XI TROFEO LA CENTURIA E LA ZONA MORTA: II CLASSIFICATO

CAMORRUS

di Claudio Foti

Iyana, seduta su una sedia di legno giocava con la spada tra le gambe aperte e il corpo piegato in avanti, in una postura poco femminile. Le lunghe dita sfioravano l’elsa a forma di gatto. I capelli tenuti fermi da una fascia nera, appena sopra gli occhi tinti di scuro per proteggerli dalla luce del sole spietato del deserto.

Sorrise ricordando come avesse sedotto e intrappolato quell’uomo che avanzava baldanzoso sulle dune. Sorrise, quel giovane odorava di sangue e paura, ma anche di coraggio e forza. Nei suoi occhi verdi brillavano l’insubordinazione e la morte. Occhi selvaggi come la foresta e forti come il fusto di un tronco millenario.

«Cirannor…» bisbigliò Iyana con un sorriso malizioso. Si alzò lasciando cadere la spada dall’elsa felina. Si tolse l’armatura di strisce di cuoio e la fascia che portava sulla fronte. Sciolse i lunghi capelli neri con sfumature color borgogna, finché non arrivarono giù, fin sotto la sua vita. Coperta solo da una tunica nera, con finiture argentate, aperta sul davanti e chiusa solo da due fili annodati, entrò nella stanza dove lo teneva prigioniero.

È vestita più come una prostituta che come una guerriera, pensò Cirannor vedendola entrare.

«Cirannor…»

Perché guerriera doveva essere se l’aveva imprigionato.

«Cirannor, perché sei qui?»

«Sono stato mandato a cercare un prete. Aveva… ucciso… gente…»

Iyana sorrise. I suoi occhi brillarono, stranamente ipnotici nel loro fervore.

«L’hai trovato?»

«…penso di averlo appena fatto…»

«Sai Cirannor, puzzi di guai e oro» disse lei dolcemente.

Lui le mostrò le catene stizzito che lo tenevano prigioniero.

«Sento il sangue dei preti sulla tua pelle e l’odore dell’oro sulle tue mani. Per questo mi dirai come trovarlo» lo annusò divertita, avvicinandosi a lui mentre disfaceva il nodo aprendosi la tunica. «È il momento di aprire gli occhi.»

Si accovacciò su Cirannor, sdraiato a terra con le mani incatenate al muro, e sentì il suo corpo contorcersi mentre afferrava gli anelli dal muro. Sorrise soddisfatta quando notò la tensione dei muscoli delle braccia e strisciò sinuosamente in avanti, mettendosi a cavalcioni su di lui.

Iyana percepì la tensione di quel corpo muscoloso nel tentativo di liberarsi dalle catene, lo vide sfilare l’anello dal muro, ma in quel preciso istante, senza dargli il tempo di reagire, si lasciò cadere sul suo sesso eretto, finché non lo seppellì completamente nel suo interno. Sentì una leggera mescolanza di dolore e piacere, e sorrise quando vide che Cirannor, libero dalle catene l’abbracciò, le sue mani e la sua bocca le scivolarono addosso.

«Mi ucciderai?» Lo guardò maliziosa Iyana. Ma Cirannor non stava ascoltando. Aveva visto qualcosa in quegli occhi.

Senza dubbio il corpo non era così morbido come quello delle fanciulle che aveva conosciuto. Era una pelle più ruvida, più dura, ma più calda come se fosse sopravvissuta a innumerevoli battaglie, e c’era dell’altro. Gli occhi, quegli occhi scuri, dopo essersi liberati del trucco intenso che indossavano, sembravano nudi e quasi vulnerabili. Erano occhi giovani, più di quello che sembrava il corpo di quella donna. Occhi di una ragazza solitaria, qualcosa di perso, orfano e abbandonato, qualcosa che gli era stato offerto nonostante ne fosse completamente dominato, almeno nella posizione. Occhi della solitudine, della durezza e della freddezza, ma anche del coraggio, della ferocia e della forza bruta. Cirannor provò pietà, non compassione, ma ogni pensiero svanì quando i movimenti del bacino diventarono irregolari, frenetici e disperati, mentre le mani di Iyana gli sfioravano, le braccia e il petto.

Lei gli stringeva le spalle, la schiena, accentuando l’influenza dei suoi fianchi sotto pressione, aumentando il ritmo. La ragazza aprì le labbra, compiaciuta, mentre i suoi seni danzavano indomiti su di lui. I movimenti di Iyana, non erano atti a dimostrare il potere, ma erano incentrati sul raggiungimento di massima soddisfazione e piacere. Lui le artigliò i seni, le torse i capezzoli e lei rafforzò il vigore delle sue spinte, alzandosi e abbassandosi a un ritmo più veloce. Fin quando contrasse le pareti del suo sesso imprigionandolo. Poi lo lasciò andare e Cirannor gridò di piacere. Rovesciandosi in lei e, tornando a incontrare quello sguardo, quegli occhi, ritornò alla realtà.

Era in terra nudo e prigioniero.

«Vedi Cirannor? Non è stato così difficile. La tua pelle mi ha rivelato tutti i tuoi segreti» sussurrò Iyana raccogliendo la tunica dal pavimento. Lo guardò con quel sorriso divertito e malizioso, più adatto a una ragazzina che a una guerriera «adesso so dove si trova il tesoro di Camorrus… a quei poveretti non serve più. Grazie per avermelo detto» disse dolcemente mentre si annodava i fili della tunica «e in un modo così piacevole» aggiunse prima di allontanarsi.

 

Cirannor era libero. Senza catene. Si chiese se lei se ne fosse dimenticata o se l’avesse fatto apposta. Si alzò, ma fu costretto ad appoggiarsi al muro. Chiuse gli occhi. E ricordò la voce del superiore.

«I primi rapporti di attività insolite nella zona di Camorrus sono arrivati un mese fa. Un nuovo sacerdote è stato inviato nel villaggio per sostituire il precedente, scomparso in circostanze insolite. Tre giorni dopo il suo arrivo, sono cominciate le sparizioni.»

Cirannor riaprì gli occhi. Ora ricordava.

Stava andando a sud, stava andando a Camorrus. Tre settimane prima la carovana che da sempre la collegava con Vibos non era tornata. Si era pensato che fosse opera dei nomadi del deserto. Ricordò gli occhi sgranati di uno dei funzionari di Vibos.

«Gli esploratori inviati non hanno trovato traccia di attività di banditi, sebbene abbiano trovato i carri bruciati tra le dune, ma nessun corpo è stato recuperato.»

Quel rapporto era stato archiviato, era accaduto nei Deserti Meridionali, territori aridi e pericolosi.  Però poi, due giorni dopo, era arrivata la richiesta di aiuto direttamente da Camorrus, un piccolo villaggio isolato sulla rotta di Neushabro la città dei negrieri.

E Cirannor era stato inviato lì per scoprire il mistero delle morti, delle sparizioni e per far luce su quello strano religioso. Sospirò. Si vestì velocemente, recuperò la sua spada e la sua borsa. Della donna nessuna traccia.

Quando uscì da quella casupola, nel mezzo delle sabbie si rese conto che era già il tramonto.

Fu a quel punto che ricordò come era finito lì dentro.

Iyana era una strega delle sabbie? Un’Areia? Per quanto ne sapeva quelle creature erano solo leggenda. Frutto delle superstizioni dei Nomadi del Deserto e delle illusioni delle sabbie. Si chiese se non fosse lei la causa di tutto. Sputò per terra e si allontanò verso quelle palizzate tra le dune. Camorrus non era lontano. Doveva scoprire cosa era successo. La spada dondolava da una cinghia di cuoio sulla sua spalla. Avanzò sulla sabbia fermandosi ad ammirare le due enormi lune piene. Due occhi bianchi che lo guardavano dall’alto tra le nuvole scure.

Una notte perfetta… pensò.

 

 

***

Un tuono rotolò attraversando il cielo al di sopra delle nuvole. Il vento soffiava nelle strade spoglie e polverose di Camorrus lamentandosi attraverso le finestre rotte, le rovine bruciate delle case, disturbando le ceneri dei morti, urlando sui focolai di fiamme rimasti.

Iyana avanzò nelle vie ora deserte e desolate, soffocate da macerie, detriti e dai poveri resti dei morti insepolti, corpi caduti sotto gli artigli degli abomini. Attraversò il villaggio profanato alla ricerca dell’oro di quella gente. D’un tratto si fermò e annusò. Scartò velocemente, in maniera innaturale, verso i cadaveri dei soldati. Si accovacciò e riconobbe le uniformi della Guardia del porto di Vibos. Vibos, dove c’era la gioielleria della sua amica Valea, da quanto non la vedeva? Era intenta a saccheggiarli quando sentì l’odore.

Alzò lo sguardo e le vide.

Cose gonfie di carne liquida che pendeva oscenamente dalle loro ossa, occhi estroflessi, fissi su di lei. Corpi goffi che si muovevano a disagio sul terreno.

Ottogri.

Esseri, creature che non dimoravano sulla terra. Emersi dalla vicina palude. Alcuni dicevano fossero abomini fatti di scaglie e pinne, altri il parto di osceni rituali. Era evidente che quella pattuglia non era preparata, si aspettavano banditi, nomadi del deserto. Non quelle cose saltellanti e oscene. Avevano combattuto invano, pensò Iyana, i dardi delle loro balestre non li avevano fermati. Doveva fuggire. Le sue arti poco potevano fare contro quelle menti così diverse.

 

***

Cirannor lo percepì subito entrando nella piazza di Camorrus. Percepì il male che emanava dagli edifici e copriva il terreno circostante; un’irregolarità nell’aria che strisciava subdola verso le sue ossa. La puzza della decadenza e della corruzione, del lato oscuro della magia al lavoro.

Figure oscure si muovevano nei relitti delle case. Emersero dalle macerie, goffe e scoordinate. Sapeva che provenivano dal profondo. Da quelle aperture ignorate da tutti, da cui si accedeva a mondi ctoni di vita sconosciuta che i nani chiamavano N’kai.

Si fermò.

La sua mano destra afferrò l’elsa felina dello spadone appeso alla schiena.

Osservò i movimenti e mormorò una preghiera, afferrando quel rametto con due escrescenze nella parte inferiore e tre in quella superiore che era il suo simbolo.

C’era una ragione per cui avrebbe avuto successo dove gli altri fallivano. L’antica sapienza di Uldhar lo proteggeva. Lì, sacerdoti eseguivano riti e offrivano doni a Uldhar, lì la Sfera di Uldhar era nutrita e ricaricata dai continui sacrifici resi da tutti i grandi re e imperatori di Athom durante i riti ciclici. La sfera magica la cui esistenza teneva a bada le forze del male e conferiva agli adepti di Uldhar la forza di combatterle.

 

***

 

Iyana correva. Corse fin quando non crollò per la stanchezza. Il suo cuore batteva come un tamburo. Era sicura di allontanarsi da Camorrus. Eppure, si trovò a guardare il villaggio di fronte a lei.

Un fruscio alle sue spalle.

Si voltò e vide quella che sembrava una donna di mezza età, dall’aspetto impacciato e dal collo gonfio, saltellare sulla sabbia. La bocca, innaturalmente grande e immobile, semi aperta nella sua direzione.

Iyana udì un suono provenire dalla parte opposta.

Si voltò verso Camorrus e vide un uomo correre nella sua direzione. Urlava indistintamente, avvicinandosi, duna dopo duna.

All’improvviso tutto roteò in prospettiva.

«… giù, ho detto!»

Iyana obbedì istintivamente, il che le salvò la vita.

La lama le passò sopra la testa – sentì l’acciaio spazzolarle i capelli – lo vide dividere a metà la cosa. Due monconi sanguinolenti nella sabbia.

L’uomo si rivolse a lei. Era sporco, la sua veste strappata, i tessuti macchiati di sangue e sudore. Verdi occhi erano selvaggi, colmi di furia che gli inondava le vene.

«Cirannor…» mormorò.

Lui le disse qualcosa.

Lei non sentì.

Stava già scappando.

Cirannor cercò di avvertirla di non entrare a Camorrus. Ma invano.

 

***

 

Iyana si svegliò come da un sogno, vertiginoso e scoordinato.

Si alzò da terra con la sabbia nella bocca.

Dove sono?

Ricordava un uomo con uno sguardo negli occhi che la spaventava tanto quanto i mostri.

Si rialzò e si vide circondata dalle rovine di Camorrus. Una specie di piazza, i negozi fiancheggiavano i marciapiedi e una fontana posta al centro del sentiero di ghiaia.

Le mancava la sabbia. Doveva tornare indietro. Tornare tra le sue dune.

Guardò la fontana. Guardò quell’uomo di pietra che portava una conchiglia alle labbra, presumibilmente per soffiare attraverso di essa. Per mano teneva un bambino. Probabilmente un tempo aggraziato, ma qualcuno lo aveva deturpato e ora assomigliava a una rana.

Un messaggio scritto in lettere giganti era stato inciso sul basamento:

 

INGINOCCHIATI IO SONO L’IMPERATORE DEI SOGNI

 

Iyana, scosse la testa confusa. Oltre la fontana vide il tempio di Aqqua. Il dio dell’acqua venerato in quasi tutti i Deserti Meridionali. Corse in quella direzione.

L’interno era buio e fresco. I banchi di legno erano allineati intorno a una grande pozza sul pavimento. Tre vetrate colorate adornavano l’estremità opposta, posizionate sopra un altare.

«C’è qualcuno? Aiuto per favore!»

«Che c’è? Sei spaventata?»

Si guardò intorno, ma non vide nessuno.

Poi dalle colonne di granito emerse un uomo con una tonaca nera, lisa. Arabeschi color ruggine sulle maniche, sul collo. Occhi tondi, magro, pallido, come se non avesse mai visto il sole. Un bizzarro ciondolo appeso al collo.

«Non avere paura» cantilenò la figura dirigendosi verso l’altare. «Ti terrò al sicuro» disse facendole un segno, e prima che lei se ne rendesse conto, le sue gambe la portarono vicino a lui.

Iyana non riuscì a pensare. Perse la forza di volontà dominata com’era dall’uomo in piedi davanti all’altare. La sua mente era lenta, il suo corpo non era più sotto il suo controllo. Andò alla deriva finché non si trovò proprio di fronte a lui, il suo sguardo bloccato in quello del sacerdote, i suoi occhi tondi penetravano la sua anima.

Una mano sudaticcia, dalla consistenza troppo vischiosa la accarezzò, un braccio apparentemente senza ossa la circondò e la sostenne. La strinse. Quella bocca troppo larga si avvicinò al suo volto.

Le labbra lunghe e gonfie da cui sbucavano minuscoli denti affilati.

Con un enorme sforzo riuscì per un attimo a liberare lo sguardo da quelle orbite estroflesse e vide che il ciondolo aveva la vaga forma di una scimmia.

Una specie di primate rotondetto.

Lampeggiò una lama.

Iyana spostò gli occhi sul pugnale.

La lama rifletteva trionfalmente l’immagine di quel ciondolo a cui ora sembravano spuntate perfino delle ali.

«…sarai ammessa alla sua presenza. Conoscerai il rospo nero, dalla pelle di pipistrello, eternamente assonnato. Zothothua.  Egli non si sveglierà, nemmeno nel fervore della fame, ma aspetterà nell’adorazione divina, il sacrificio.»

Poi tutto accadde in fretta. Troppo in fretta.

Iyana cadde in un buco. Un lago, affondando nell’acqua gelida.

Vide cose come gambe o braccia senza corpo che si agitavano nella melma, teste che rotolavano, pance che si dimenavano dotate di pinne come i pesci; e ogni sorta di cose malformate e mostruose; chi di loro non nuotava rapidamente a riva veniva divorato dalle bocche dei genitori.

Le ombre si ritirarono.

L’illusione svanì.

Il velo era stato sollevato.

Poi lo schianto.

Iyana si guardò intorno terrorizzata.

La spessa porta di legno rinforzato con bande di ferro, era esplosa come se fosse corteccia vecchia. Un uomo alto e possente apparve sulla soglia.

«Chi sei tu?» Mormorò il falso prete, lasciandola andare. «Chi disturba il mio rituale?»

«Io?» Rispose Cirannor avvicinandosi «le tue illusioni non hanno effetto su di me. Io vedo i tuoi peccati, conosco le tue paure, sacerdote.»

Sollevò lo spadone, la cui lama era macchiata dal sangue degli abomini. I suoi occhi brillarono alla luce delle candele del tempio.

«Non sei il benvenuto qui» sibilò il sacerdote con le labbra contorte.

Iyana tese una mano verso la sua balestra.

Cirannor era già a metà strada verso l’altare quando si fermò davanti a quell’ampia pozza sul pavimento, e osservò quel tempio.

Era un tempio semplice, blocchi di basalto senza intagli, e conteneva solo un piedistallo di onice vuoto. Cirannor si rese conto che era assomigliava ad alcuni templi raffigurati nelle volte di Zin, in cui si adorava un terribile idolo di rospo nero chiamato Zothothua. Si diceva che fosse stato un dio potente e molto adorato, nativo di un misterioso regno interiore- un regno nero popolato da esseri in grado di vedere al buio che avevano edificato grandi civiltà sotto la guida di potenti dèi prima ancora della venuta dei rettili.

Cirannor si rese conto che sulle pareti non c’erano i simboli di Aqqua, ma erano colmi di raffigurazioni confuse. Glifi simili a zampe palmate, contornavano un essere antropomorfo che dormiva. A Cirannor parve che la parola Nkai, fosse incisa sul muro, poi i suoi occhi furono attratti da quell’enorme statua tozza e panciuta che adesso appariva nella nicchia. Quell’essere dalla testa più simile a un mostruoso rospo che a una divinità, dal corpo coperto da una pelliccia corta, che lo rendeva simile al pipistrello e al bradipo. Le sue palpebre assonnate erano semisepolte sugli occhi globulari; la punta di una strana lingua emergeva dalla sua bocca grassa.

Non vista Iyana afferrò la balestra e la caricò.

Cirannor osservò la pozza. Era piena di una sostanza viscosa, semi-liquida, opaca e di colore grigiastro.

Il sacerdote sfruttò l’attimo di esitazione per sollevare la mano sinistra.

Il centro della pozza cominciò a gonfiarsi come per l’azione di qualche potente lievito e una testa rozza e amorfa, con gli occhi spenti e sporgenti, si alzò gradualmente su un collo sempre più lungo.

Cirannor e Iyana guardarono inorriditi quelle due braccia – se si potevano chiamare braccia – che si alzarono anch’esse progressivamente, e si resero conto che la cosa non era… una creatura immersa nel liquido, ma che il liquido stesso aveva fatto uscire quell’orribile collo e capo, e stava formando le braccia che brancolavano verso di loro con appendici simili a tentacoli al posto degli artigli o delle mani. Poi tutta la massa del fluido grigiastro cominciò a salire e riversò sul pavimento un torrente grigio, che prese una forma ondulante e sviluppò immediatamente più di una dozzina di corte gambe.

Gli occhi senza occhi lo fissarono senza espressione.

Cirannor si fermò.

«Uccidi», ordinò il pastore.

Cirannor alzò e abbassò la spada con un movimento metodico e instancabile, cercando di fronteggiare quella cosa. Mani tentacolate si stringevano ai suoi arti e uncini lo artigliavano alle spalle. Denti piccoli e acuminati gli laceravano le braccia. Le membra gommose lo tenevano inchiodato. Non riusciva ad avanzare per il peso di quella cosa dalle troppe zampe.

Sul volto pallido del sacerdote una maliziosa allegria. Rise mentre le sue mani si muovevano, mollemente, come se avessero una volontà propria, recitando movimenti arcani di un intricato incantesimo.

Poi un bagliore rosso-arancione gli apparve sul palmo.

Cirannor cercò di spostarsi di lato, ma quegli arti mollicci lo tenevano fermo.

Una palla di fuoco, a malapena più grande del pugno di un uomo, lo colpì in pieno petto e lo mandò a sbattere contro il muro del tempio. I banchi e la cosa dalle troppe gambe divennero cenere in un unico momento di gloria incandescente. Il fuoco oscurò i pilastri di pietra, scolpì le incisioni dorate e leccò avido i bordi delle vetrate. Poi, svanì.

Il prete rise, e ogni speranza lasciò il cuore di Iyana.

«Sembra che siamo di nuovo soli.»

Iyana non poteva muoversi.

L’ultima cosa sentì fu la risata del sacerdote.

L’ultima cosa che odorò fu la carne bruciata.

L’ultima cosa che vide fu la lama.

L’ultima cosa che percepì fu il pugnale nel suo cuore.

 

Cirannor bandì il dolore nei recessi della sua mente, come l’avevano addestrato a Uldhar, e cercò di recuperare la spada.

Il prete estrasse il coltello insanguinato dal petto di Iyana e lo sollevò al cielo, lasciando che il liquido rosso gocciolasse lungo il suo braccio e da lì sul pavimento.

L’altare dissacrato pulsava di vita oscena. Il rituale era quasi completo.

«Presto, lo avrò. Presto, sarò immor…»

La lama di acciaio emerse dal suo petto e interruppe la sua frase.

«Sembra che qualcuno non abbia detto la verità» sussurrò una voce nel suo orecchio.

La spada fu rimossa con un suono umido, quasi organico.

Il sacerdote si accasciò sul pavimento. Le sue mani cercarono di modellare simboli arcani, le sue labbra di pronunciare le parole per un’evocazione, ma il suo corpo si rifiutò di obbedirgli.

«Come… sei sopravvissuto?» Gorgogliò.

«Uldhar…» Mormorò Cirannor in tono cupo.

«Gli insegnamenti di Menes…» mormorò quello schifato.

«Vai a incontrare il tuo rospo!» Berciò Cirannor abbattendo la sua spada felina sul collo. La testa rotolò via, il corpo rimase a terra a membra divaricate.

Sul pavimento in una pozza di sangue.

Iyana avvertì la sua vita appassire. Poteva sentirla scivolare fuori dal cuore.

Un’ombra la coprì.

Lei girò debolmente la testa e lo riconobbe.

Cirannor appoggiò la spada sul pavimento e le si inginocchiò accanto. Sospirò, come se fosse deluso da qualcosa.

«D-dun…e…» disse Iyana in un bisbiglio indistinto. Le sue dita nervose raschiarono la superficie del pavimento di marmo.

«Questo è il momento di chiudere gli occhi» disse Cirannor.

Una mano ruvida le asciugò il sangue dalla bocca.

Lei alzò lo sguardo e sorrise. Poi non vide più nulla.

Cirannor le chiuse dolcemente gli occhi.

La portò in braccio fino alle dune.

Poggiò Iyana in una piccola depressione sabbiosa.

Il corpo dell’Areia si sciolse in centinaia di granelli di sabbia e si confuse con le dune. Cirannor si guardò intorno e si chiese se tutta quella sabbia, tutte quelle dune, fossero i corpi delle Areias che avevano vissuto lì. Poi si allontanò alla luce dell’alba.