. Minuta, sottile, con la pelle luminosa e pallida. Il viso perfetto e levigato. I capelli lunghi e del colore dei fili di miele sotto i raggi del sole.
“Ti aspettavamo.” Mi ripeté lui.
“Perché?” chiesi con la pazienza che cominciava ad esaurirsi.
“La fata nera è di nuovo sulla terra.”
Rimasi a bocca aperta per un tempo interminabile, cercando di giustificare le conoscenze che stava dimostrando quell’uomo, ma non trovai una sola ragione per non credergli.
“Nicnivin Quiete è tornata. La corte di Unseelie non faceva più per lei.”
“Come fai a conoscerla? Come fai a sapere queste cose?”
Indicò con un cenno del capo la piccola ninfa dai capelli di miele. “ Lei. Lei mi ha avvertito quando Nicnivin stava per trasformare mia figlia in qualche orribile mostruosità. Lei ha salvato mia figlia ed ora io vengo a vegliare su di lei. Perché Nicnivin non possa farle del male.”
La fata nera di cui stava parlando era conosciuta dalla notte dei tempi da tutti coloro che si erano un minimo interessati alle leggende celtiche. È la regina della tenebra, colei che regola luci ed ombre e che può trasformare qualsiasi cosa a suo piacimento. Colei che dell’illusione fa la sua legge e la sua regola.
Perché era tornata?
Molti anni prima, verso i primi del Novecento, un uomo coraggioso e pieno di inventiva era riuscito, con l’aiuto di un amuleto potente, a chiudere la porta che dal suo mondo fatato portava fino al nostro.
Quell’uomo si era sacrificato per questo; aveva donato la sua vita per far sì che l’umanità tornasse al sicuro e i due mondi non si mescolassero più tra loro.
Quell’uomo era il suo bisnonno e l’amuleto ora lo aveva lei. Appeso alla pesante catenina d’oro, pendeva e si appoggiava sul suo cuore, sotto il maglione pesante.
Una ventata gelida spazzò l’erba nuova e profumata. Mi scostai i capelli dal viso.
“Sapevamo che saresti venuta.” Ripeté ancora annuendo con il capo e sorridendo lievemente, come se il mio arrivo gli avesse tolto un grosso peso dal cuore.
“Come potevi saperlo?”
“E tu come facevi a sapere che dovevi parlare con me?”
Già! Come facevo a saperlo? In realtà non lo sapevo. La mia era solo una sensazione. Una forte sensazione, che m’imponeva di cercare l’uomo che sapeva la leggenda.
“Io ho bisogno di sapere che cosa sai tu della leggenda. E non mi domandare quale leggenda perché non lo so. So solo che è importante.”
L’uomo sospirò e rivolse lo sguardo verso i raggi di sole che bucavano le chiome degli alberi e si riversavano, pulite e leggere sul folto sottobosco.
Mi disse che Ecain, la ninfa, gli aveva detto di aspettare sulle sponde del fiume, una donna dai capelli di tenebra e gli occhi del colore delle foglie d’autunno e lui così aveva fatto.
Potevo negare di essere io quella donna; mi chiese.
No, non potevo negarlo.
Mi raccontò tutto ciò che sapeva e come se nulla fosse, mi salutò e se ne andò.
Rimasi sulla sponda del fiume e non riuscii ad andarmene fino a quando non cominciai a rabbrividire per il freddo e l’oscurità completa della notte non avvolse tutto nel suo gelido manto.
Adesso, guardando sfilare i turisti tra le bancarelle del mercatino dell’antiquariato, capii che non c’era più tempo da perdere. Sapevo quello che avevo visto, riflesso in quella vetrina e non potevo voltarmi dall’altra parte facendo finta di nulla. Oltrepassai corso Brunet; il cielo si stava rannuvolando e l’aria era quella pesante e afosa di un fine agosto davvero bollente.
Svoltai in via Piave e mi diressi verso la mia auto. La splendida giornata stava lasciando il posto ad una sera limpida. Avrei tanto desiderato poter dimenticare tutta quella storia e riprendere la mia vita da dove l’avevo lasciata, ma non potevo. Quel dono, quell’amuleto aveva fatto di me qualcosa di più di una donna. Quell’amuleto, forgiato sulla bocca degli inferi mi aveva fatto diventare ciò che fu mio nonno.
Una purificatrice.
 
 
Con pazienza mi misi in coda in corso IV novembre, diretta a Madonna dell’Olmo. Sapevo per certo di trovarla lì. Qualcosa mi spingeva in quella direzione, come fosse la corrente leggera di un mare caraibico ed io la seguii. Mi feci trasportare e cullare fino a che non mi resi conto di essere già arrivata alla fine del ponte. Svoltai a destra e proseguii. Oltrepassai il canile dove avevo adottato la mia Lucky e finalmente si stagliò all’orizzonte la bellezza e la maestosità di quella villa da sogno. Da sempre mi aveva attratto la sua storia, tra il reale e l’immaginario. Cos’avrei dato per poter parlare con la Bernardi! Purtroppo aveva lasciato il mondo dei vivi proprio quell’anno e non potevo certo importunare Valmaggia per parlare di certe cose!
Mi avrebbe come minimo presa per pazza!
Avevo una mia idea su che cosa fosse accaduto e sul perché, ma desideravo che fosse lei stessa a dirmelo e possibilmente, prima di trasformarmi in un essere mostruoso come voleva fare con la figlia dell’anziano. Decisi di parcheggiare l’auto dal distributore e mi avvicinai a piedi all’imponente cancello. Era chiuso e il cartello con gli orari era divelto e buttato in un angolo. Poggiai le mani sul ferro tiepido di sole e mi stupii a scoprire che non era affatto chiuso, ma solo accostato. Lo spinsi ed entrai. Sulla sinistra si apriva il parco che proseguiva a perdita d’occhio
Capii subito che la Villa era chiusa ed un cartello avvertiva che le visite erano state interrotte per lavori di ristrutturazione.
In pochi minuti il cielo si fece buio e le nuvole cariche di pioggia si addensarono in ampie volute grigio scuro. Rimasi un momento a guardare quella splendida costruzione del XVII secolo e ne rammentai la storia, sentita chissà quanto tempo prima e mai dimenticata. Era nata sulle ceneri di un vecchio monastero agostiniano per volontà di Bruno di Tornaforte. Il parco tutt’attorno era splendido e immenso e non per nulla veniva utilizzato per i servizi fotografici di molti novelli sposi. Seppi subito di essere osservata dallo sguardo non umano che si celava tra gli alberi, in nervosa attesa. Aveva aspettato per tutto quel tempo. E forse non aveva aspettato per sua volontà. Qualcuno l’aveva tenuta sotto controllo. Qualcuno che sapeva e che aveva dimestichezza con le pratiche esoteriche. Forse la stessa proprietaria della villa. E ancora forse, per questo, era uscita allo scoperto solo ora che lei non c’era più.
Infilai la mano sotto il maglione e tirai fuori l’amuleto. Non diede alcun segno fino a quando non feci qualche passo in direzione del grande lago. Era la prima volta che mi trovavo faccia a faccia con una creatura così potente. Tremavo come una foglia anche se, la brezza che scompigliava leggera le fronde degli alberi secolari, era tiepida.
Non volevo ammetterlo, ma avevo paura.
Non ero nata con l’idea di fare quel che facevo. Mi ci ero trovata in mezzo e avevo dovuto farlo, come chi si trova improvvisamente in mezzo ad una mare in burrasca ed è costretto a nuotare per trarsi in salvo. Non sapevo se questa volta mi sarei salvata. Non sapevo se ero pronta per una cosa del genere.
Un profumo intenso di fiori mi investì come uno schiaffo. Pura illusione, pensai.
L’intensità di quel profumo mi fece venire la nausea.
Un rumore assordante mi avvolse stretta come se fosse dotato di una consistenza reale e tangibile. Mi tappai le orecchie, ma il rumore era attorno a me, dentro di me. Ovunque.
In mezzo al lago, un bagliore accecante sembrò esplodere in ogni direzione. La mia mente tentò di ristabilire il controllo, ma tutto dentro di me urlava solo una parola: scappa!
Feci per voltarmi e darle ascolto e fu allora che l’immagine ingombrante del mio avo mi si parò davanti.
“Non puoi scappare!” mi rimproverò.
“Tu non sei reale!” gridai per sovrastare il rumore.
“Lo sono come lo sei tu. È questo posto che me ne da la possibilità. È questo varco tra i due mondi. Devi chiuderlo e devi farlo una volta per tutte. Per troppo tempo quella porta è rimasta solo socchiusa e guardata a vista da una donna forte e decisa. Ora che questa donna non c’è più è necessario che la porta venga chiusa per sempre!”
“Io non posso farlo!” gridai.
“Ascoltami Clelia! Ascoltami! Chiudi quella porta subito o tutto il mondo sarà invaso da ciò che si cela dietro. Le Banshee torneranno a urlare il loro avvertimento di morte, le streghe torneranno a popolare la terra. E Dio solo sa cos’altro!”
L’immagine si affievolì un poco per poi tornare nitida.
“Che cosa ho a che fare io con tutto questo? Perché io?”
“Perché tu sei…” un’onda di pura energia lo investì in pieno e l’immagine esplose in miliardi di piccolissime schegge luminose e incandescenti, colpendomi e scaraventandomi a terra, sull’erba umida e profumata di recenti tagli.
“Chi sono?” gridai al vento.
“Chi sono?” ripetei disperata per aver perso forse l’unica possibilità di sapere.
Una presenza alle mie spalle mi fece voltare di scatto. Rotolai sull’erba e mi alzai.
 
 
Stava di fronte a me. Bella come solo un’illusione può essere. I capelli corvini le ricadevano addosso come fossero un lungo mantello ondulato e scosso dal vento. Era ferma, immobile. Non un movimento, non un battito di ciglia. Il viso era duro e crudele. Gli occhi neri erano contornati da una corona rossa e luminosa come un anello di fuoco. Non riuscivo a non fissarli e sapevo che più avessi continuato a guardarli e più ci sarei caduta in fondo. Non avrei più avuto altre possibilità per distogliere lo sguardo. Sbattei le palpebre più volte e riuscii a staccare i miei occhi dai suoi.
Nicnivin Quiete, regina delle tenebre, temuta dai Celti, stava di fronte a me e mi sfidava.
L’abito scuro rifletteva mille bagliori di oscurità. Le mani, abbandonate lungo i fianchi, aspettavano solo il momento buono per togliermi di mezzo. Un tocco e sarei stata tutto ciò che lei avrebbe voluto. Un maiale, una gallina, un mostro senza nome. Feci due passi indietro e chiusi gli occhi per ricordare meglio il viso del mio avo e la sua determinazione.
“Lascia che ti abbracci.” Disse in un sussurro soave.
Non dovevo cedere alla sua voce carezzevole. Tenni gli occhi chiusi e sentii l’amuleto farsi leggero a caldo tra le mie dita.
Credo che lei capì solo in quel momento di avere a che fare con una purificatrice e non perse tempo.
Un’ondata potente e gelida mi avvolse e mi sollevò da terra. La sua vera immagine divenne improvvisamente chiara. Il viso solcato da profonde rughe, la bocca distorta in un urlo di rabbia. I capelli si alzarono sopra di lei come se fosse immersa in un liquido e fu proprio quel liquido magico che mi avvolse di colpo, lasciandomi sospesa per aria. Lo sentii premere sulle labbra. Non respirai. Rimasi in apnea, cercando di non farmi prendere dal panico. L’illusione che diveniva realtà. Il liquido che diventava un mare pronto a pretendere la mia vita. Non respirai e cercai di non muovermi troppo. L’amuleto divenne bollente sotto le mie dita. Solo allora lei lo vide. Solo allora lasciai che lei lo vedesse.
Un urlo improvviso, di rabbia e frustrazione percosse l’intero mondo. Tutto sembrava vibrare e piegarsi sotto quell’urlo.
“Credi di potermi piegare al tuo volere forse? Per troppo tempo ho agognato di poter tornare su questa terra e non sarà una sciocca umana a distruggermi!”
Come darle torto?
L’amuleto vibrò e si sollevò dal mio petto, richiamato dal potere che sentivo crescere dentro di me. Io non sarei stata nulla senza quell’antico monile e lui non sarebbe stato nulla di più di un monile senza di me. Due tessere di uno stesso mosaico che si erano trovate a formare il disegno completo.
“Tu verrai con me! Sarai mia per sempre. La mia schiava. La mia schiava umana. Nulla potrai fare per salvarti. Tu non sei lui!” gridò con tutto il fiato che aveva in gola e nel tono percepii per un attimo, una sorta di timore.
Non potevo risponderle a causa del liquido che ancora mi avviluppava, denso e freddo, ma se avessi potuto, le avrei detto che era anche per lui che invece l’avrei uccisa per sempre.
Non sapevo chi ero. Non ancora almeno, ma sapevo chi era il mio bisnonno e sapevo che era morto per assicurare Nicnivin al suo mondo. Ora toccava a me, ma non mi sarei limitata a rispedirla dietro quella porta.
Per la prima volta in vita mia, sentii davvero qualcosa che da dentro, si riversava sulla mia pelle. Qualcosa di strisciante e caldo. Qualcosa di forte e vibrante che scivolava sulla mia pelle ed entrava nell’amuleto. Lo guardai e riuscii persino a percepirne il colore rosato con venature azzurre.
La rabbia che avevo dentro non l’avevo mai conosciuta. Un improvviso bisogno di uccidere s’impossessò di me.
Nicnivin levitò, aprendo le braccia, e centinaia di pagliuzze iridescenti scaturirono dai suoi occhi e dalla sua bocca, aperta tanto da poter contenere il mondo intero. Mi arrivarono addosso e come miliardi di coltelli minuscoli e appuntiti mi ferirono facendomi gridare di dolore. Il liquido entrò nella mia bocca, denso come miele e mi sentii subito soffocare. Osservai le pagliuzze conficcarsi nella carne e farsi strada come fossero vive e affamate. Sembravano divorarmi con denti aguzzi e invisibili. Cercai di buttare fuori il liquido.
La sola cosa che mi permise di non cedere, di non perire, fu la distinta visione della Villa. Maestosa e severa. Sembrava osservare, in attesa di poter fare la sua mossa. Un angelo dormiente in attesa di poter fare qualcosa.
Quello era stato il mio errore. Avvicinarmi a lei e allontanarmi dalla Villa, facendo esattamente quello che lei sperava che facessi.
Il dolore era immenso e atavico. La vista mi si annebbiò e mi sentii scivolare lontano, trasportata dal mare illusorio.
Nicnivin mi fu subito addosso.
Osservai le sue mani avvicinarsi a me come in un’immagine al rallentatore. Le vedevo avvicinarsi e percepivo il gelido potere che mi lambiva. Un solo tocco e sarei stata perduta per sempre. Mi dissi che dovevo reagire, ma mi mancavano le forze. Gli occhi si chiudevano. Il mondo sbiadiva e le sue mani erano l’unica cosa che vedevo. Le unghie lunghe e grigie. Il suo viso ghignante e terribile.
La Villa, pensai. Devo avvicinarmi alla Villa.
Le mani… ad un solo centimetro da me. Cosa sarei diventata dopo il suo tocco?
L’amuleto vibrò ancora e questa volta tanto forte da far vibrare tutto il mio corpo.
Fu un attimo.
Quasi non me ne accorsi.
Si frappose fra il mio braccio e le dita di Nicnivin strappando la catenina alla quale era appeso. Nicnivin urlò di dolore e stupore portandosi la mano fumante e coperta di piaghe, al petto.
Il furore che le leggevo sul volto era impossibile da spiegare. La sua energia vacillò e le illusioni create scemarono lasciandomi cadere a terra.
Il salto non fu piacevole e atterrai a terra come un sacco. Non ascoltai il dolore alle gambe.
Ascoltai solo la voce della mia anima.
Ascoltai la voce della Villa.
Corsi prendendo fiato a pieni polmoni. Quel fiato che mi era mancato per così tanto tempo che nemmeno lo ricordavo. Non ero morta perché l’amuleto mi aveva protetta, ma ci ero andata molto vicina e non volevo ripetere l’esperienza.
Corsi inciampando nei miei stessi piedi, sentendo dietro di me il vento gelido di Nicnivin.
Corsi e l’abbraccio della Villa mi accolse e mi stupì.
Ferma, immobile, maestosa e avvolta da un alone di mistero. Stava lì e aspettava.
Fu la volta di Nicnivin di commettere un errore.
Troppo presa dalla sua corsa e spinta dalla sete di vendetta, non si accorse di essere troppo vicina alla porta.
Mi voltai, inspirai a pieni polmoni, presi l’amuleto tra le mani e lo alzai verso il cielo.
Un lampo sopra la Villa illuminò per un momento l’intero parco. Nicnivin indietreggiò, ma sentii distintamente la forza possente della Villa che l’attirava a sé. Era come un pesce intrappolato nella rete. Si dibatteva senza alcun risultato. Il fulmine attraversò ancora il cielo. Il mio potere serpeggiò violento sulla pelle e venne canalizzato dall’amuleto.
Il fulmine e la mia energia si unirono in un unico fascio di luce azzurra.
Si aprì come una crepa, che dal nostro mondo portava in qualcosa che era meglio non conoscere. Nicnivin fu risucchiata in un vortice argenteo e la porta si chiuse sulle sue ultime parole.
“Tornerò e per te sarà la fine!”
Non riuscii ad ucciderla. Non ne ebbi il tempo e forse la Villa non lo volle.

Forse la voleva per sé, viva.

09/01/2008, Simona Gervasone