Regia: Michele Soavi.
Soggetto: Lorenzo Favella e Michele Soavi (dal romanzo di Massimo Carlotto).
Sceneggiatura: Marco Colli, Franco Ferrini, Michele Soavi, Gino Ventriglia.
Aiuto regista: Barbara Daniele.
Fotografia: Gianni Mammolotti.
Montaggio: Anna Napoli.
Musica: Andrea Guerra.
Anno: 2005.
Nazione: Italia – Francia.
Produzione: Studiourania, Raicinema, Exception Wild Bunch.
Prodotto da: Conchita Airoldi e Dino Di Dionisio.
Cast: Alessio Boni, Michele Placido, Isabella Ferrari, Alina Nedelea, Carlo Cecchi, Antonello Fassari, Riccardo Zinna, Mario Berasategui, Alessio Caruso.
“Dopo aver fatto Dellamorte che era un film sui morti viventi, aspettavo finalmente un’idea per fare un film sui vivi morenti perché noi raccontiamo persone comunque vive ma che sono fortemente ammalate dalla società”.
Michele Soavi, nello speciale “I vivi morenti” contenuto nel dvd.
Giorgio Pellegrini (Alessio Boni) è un ex terrorista che per sfuggire alla giustizia si è rifugiato in una selva del Centro America lambita da un fiume limaccioso. Ma vuole tornare un uomo libero alla luce del sole, così ottenuto un passaporto falso arriva a Parigi dove incontra un ex compagno sistemato con famiglia e una carriera da scrittore di noir. Roso dall’invidia, giunge in Italia dove cade nelle mani del vicequestore della Digos, Anedda, il quale lo ricatta fino al tradimento degli ex terroristi in cambio della libertà e un ritorno a una vita normale, rispettabile. Ma è proprio la società che deve riabilitarlo che lo inizia al crimine, Anedda infatti è un poliziotto corrotto che lo usa per i suoi traffici. Quando finalmente sembra aver chiuso per sempre e a un passo dalla riabilitazione dopo i cinque anni previsti dalla legge, proprietario di un ristorante e ormai prossimo alle nozze con l’ingenua Roberta, il passato ritorna e dovrà per forza scegliere il male.
“Mi piace il salto operato in questo romanzo che, come dice Carlotto, vuole essere prima di tutto un’indagine senza veli sul mondo contemporaneo. Niente più ricerca dei colpevoli: tutti sono colpevoli; niente più ricerca della verità: l’unica verità è la morte. Giorgio Pellegrini, quello che ha sbagliato, può essere riabilitato dalla società borghese che, un tempo, ha rinnegato, soltanto con la sua personale perdizione. La pecora nera che si è macchiata di nera ingratitudine dovrà tingere la sua anima di nero per potere vivere, insieme a tutti gli altri, in un mondo tutto nero”. Michele Soavi.
Così commenta il regista nelle note del dvd, che dopo ben undici anni (Dellamorte Dellamore, 1994) e fiction alle spalle torna sul grande schermo, ma ahimé per i fan che ci speravano fino all’ultimo, non con un horror, bensì un noir.
Una storia spietata, dura fino al midollo, abitata da “eroi negativi” che eroi non sono, pervasa da un clima torbido e malato a partire dal protagonista che non può raccogliere le simpatie di nessuno, tantomeno del pubblico, schiacciato dalle sue scelte condizionate o presunte, tratta da un romanzo che il suo stesso autore, Massimo Carlotto così definisce:
“L’idea di Arrivederci amore, ciao nasce dal desiderio di scrivere un romanzo sulla parte peggiore della mia generazione. Quella che ha imboccato la scelta scellerata della lotta armata e, una volta sconfitta, ha scelto di non pagare il conto con la giustizia e tra pentitismo, delazione e ricatti è riuscita ad evitare l’ergastolo. Come autore non solo sono soddisfatto della trasposizione cinematografica, ma ne sono veramente entusiasta. Da parte di tutti coloro che hanno lavorato alla sua realizzazione c’è stato un grande rispetto dei temi e dei personaggi del romanzo. Sono rimasto colpito dalla profondità di analisi del mio lavoro che ho potuto verificare parlando con Michele Soavi, Alessio Boni e il “cervello” di tutta l’operazione Conchita Airoldi. Ho anche apprezzato molto le parole che Isabella Ferrari ha speso pubblicamente sul mio romanzo. Osservando dall’esterno le varie fasi di lavorazione ho sempre avuto l’impressione di una sorta di entusiasmo collettivo che ha dato una forza particolare a questo lavoro”.
Dunque se il passaggio dal testo alle immagini è confermato con lode dall’autore, non meno importante è stata la riuscita della pellicola sul piano tecnico grazie all’ottima mano di Soavi, mai statica, sempre in movimento con gru e carrelli acrobatici ma funzionali alla storia e al suo ritmo nonché alla visionarietà:
“Ho girato un film ossessivamente a fuoco: i personaggi, la scenografia, la natura stessa. Come riferimento Il coltello nell’acqua di Polanski, quel lago misterioso sempre sul fondo, quell’acqua scura da cui sembra dover emergere, da un momento all’altro, un essere fantastico. Ecco, l’acqua è un elemento importante del film, ma non un’acqua limpida, che lava, catartica. Un’acqua nera, invece, l’acqua dei canali del nord-est, da cui si levano vapori e nebbie. Un’acqua che riporta sempre Giorgio al suo passato, all’acqua di quel fiume del Centro America, acqua melmosa che imprigiona chi, avventatamente, vi cammina dentro e lo trascina giù nel fango.”
E come è noto l’acqua è un elemento ricorrente nell’immaginario di Soavi fin dall’esordio, con quel primo ciak intitolato durante la lavorazione Aquarius poi diventato Deliria interamente battuto da una pioggia torrenziale e nello stesso Arrivederci amore, ciao come ci ricorda il regista che si apre sulle acque sporche di un fiume per terminare sotto un acquazzone che lava via fango e coscienze:
“Le immagini e le inquadrature sono in perpetuo movimento perché nel loro divenire determinano un’inquietudine sempre presente, un’attesa di qualcosa che dovrebbe definirsi ma rimane sempre in sospeso.” Michele Soavi.
Non mancano nemmeno le citazioni e gli omaggi a grandi del passato e indubbi ispiratori del primo periodo horror, come Mario Bava, riproponendo la stessa nota scena della protagonista distesa sul letto con la massa di capelli fluttuanti privi di gravità del film Schock, realizzata assicurando l’attrice a un letto girevole che permette di essere seguito dalla camera e dare quel senso di vertigine e delirio: “…questa sensazione tra la leggerezza, l’incubo, la paranoia e il malessere…” ci conferma Soavi. E l’altra che vede protagonista il luciferino Anedda interpretato da un grande Michele Placido, ripresa da Morte a Venezia dove la tintura di scarsa qualità usata da Placido si scioglie sull’espressione del morto nel bagagliaio come accade a Bogart.
Dichiara inoltre che il modello di ispirazione per il suo vicequestore sardo dalla masticazione perpetua da “ruminante” è ispirato al Cattivo tenente (1992, Abel Ferrara) interpretato da Harvey Keitel.
Oltre all’elemento acqua, un altro topos del cinema soaviano è la caduta, il perdere qualcosa, in questo caso è il crocefisso della fidanzata del protagonista, non soltanto un elemento religioso, ma molto di più, rappresenta la perdita, lo staccarsi di qualcosa che ritrova solo nel momento estremo della fine e che ricorda una scena de La Chiesa dove una croce di pietra si distacca per cadere negli abissi di un pozzo senza fine. Da segnalare la presenza nel cast di volti già noti come Carlo Cecchi già visto nel ruolo del serial-killer ispirato a Donato Bilancia in Ultima pallottola, qui nel ruolo di un avvocato trafficone, e la giovane e brava Alina Nedelea interprete di Roberta, la fidanzata, successivamente presente in Attacco allo Stato.
È indubbiamente un buon esempio di cinema italiano di genere e non solo, tra i migliori degli ultimi anni, gli attori non si risparmiano e vanno fino in fondo nel loro personaggio (“Alessio si è rivelato una grandissima persona perché l’ha preso veramente sul serio e ha studiato e lavorato tanto, io non mi aspettavo di avere da lui una corrispondenza così alta” confessa Soavi); la storia tratta dal romanzo di Carlotto è avvincente e convincente, sempre in movimento come richiede il noir, supportata da un’ottima fotografia che sottolinea gli stati d’animo e i passaggi dal drammatico al poetico, insomma un ulteriore prova della capacità di un regista (e della sua squadra) che dopo anni passati a consolidare temi e strumenti del mestiere attraverso il mezzo televisivo elevando la qualità dei prodotti fatti apposta per il cosiddetto piccolo schermo a una dignità superiore (ad esempio Uno Bianca, ma anche la vita del santo Francesco) senza dimenticare le difficoltà: “È stato un percorso veramente tortuoso, forse per la prima volta uno si rende conto quanto poi è difficile mettere su un film specialmente negli ultimi anni, e specialmente un film così, chiamiamolo difficile, che è un film anti, anti-tutto, anti pubblico, anti cineasta…”, è tornato al cinema e ora ci aspettiamo di rivederlo sul grande schermo finalmente con un nuovo capitolo di quegli orrori gotici e primordiali che ci avevano affascinato agli esordi.
“Vedo questo film come un film necessario, una metafora sul mondo che cambia ma non sa dove andrà, sulla realtà contemporanea. Una realtà prorompente ed invasiva come un’inondazione che porta con sé melma e detriti, proprio come fa un fiume in piena”. Michele Soavi.
(13 – continua)