Basterebbe citare quasi a casaccio alcuni film erotici giapponesi della seconda metà del ‘900 per diventare dei fautori della censura per le ragioni opposte a quelle dei moralisti, ovvero per costringere registi e sceneggiatori occidentali a inventarsi qualcosa di più in campo erotico: si tratti di Teruo Ishii (Shogun Joy of Tortures) come di Koyu Ohara (Fairy in a Cage, Lady Caligula in Tokyo), infatti, ci troviamo di fronte a opere di genere che danno allo spettatore occidentale una dimostrazione sconcertante delle perversioni a cui si può giungere attraverso la negazione di ciò che da noi è moneta corrente, ovvero la semplice esibizione degli organi genitali. (Chissà, forse concorderebbe con tale negazione Bobby Beausoleil, che a quanto dice Michael Moynihan in Inaugurator Pleasure Dome trovò fra le mura del carcere una maniera del tutto singolare di sperimentare la sessualità come pienezza in absentia, simile a un asceta sessuato tantrico che conquista potenza ritenendo il seme senza privarsi di passione ed eccitazione.)
Chiusa la porta dell’ostensione in linea retta, le pellicole nipponiche aprono finestre di libertà che a chi è dotato d’una idea ingenua di essa (mostrare direttamente ogni cosa = la pornografia, l’assoluta trasparenza), possono sembrare impossibili. E invece: sadismo della peggior specie, masochismo che tocca vette di raffinatezza inusitate, escrezioni e secrezioni in abbondanza… il tutto artigianale e moralmente gratis, senza i complessi di colpa così cari agli amanti dell’autentico, del documentaristico, della “vita vera” a ogni costo, condizione ai limiti della patologia che li colloca ben lontano dal folle paradiso dei cartoni animati, nel quale si può sempre far risorgere Wile E. Coyote dopo averlo ucciso nei modi peggiori. La colpa di questi spettatori, in realtà, è assai diversa da quella che credono, anzi, non è neppure una colpa ma un semplice errore concettuale: risiede precisamente nella distinzione che fanno fra natura e cultura; vogliono “vedere il sangue vero”, perché ossessionati dall’idea che, se pure la loro è un’esperienza vicaria, o forse proprio per questo, deve perlomeno esserlo di primo grado (quindi, in una certa perversa maniera, “naturale”) e quando si tratta di cinema ciò significa che l’esperienza ricercata sarà di preferenza “documentaristica”. Pochi non fanno distinzione fra i due gradi, pochi sanno che non c’è differenza perché l’uomo vive tutto come linguaggio, e quindi ogni cosa è già mediata da esso.
Fra questi pochi ricordiamo almeno Richard Kern, con il suo noncurante, ma consapevole ciondolare fra soft e hard; cose come il presunto documentarismo sessuale del porno non esistono, quindi che la rappresentazione cinematografica sia costruita consapevolmente o meno non ne cambia la qualità comunque artificiosa. In conclusione, l’immediatezza è un’allucinazione in cui ci voltoliamo come maiali ignoranti. Più in generale, potremmo sottoscrivere quanto afferma Emmanuel Hocquard in Le cours de Pise: “Invece di dire: Vi mostro le cose così come sono, non sarebbe meglio dire: Vi mostro come io vedo le cose. Ma potrebbero essere mostrate in una quantità d’altre maniere? Detto in altro modo, non sono le cose così come sono che vi mostro, ma il mio sguardo così com’è su delle cose che ho scelto di mostrarvi. O ancora, l’oggetto che vi mostro è il mio sguardo.”
Persino uno snuff, se mai esistesse, offrirebbe – in quanto film - un punto di vista culturale e non una realtà oggettiva naturale; considerarlo come Cosa Vera nasce dallo scambio, dallo scivolamento che si opera tra persona uccisa alla lettera (un contenuto, per quanto allucinante) e punto di vista (una forma, per quanto allucinante): quest’ultimo diventa a sua volta “naturale” perché l’attrice è stata ammazzata sul serio; e invece il criminale che ha fatto le riprese ha scelto un’angolazione, un tipo di illuminazione e di pellicola, involontarie fin che si vuole ma non per questo meno artificiose e costruite. E, per dar fondo all’orrore, chi può negare che la stessa vittima, sapendo di essere ripresa, non abbia dato a suo modo un’interpretazione – quindi si sia comportata appunto da “attrice” – per un momento esistenziale che sapeva qualitativamente diverso nella sua conclusività, così da offrire ad altri, e al suo carnefice in primis, una certa idea di sé con il suo ultimo sospiro?
Se si vuole davvero una scena in cui la mdp è utilizzata come arma nella sua concreta presenza e specificità di mdp, e quindi nei movimenti che diventano attori, si pensi semmai alla strage finale di La Bestia uccide a sangue freddo di Di Leo: le leve formali da lui utilizzate sono un esempio di estremo interesse proprio perché dietro l’immagine sentiamo letteralmente la mano del regista, l’esatto contrario sia dell’occultamento della camera, sempre cercato quale ingenuo risultato più alto dai documentaristi o dagli autori verosimili, che dello straniamento, spesso voluto da quelli d’avanguardia, bizantini estimatori dell’occhio assassino. Ma uccidere deve essere un’esperienza fortissima anche al cinema e lo spettatore deve sentirne tutto il peso in una soggettiva che restituisca spessore all’azione, non alla visione; e ciò che si fa, lo fa l’arma: per questo la soggettiva temeraria è sua.
Dunque: dall’occhio che individua la vittima alla mano, dalla mano alla protesi (la mazza) che colpisce come se avesse un occhio (la mdp); è proprio questo percorso, così logico e lineare, a rendere minacciosa la sequenza.
(1 – continua)