UNA FARFALLA NELLO SPAZIO
di Ido Franco Maria Beltrami
L’analisi del Supporto Vitale era tra i compiti primari all’interno della Stazione Spaziale Internazionale e avveniva ogni due ore, un allarme sonoro lo ricordava a tutti i membri dell’equipaggio presenti nei moduli centrali. La verifica avveniva all’interno del modulo Tranquillity, dove c’era l’interfaccia elettronica per le verifiche. Invece, i controlli relativi alla parte sistemistica si effettuavano nel modulo Harmony, la vera centrale energetica della stazione. La ricarica delle batterie per opera dei pannelli solari, il sistema di aerazione e purificazione dell’aria, lo stato di efficienza dei propulsori adibiti alla correzione dell’orbita e molti altri parametri potevano essere monitorati dalla consolle centrale.
Viktor eseguiva tutte le verifiche aiutato dalla check-list riportata sul tablet che teneva in mano: leggeva il controllo da eseguire, osservava il monitor e spuntava la voce passando alla stringa successiva. Venti minuti, tanto duravano i test. Se qualcosa fosse andato storto avrebbe dovuto svegliare gli altri due compagni e cercare una soluzione, insieme agli specialisti del centro di Controllo Missione, che li avrebbero guidati dalla Terra.
Ma quella era una notte tranquilla. Da quando Chang, il suo collega cinese, lo aveva svegliato per il suo turno di guardia alle due di notte del fuso di Greenwich, quello di riferimento, non c’era stato nessun allarme, nessun livello in arco rosso.
Terminati i controlli, Viktor si rilassò stendendo le braccia al di sopra della testa mentre un brivido lo attraversava per tutto il corpo. Ora non restava che far passare il tempo, leggendo un libro, ascoltando musica, o entrambi. Durante quelle ore, erano vietati gli esperimenti che si tenevano negli altri moduli/laboratorio perché spesso si usavano apparecchiature che richiedevano grandi valori di corrente assorbita, e questo poteva causare surriscaldamenti nei circuiti elettronici, con gravi conseguenze. Bisognava essere almeno in due, per ovvi motivi di sicurezza. Perciò, a Viktor non rimaneva che starsene buono a verificare lo status della Stazione ogni ora, nell’attesa che si facessero le sei del mattino, quando avrebbe svegliato Bob, l’ingegnere di bordo.
Viktor era un Astrofisico ed era sulla ISS per delle osservazioni astronomiche. Il potente telescopio che aveva a disposizione era unico nel suo genere. Sulla Terra ce ne erano di più potenti, ma questo era in una condizione favorevole: poteva osservare le stelle senza il filtro dell’atmosfera terrestre ed essere fisicamente controllato da un uomo, al contrario di quelli mandati in orbita che eseguivano un programma preimpostato. Il che era perfetto per gli studi che conduceva Viktor, rivolti all’osservazione di stelle morte nel tentativo di scoprire qualche altro tassello che spiegasse la nascita dei buchi neri. Fin da piccolo, aiutato da un inquinamento luminoso pressoché nullo, aveva sempre osservato le stelle e i pianeti più vicini, nelle campagne a sud di San Pietroburgo, con il telescopio giocattolo che aveva vinto a un concorso scientifico indetto dalla scuola elementare che frequentava. Questi concorsi venivano usati dallo Stato per identificare le giovani menti più brillanti del Paese; una volta scovate, queste venivano seguite e incoraggiate negli studi, ma la Madre Russia le avrebbe anche allontanate dalle famiglie di origine, con la promessa di un futuro glorioso per l’allievo e un generoso sussidio per i familiari.
Così era andata anche per Viktor. Già all’età di quindici anni aveva dato prova di avere una mente matematica pura. In più, eccelleva in tutte le discipline scientifiche con una naturale predisposizione per l’astronomia. Poco più che ventenne, aveva conseguito la laurea in astrofisica e cosmologia partecipando a numerose ricerche scientifiche dove la sua capacità di calcolo e previsione erano emerse fin da subito, guadagnandogli il soprannome di Sreda, medium in russo. Terminati gli studi, il governo lo aveva convinto ad arruolarsi come ufficiale dell’aviazione, tappa obbligata per entrare a far parte della Roscosmos, l’Agenzia Spaziale Russa. Per Viktor era stato come veder realizzato il sogno della sua vita: aveva accettato, nonostante la sua riluttanza per la vita militare e, dopo un addestramento durato due anni, era entrato nella lista degli idonei per il programma spaziale.
Ora si trovava nella ISS da dodici ore. Una Soyuz lo aveva portato a quattrocento chilometri di quota e si era agganciata alla Stazione permettendo il suo trasbordo, insieme a una quantità smisurata di viveri, apparecchiature e materiale di supporto in cambio di due suoi colleghi americani che avevano terminato il loro turno, e di contenitori sigillati con gli scarti corporei degli ultimi mesi. Dal suo arrivo alla Stazione, il giovane russo aveva dovuto portare a termine una serie infinita di operazioni e compiti prestabiliti, tra cui dormire per quattro ore, cosa che non era comunque riuscito a fare per l’adrenalina che gli scorreva nelle vene.
Ora, finalmente, con la check-list ancora in mano, era di fronte alle prime tre ore e mezza di libertà. Sapeva cosa fare. Attendeva questo momento da quando il suo capo reparto gli aveva comunicato che era dentro il programma spaziale.
Aiutandosi con le maniglie che spuntavano a intervalli regolari dalle paratie, iniziò a spostarsi verso la parte bassa della Stazione. Si era abituato presto all’assenza di gravità: le ore di addestramento, passate all’interno della piscina, appositamente equipaggiata nel Centro Addestramento Astronauti di Houston, avevano dato i loro frutti.
In pochi secondi raggiunse la sua meta. Il modulo Cupola.
Viktor sorrise, agganciandosi alla maniglia e fermandosi lungo la parete. Rivolto verso la Terra, il modulo era leggermente più piccolo degli altri e dal lato opposto al portello d’ingresso c’era il grande oblò diviso in sei spicchi uguali con al centro una grande apertura di ottanta centimetri di diametro. Lui rimase per un attimo sulla soglia, con il cuore che gli batteva nel petto e il sorriso che gli si allargava sul viso; poi fece per muoversi in avanti, ma si bloccò, colpito da un’idea.
Si spostò verso destra e spense le luci delle tre plafoniere tramite un interruttore. Subito dopo, una flebile luce azzurra si svelò ai suoi occhi. Viktor li chiuse e stette fermo per qualche decina di secondi, cercando di abituare le sue pupille all’oscurità. Quando li aprì nuovamente, la luce che proveniva dall’esterno sembrava più brillante.
Si diede una leggera spinta e percorse quei pochi metri per inerzia. Mano a mano che si avvicinava, lo stupore gli si apriva sul viso mentre gli occhi gli si sgranavano fino a lacrimare, complice la commozione.
Aveva di fronte ai suoi occhi la Terra che scorreva sotto di lui a una velocità vertiginosa. A quasi trentamila chilometri orari, la Stazione compiva quindici orbite intorno alla Terra in ventiquattro ore e, da lassù, gli effetti erano straordinari. Gli ricordava di quando faceva girare velocemente il suo mappamondo e guardava i contorni dei continenti deformarsi e mescolarsi fra loro. Ora come allora, intravedeva gli oceani e la terraferma, macchie blu e verdi che si confondevano nel candore striato delle nuvole. Da lassù si vedeva bene anche l’orizzonte, la prova inconfutabile che la Terra era rotonda. Sorrise.
A un tratto, una lama di luce lo accecò. Il Sole era spuntato da dietro uno specchio solare della Stazione. Ovvio, stavano sorvolando la porzione di Terra dove era giorno, presto avrebbe visto la zona in ombra. Dopo una ventina di minuti comparve la divisione tra giorno e notte, una larga striscia in penombra, una sfumatura scura tra due realtà che si inseguono da milioni di anni, sempre allo stesso modo, in perfetta sincronia. Se Viktor si meravigliò dei colori diurni, con l’oscurità ebbe un moto di stupore da togliergli il fiato. Man mano che i colori si fondevano in un’unica sfumatura scura, comparivano le luci, dapprima impercettibili, delle grandi città illuminate. La Stazione stava sorvolando l’Europa, una costellazione di luci disordinate che si mostravano agli occhi del giovane astronauta come le fluorescenze marine generate dal plancton, un universo in scala ridotta con le sue galassie e le sue nebulose.
Viktor avrebbe voluto che i suoi occhi si riempissero con quell’immagine surreale, ma era impossibile da quella distanza. A un tratto, però, il suo sguardo prese una direzione precisa: San Pietroburgo. Intravvide le luci della città, il disegno che esse formavano e che lui avrebbe riconosciuto in mezzo a un miliardo di stelle. Un po’ più a sud, in un’area buia, c’era la sua Vyrista. Questo pensiero gli mise un po’ di nostalgia. Chissà cosa stavano facendo i suoi genitori. Sapeva che il Governo di Mosca li informava periodicamente sulle sue condizioni attraverso delle brevi telefonate da parte di un funzionario. Le informazioni erano sempre le stesse, che stava bene e che serviva lo Stato con onore dando lustro alla sua famiglia e alla Russia intera. Si era sempre domandato se in caso di problemi, o se gli fosse capitato qualcosa, la cantilena sarebbe rimasta la stessa o il funzionario avrebbe detto loro la verità. Certamente non voleva scoprirlo. Pensava spesso ai suoi genitori, il padre Ivan con la sua officina meccanica, la madre Katyusha, insegnante di matematica e geometria nell’istituto tecnico della città. Era stata lei a insegnargli la matematica e a gioire quando, a soli quattro anni, il suo bambino prodigio aveva già imparato le quattro operazioni. Sapeva che per Viktor ci sarebbe stato un destino che lo avrebbe portato via da Vyrista e anche da San Pietroburgo, ma, probabilmente, mai aveva pensato che sarebbe arrivato così lontano, così in alto. Mentre il padre desiderava che il suo ragazzo si appassionasse ai motori, così da potergli passare le redini della sua attività, anno dopo anno Viktor aveva trascorso tutto il suo tempo libero a studiare i testi che la madre gli passava, libri sempre più difficili, teoremi sempre più astratti. L’unica distrazione erano stati i folti capelli rossi di Ivanna, la figlia dei Petrov, i vicini di casa. Dopo la sua partenza per Mosca l’aveva vista qualche volta quando tornava a casa per la pausa estiva, poi più nulla. La madre gli aveva detto che era andata da una zia in una grande città di cui non ricordava il nome, forse Kazan. Ormai erano passati anni dall’ultima volta che l’aveva vista.
Sarà certamente fidanzata o sposata, pensò. Peccato. Ma, del resto, io ho scelto di concentrare le mie energie verso un obiettivo… più alto.
Rimase ancora un po’ con il naso contro l’oblò. Le fotografie della Terra scattate dallo spazio non le davano giustizia. Viktor sospirò, volgendo lo sguardo lontano, verso il vuoto infinito.
Fu in quell’istante che qualcosa cambiò.
D’un tratto, con una vertigine, i contorni del suo spazio visivo dapprima si offuscarono, poi scomparvero, come se lui non fosse più all’interno del modulo ma si fosse proteso in avanti, oltre la finestratura. Ebbe la sensazione di starsi allontanando dalla Stazione, o meglio, come se stesse zoomando con l’ottica del telescopio, un ingrandimento che non terminava mai la sua distanza focale. E accelerava sempre di più. Vedeva le costellazioni ingrandirsi e scomparire dietro di lui. Il suo cuore sembrava volesse uscire dalla gabbia toracica e il respiro affannoso lo stava mandando in iperventilazione, ma era lì, nella sua folle e meravigliosa corsa e voleva continuare a vedere.
I suoi occhi si abituarono presto a quella velocità, di tanto in tanto percepiva dei cambiamenti di direzione, come se qualcuno lo stesse portando per mano, una Beatrice invisibile alla scoperta del Paradiso celeste. Un punto rosso apparve nel centro della sua visuale e, man mano che si avvicinava, questo assumeva una forma ben definita. Era la Nebulosa del Rettangolo Rosso, nei pressi della costellazione dell’unicorno; più a destra intravedeva già Rosetta, un’altra Nebulosa che ricordava il fiore, sia nella forma che nel colore. Viktor si lasciò sfuggire un gemito sfiatato. Era straordinario poterle ammirare senza filtri, i colori, le venature generate dagli enormi ammassi gassosi e pulviscolo stellare marmorizzavano il nero profondo dello sfondo. Virò di poco verso il centro della Costellazione di Orione e riconobbe subito Betelgeuse, una supergigante rossa e la Nebulosa Testa di Cavallo, a est della Cintura. Proseguendo verso il Toro scorse la magnifica Nebulosa del Granchio con il suo cuore azzurro intrappolato in un rovo di spine rosse, poi la sua velocità diminuì bruscamente fino a fermarsi.
Viktor rimase sospeso nel vuoto, rapito dalla meraviglia e dall’abisso stellare; dopodiché iniziò ad andare all’indietro, sempre più rapido. Con un’accelerazione che non diminuiva, si sentiva il cuore in gola, le vertigini lo assalirono e uno strano senso di euforia lo pervase, come quando, da piccolo, andava sull’altalena e buttava indietro con la testa nel tentativo di indursi quella sensazione. La sua visuale cambiò prospettiva, ora guardava avanti, era dinanzi a un occhio che lo fissava, il centro della Nebulosa della Clessidra, nella costellazione della Mosca. I suoi enormi anelli purpurei fiammeggiavano, ricordandogli i cerchi infuocati dei giocolieri da strada che vedeva da bambino durante la fiera estiva. Fece una brusca virata e la sua velocità aumentò notevolmente, le stelle intorno a lui sfilavano veloci in una pioggia luminosa fino alla Costellazione dello Scorpione, poco più in basso della rossa Antares, una delle Nebulose più straordinarie che l’uomo abbia mai osservato, nei i suoi duecentomila gradi Kelvin; la Farfalla volteggiava nel cielo oscuro con le sue enormi ali, due veli traslucidi dalle sfumature rosa, e…
Viktor strabuzzò gli occhi. Conosceva bene quella Nebulosa, l’aveva osservata a lungo dai telescopi sulla Terra. Allora, che cos’era quella stella sotto l’ala superiore? Quella sorta di pulsare ritmico, come un piccolo cuore di luce?
– Viktor, Viktor! –
Viktor ebbe un sussulto, in un attimo fu pervaso da un forte senso di vertigine unito a nausea, gli girava la testa e la sua visione periferica tornò a inglobare le cerniere del grande oblò del Modulo Cupola. Bob, L’ingegnere e responsabile del programma lo chiamava dal portello di accesso.
– Viktor, mi senti? Tutto bene? –
– Sì –, rispose, mentre il respiro tornava a essere più profondo e meno concitato.
– Ma che ci fai in piedi a quest’ora? –
– Sono le sei, è il mio turno di guardia. Tra due ore si sveglierà anche Chang e tu potrai andare a riposare, ma se non ti senti bene… – replicò Bob, dubbioso.
Viktor scosse la testa, continuando a fissare l’orologio. Non si capacitava. Com’era possibile che fossero passate quasi quattro ore senza che lui se ne rendesse conto? Avrebbe giurato di essere stato nella Cupola solo per dieci minuti, al massimo venti.
– Ti va un caffè? – tornò a interrogarlo il collega. – Saliamo di sopra e ce ne facciamo uno a testa. La macchina che ha portato Samantha funziona alla meraviglia, Italian espresso is the best! –
– No –, rispose Viktor, lentamente. – Ti ringrazio, ma devo verificare una cosa. Ora che siamo in due posso usare il telescopio, giusto? –
– Certo –, rispose Bob, ritrovando il buonumore. – Non vedi l’ora di usarlo, eh? –
Viktor non replicò, né rispose al suo ammiccamento. Si staccò dall’oblò e si diresse con delle poderose spinte verso l’ingegnere, che si scostò di lato per farlo passare. Per un attimo gli parve di udirlo borbottare che non c’era bisogno di tutta quella fretta, che gli urti accidentali potevano essere dolorosi anche senza gravità, ma lui smise di ascoltarlo ed entrò nel Modulo Kibo, il più grande della ISS, e si diresse verso il monitor del telescopio.
Accese i sistemi di osservazione astronomica e attese che i valori di temperatura delle lenti raggiungessero il range predefinito. Le dita agili volarono sulla tastiera, inserendo codici e stringhe per comandare il puntamento: Nebulosa della Farfalla, Costellazione dello Scorpione. Sul monitor apparve la scritta WAIT e un countdown che partì da venti secondi. Viktor si morsicò il labbro, divorato dall’ansia. Tamburellò le dita, poi, al termine del conto alla rovescia, un altro monitor più grande sopra la sua testa si illuminò, mostrando la stessa immagine che qualche istante prima, o qualche ora prima, stava ammirando.
I suoi occhi andarono subito a cercare la fonte luminosa intermittente sotto l’ala superiore, ma non trovò nulla. Deglutendo un groppo di delusione, rivolse nuovamente lo sguardo sul monitor di controllo del telescopio e inserì i dati per ingrandire ulteriormente l’area. WAIT apparve nuovamente, ma scomparve subito e contemporaneamente la schermata del monitor per le osservazioni cambiò, mostrando una porzione di nube rosa.
Viktor assottigliò gli occhi, scrutando l’immagine fino a farseli lacrimare, ma niente. Evidentemente, doveva esserselo sognato. Sospirò, passandosi una mano sulla faccia. Era chiaro: la spiegazione più razionale di quello che era successo è che si era addormentato nella Cupola e aveva sognato tutto. Un sorriso stanco gli incurvò le labbra.
Beh, pensò. Le mie prime ventiquattro ore all’interno della ISS sono state comunque emozionanti.
Ripensò al caffè offertogli da Bob. Prima che la sua collega Cristoforetti della Asi portasse la macchina zeroG, il caffè era una brodaglia calda zuccherina che poco somigliava alla prelibatezza che ora potevano gustare. Tutti i cibi liquidi dovevano necessariamente essere dentro delle bustine sigillate e consumate per mezzo di cannucce. In questo modo gli odori non potevano propagarsi e la “pratica” di bersi un caffè per convivialità non era tra le priorità degli equipaggi. Nessun odore, solo il gusto di un caffè diluito in acqua e zucchero: un orrore. Ora potevano gustare un vero espresso, e al diavolo l’assenza del profumo: era abbondantemente compensata dalla cremosità del liquido. Certo, l’espresso sulla Terra era tutta un’altra cosa, con i bar italiani, le loro macchine a pressione, il vapore che scaldava le tazzine…
A un tratto, Viktor sobbalzò.
– Il vapore! – esclamò.
In un baleno, nuove stringhe di comandi vennero inserite dalle veloci dita dell’astronauta. Più di una volta dovette premere convulsivamente il tasto CANC per correggere gli errori dovuti all’emozione, mentre il suo cervello galoppava a mille all’ora. Ma certo! Come aveva fatto a non pensarci prima? La Nebulosa della Farfalla era visibile solo attraverso la ionizzazione delle particelle di idrogeno di cui erano formate le nubi di gas. Per questo lo schermo non era riuscito a individuare la stella. Ma, forse, se avesse provato con il filtro ultravioletto…
Viktor si leccò le labbra, sentendo un rivolo di sudore gocciolargli lungo la tempia. Inserì la stringa corretta, poi provò a osservare l’area puntata dal telescopio sotto la luce ultravioletta.
Niente.
Riprovò con lo spettro visibile.
Niente, come la prima volta.
Imprecò, battendo col piede contro il pavimento. Solo in quel momento gli venne l’idea di tentare con l’infrarosso. Digitò la stringa e poi stette ad aspettare, mentre sullo schermo le ali della grande farfalla cambiavano colore. Le sfumature rosee mutarono in due ali più piccole rosso fuoco.
Poi, sotto l’ala più alta comparve una piccola fonte luminosa pulsante.
Viktor si sentì esplodere dalla felicità.
– Eccola! – esclamò. – Finalmente ti vedo. –
Con dita tremanti, premette REC sulla consolle. Solo un video avrebbe potuto dirgli se la sua intuizione era corretta. Dopo un paio di minuti che gli parvero durare anni, Viktor fermò la registrazione e avviò l’analisi. La potenza di calcolo dei computer di bordo era notevole e ci vollero solo pochi minuti per avere i risultati, ma per lui passarono lenti e insopportabili come secoli trascorsi all’inferno.
Alla fine, quando ormai credeva di non farcela più ad aspettare, una fessura sulla consolle sputò il risultato. L’oggetto, forse un piccolo pianeta, emetteva radiazioni luminose con una frequenza elevatissima con durata e periodicità misurabili. Viktor lesse e rilesse i dati mentre il computer generava un tabulato numerico binario. Righe, colonne, altre righe prive di significato apparente. Ma non tutto era come sembrava, nel linguaggio matematico, e questo lui lo aveva imparato da sua madre. Fu pensando a lei che gli venne in mente di chiedere al software di cercare una periodicità in quei dati. Poco dopo, Viktor si ritrovò a fissare qualcosa che mai avrebbe pensato di osservare. Qualcosa che nessuno, nella storia dell’uomo, aveva mai visto prima.
– Oh, mio Dio –, sussurrò e, d’un tratto, si sentì svenire.
Quello che stava guardando era qualcosa che si ripeteva nel tempo, impulsi che venivano emessi in sequenze identiche tra loro, intervallate da altre molto più lunghe. Era come un telegramma. La prima sequenza indicava l’inizio della trasmissione, poi veniva trasmesso il messaggio e, alla fine, c’era un’altra sequenza che indicava il termine della trasmissione.
Viktor trattenne il respiro. Gli occhi gli diventarono fluidi, non sbatteva più le palpebre da troppi secondi. Quello che stava osservando era la prova di un’intelligenza complessa che si trovava a migliaia di anni luce dalla Terra. Chi, cosa, come… troppe erano le domande che gli balenavano in mente, ma era presto per dare o anche solo cercare delle risposte. La cosa straordinaria era che quella scoperta l’aveva fatta per mezzo di un sogno o di una visione, certamente non per un caso fortuito. E se fossero state quelle intelligenze aliene a far sì che accadesse? Come lo avrebbe spiegato ai suoi colleghi? Cosa avrebbe detto all’intera comunità scientifica?
Fissò ancora per un attimo il ripetersi di quel messaggio, inizio, parole in una lingua ignota, fine, e poi ancora, e ancora, da chissà quante eternità di eternità – e, d’un tratto, capì che non gli importava. Che avessero creduto ciò che volevano di lui.
Si girò verso il pannello per le comunicazioni e impostò il selettore su TALK.
– Bob –, parlò. – Mi ricevi? –
Dall’altra parte si udì una lieve scarica elettrostatica.
Poi, forte e chiaro: – Certo, parla pure. –
– Potresti venire? Devo mostrarti una cosa. –